La condizione lavorativa delle donne braccianti in Italia e in Spagna è quanto mai preoccupante, perché sono esposte alle dinamiche di sopruso del caporalato ancora più degli uomini. Ne esce un quadro drammatico che chiede soluzioni urgenti per arginare questo fenomeno.
La sera, quando i bambini andavano a letto, lui arrivava, mostrava la pistola e lei doveva ubbidire. I tentativi di resistere erano inutili perché minacciava di prendersela con i suoi figli e la denuncia alle forze dell’ordine è caduta nel vuoto. Il racconto delle violenze che Elena (pseudonimo per tutelare l’incolumità della testimone), bracciante di origine rumena, subiva dal proprietario di alcune serre nelle campagne di Vittoria, una cittadina di 64mila abitanti in Sicilia, in provincia di Ragusa, è uno dei tanti che ho raccolto nel corso del mio progetto, durato più di due anni, sullo sfruttamento lavorativo e le violenze subite dalle braccianti nel Mediterraneo. Sono stata nelle campagne di Italia, Spagna e Marocco, Paesi tra i maggiori produttori ed esportatori di ortaggi in Europa. Attraverso le interviste a oltre 100 donne e 30 tra sindacalisti, operatori sociali e ricercatori universitari, è emerso un sistema diffuso di violazioni dei diritti umani e del lavoro. Un terzo delle donne ha detto di essere stata molestata o stuprata dai superiori, la metà di essere stata abusata fisicamente e minacciata e tutte sono state maltrattate verbalmente e umiliate dai “padroni”.
Chi raccoglie buona parte della verdura e della frutta che arrivano sulle nostre tavole, contribuendo alle nostre diete ricche di fibre e vitamine, sono donne. Lavorano nella zona di Vittoria, in Sicilia, dove curano e raccolgono i pomodorini; in diverse aree della Puglia, dove badano a uva, ciliegie, olive, pomodori e peperoni; a Huelva, nel sud della Spagna, dove viene prodotta la maggioranza delle fragole e degli altri frutti rossi distribuiti in supermercati e mercati. Migliaia di braccianti che trascorrono curve le loro giornate, con temperature che superano i quarantacinque gradi, senza bere né mangiare per ore, pagate tra i seicento e i novecento euro al mese. Per avere un’idea dei numeri, si può considerare che soltanto in Italia, secondo i dati del rapporto Flai-Cgil 2016 a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto (Agromafie e caporalato. Terzo rapporto, a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto, Ediesse, Roma), su 430mila lavoratori vittime di caporalato e sfruttamento, il 42% sono donne. In certe zone più del 30% lavora nell’illegalità totale.
L’oro rosso italiano
Perché vengono impiegate le donne nei campi? Per cercare di rispondere a questa domanda è necessario considerare il contesto nel suo complesso. La massiccia presenza delle donne nelle campagne non è nuova. Per quanto riguarda l’Italia, infatti, sin dagli inizi del Novecento, dalla Puglia, all’Emilia-Romagna, al Piemonte, c’erano le tabacchine, le mondine, le gelsominaie. Nel corso dei decenni hanno lottato per salari adeguati, diritto alla malattia, trasporti sicuri e in molti casi le loro condizioni sono migliorate. Dagli anni ’90, però, a causa di vari fattori – la globalizzazione, la diffusione dell’agricoltura intensiva e della grande distribuzione, le riforme del lavoro che hanno portato all’erosione dei diritti fondamentali, l’arrivo di manodopera a bassissimo costo e in stato di estremo bisogno da Paesi più poveri – la situazione ha iniziato a peggiorare, catapultando le braccianti indietro nel tempo. L’offerta di manodopera, sproporzionata rispetto alla domanda, rende debole la posizione dei lavoratori, cosicché il ricatto del licenziamento scoraggia ogni rivendicazione, per quanto minima.
Le braccianti, come hanno raccontato le testimoni incontrate in Puglia, non sono nemmeno chiamate per nome ma con numeri da parte dei caporali, gli intermediari che reclutano le donne attraverso le agenzie e che spesso sono proprietari dei pullman che le portano da una provincia all’altra. I caporali controllano le operaie agricole, trasformandole in “polli da batteria”, per citare le parole del giornalista Alessandro Leogrande nel libro
Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud (Mondadori, Milano 2008).
Le lavoratrici si spostano ogni giorno con viaggi che durano anche quattro ore, tra andata e ritorno. Si alzano prima dell’alba e tornano a casa a pomeriggio inoltrato, dove ad aspettarle ci sono le incombenze domestiche e la cura dei figli. Questa era la vita di Paola Clemente: prendeva l’autobus ogni notte alle tre e mezza dal suo paese, San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto, per raggiungere Andria, a centosessanta chilometri di distanza. Lavorava fino alle tre e mezza del pomeriggio, per riprendere l’autobus per altre due ore. È morta il 13 luglio 2015, a 49 anni, per un attacco di cuore dovuto a una cardiopatia. In seguito alle pressioni della CGIL locale, del marito e dei figli, la Procura di Trani ha aperto un fascicolo sul caso. L’inchiesta non ha riguardato soltanto la morte della bracciante, ma il sistema di sfruttamento al quale era sottoposta con altre seicento raccoglitrici che, dopo mesi di paure e silenzi, hanno raccontato delle buste paga false e del compenso di 2 euro all’ora. A febbraio 2017 sono state arrestate sei persone, tra cui i direttori dell’agenzia di reclutamento e dell’agenzia che stipulava i contratti, con l’accusa di truffa ai danni dello Stato, intermediazione illecita, sfruttamento del lavoro. Gli arresti sono stati possibili grazie alla Legge n. 199/2016, che ha inasprito le sanzioni per i caporali e ha introdotto la responsabilità per i datori di lavoro (Legge 18 ottobre 2016, n. 199,
Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo).
In Puglia ci sono circa 40mila italiane e 18mila straniere gravemente sfruttate, come ha raccontato
un'inchiesta di Repubblica. Le donne vengono impiegate perché costano poco, guadagnano tra i cinque e i dieci euro al giorno in meno degli uomini e sono più ricattabili. Così spiega Gaia, 51 anni, che vive e lavora in provincia di Bari. «Io sono anche andata a zappare, un lavoro tipicamente maschile, mi hanno dato venticinque euro a giornata, mentre un uomo ne prende almeno quaranta». Lo sfruttamento non è episodico, poggia su un sistema ben organizzato. Le braccianti sono assunte con contratti a tempo determinato, anche quando lavorano per tutto l’anno per la stessa agenzia oppure per gli stessi caporali. In questo modo per i mesi non coperti dal contratto hanno diritto alla disoccupazione.
Altra pratica è quella della restituzione dei soldi in busta paga: questa viene fatta in regola, in modo da non avere problemi in caso di controlli, ma a fine mese una parte dello stipendio, tra i trecento e i quattrocento euro, deve essere restituita al datore di lavoro. Gaia è madre single di una figlia che va all’università. Secondo lei non avere un marito o un compagno aggrava la situazione di sfruttamento perché rende le donne più vulnerabili: la mancanza di protezione maschile espone la donna a pregiudizi e a maggiori vessazioni. Secondo lo stereotipo, la manodopera per certi tipi di frutta e verdura è in larga parte femminile, perché le donne si adattano meglio a questo tipo di mansione. Più precisamente, sono considerate «più delicate nel raccogliere la frutta», «predisposte geneticamente», e «pazienti». Si crede che abbiano maggiore resistenza, sopportino la sofferenza meglio degli uomini e siano sottomesse. Il lavoro femminile sottopagato genera ingenti guadagni sul territorio; il mercato ortofrutticolo di Vittoria è tra i più importanti d’Europa, con un valore di merce acquistata pari a 250 milioni di euro, senza contare il sommerso (cfr Fraschilla A. – Pedrotti G.,
«Crisi, mafia, speculazione sfuma l’oro verde di Vittoria», in
la Repubblica, 18 febbraio 2012).
Oltre al gap salariale e allo sfruttamento, le braccianti subiscono varie forme di violenza sul lavoro, una condizione che accomuna le lavoratrici locali e le migranti, queste ultime ancora più vulnerabili perché distanti da casa e devono ripagare le spese del viaggio e soddisfare le aspettative delle famiglie rimaste in patria, che aspettano le rimesse mensili. L’espressione “violenza sul lavoro” è un termine ancora poco usato in Italia ma viene impiegato a livello internazionale da diversi enti come l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), che cominciò a usarlo nel 1998. Anche il Dipartimento Occupational Safety and Health Administration (OSHA) degli Stati Uniti utilizza la definizione di violenza sul lavoro, con la quale indica «ogni atto o minaccia di violenza fisica, molestia sessuale, intimidazione, o altro comportamento minaccioso di disturbo che avviene sul lavoro. Va dall’abuso verbale all’omicidio». La molestia sul lavoro (
sexual harassment) invece è considerata non solo un abuso, ma anche un atto di discriminazione sessuale da una delle pioniere degli studi in materia, Catharine MacKinnon. Secondo la giurista e attivista americana, infatti, le molestie sessuali contribuiscono a mantenere le donne in una posizione subordinata e come accade per altre forme di violenza di genere, le donne vengono molestate in quanto donne (cfr MacKinnon C.,
Sexual Harassment of Working Women, Yale University Press, New Haven, 1976).
Le modalità della violenza sono molto simili, con qualche variazione in base ai territori, alle diverse modalità di reclutamento della forza lavoro e ai luoghi in cui vivono. In alcune zone, come raccontano due braccianti di origine rumena che abitano nella zona di Andria, il ricatto non viene nemmeno esplicitato verbalmente. «Succede con i caporali e con i padroni, dipende. Ti dicono che ti fanno lavorare soltanto se prendi un caffè con loro. C’è una tecnica che usano la mattina, senza bisogno di parole. Quando arrivano con il camioncino per portarci in campagna, fanno sedere davanti quella che gli piace di più. Si fermano al bar, prendono il cornetto e il caffè, lo mettono in auto, vicino al volante. Se la donna davanti mangia il cornetto e beve il caffè significa che ha accettato la richiesta di fare sesso. Se invece si compra da sola la colazione, capiscono che ha rifiutato e il giorno seguente non la prendono più. A me è successo spesso. Non accettavo la loro colazione. Il giorno dopo telefonavo e mi dicevano che era festa, che non avevano bisogno di me. Restavo a casa, disperata, disoccupata».
Anche a Vittoria le braccianti subiscono violenze sul lavoro. Nella miriade di serre che si estende fino al mare si coltivano i pomodori ciliegini esportati in tutta Italia e all’estero. Cinquemila braccianti rumene sono impiegate principalmente nella raccolta dei pomodorini (cfr Tondo L. – Kelly A., «Raped, beaten, exploited: the 21th-century slavery propping up Sicilian farming», in
The Observer, 12 marzo 2017). «Nelle campagne, al buio, in mezzo a occhi che non vedono, succede di tutto. La sera ci sono i festini agricoli. Si riuniscono più padroni, mangiano, bevono, fanno sesso. Le donne di turno spesso sono lavoratrici rumene con figli e devono fare buon viso a cattivo gioco. Me l’ha detto la gente che va nei campi e le donne che sono venute da me». Così racconta don Beniamino Sacco, parroco di Vittoria che oltre cinque anni fa ha iniziato a denunciare la situazione di violenza sul lavoro delle donne rumene durante la messa. Tutto è cominciato quando i proprietari delle serre sono comparsi in parrocchia accompagnati da giovani rumene incinte. Dicevano a don Beniamino di averle trovate per strada e di volergliele affidare.
Quando arrivano con il camioncino per portarci in campagna, fanno sedere davanti quella che gli piace di più. Si fermano al bar, prendono il cornetto e il caffè, lo mettono in auto, vicino al volante. Se la donna davanti mangia il cornetto e beve il caffè significa che ha accettato la richiesta di fare sesso. Se invece si compra da sola la colazione, capiscono che ha rifiutato e il giorno seguente non la prendono più
La denuncia è arrivata ai media, che se ne sono occupati con articoli e trasmissioni, ma al momento la situazione per le straniere non è migliorata,
secondo un rapporto pubblicato nel 2015 da Alessandra Sciurba e Letizia Palumbo. La ricerca conferma la denuncia di don Beniamino: «C’è una dinamica del ricatto: le donne migranti che lavorano nelle serre sanno che per mantenere il posto, presto o tardi, dovranno probabilmente assecondare le richieste sessuali dei datori di lavoro». Inoltre, tutti conoscono le dure condizioni di vita delle migranti, «ma poche persone e istituzioni decidono di prendere provvedimenti. L’omertà diffusa e il silenzio, causati dalla paura o dagli interessi personali, caratterizzano il comportamento dei cittadini e delle istituzioni politiche locali». È difficile dimostrare la percentuale di donne molestate. Un dato che fa riflettere è il tasso di aborti regolari: secondo i numeri contenuti nel rapporto di Letizia Palumbo e Alessandra Sciurba, all’ospedale di Vittoria ogni settimana ci sono circa otto aborti, dei quali tra i cinque e i sei di donne rumene.