COP 26 o piuttosto FLOP 26, come scrivono i siti degli attivisti più intransigenti? Il riferimento è al vertice sui cambiamenti climatici che si è tenuto a Glasgow dal 31 ottobre al 13 novembre. Fin dalle prime ore dopo la conclusione dei lavori sono apparsi commenti e valutazioni di segno estremamente diverso. La giovanissima svedese Greta Thunberg, icona dell’impegno per un futuro sostenibile, ha ripetuto che si è trattato di “bla bla bla” e di un festival del greenwashing, ma ha anche aggiunto che il vero lavoro continua altrove. All’estremo opposto, Boris Johnson, premier britannico e padrone di casa, ne ha definito i risultati un grande passo in avanti, pur essendoci ancora molto da fare. L’elenco delle posizioni che manifestano soddisfazione per alcuni elementi e delusione per altri è infinito; un buon esempio è il commento del WWF Italia: «Anche se il cambio di passo non è arrivato, e il testo concordato è lontano dalla perfezione, ci stiamo muovendo nella giusta direzione».
Sarebbe facile concludere con l’antico adagio, tendenzialmente relativista, del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. In realtà, questa varietà di reazioni ci dice che è possibile guardare la COP 26 da una pluralità di punti di vista. Non è quindi possibile interpretarla adottando un’unica prospettiva, magari quella più vicina alla nostra sensibilità, ma dobbiamo partire dal presupposto che vale la pena ascoltarle tutte se ci preme discernere in che direzione incamminarci insieme, non solo i Governi e neppure solo i giovani. Occorre quindi “fare un passo indietro”, smettendo di focalizzare tutta l’attenzione sulle singole questioni, per quanto importanti, per aprirsi a uno scenario più ampio, al cui interno i diversi punti di vista si confrontano. Per questa ragione, in queste pagine preferiamo non entrare nell’esame puntuale delle conclusioni della COP 26, ma considereremo piuttosto il contesto in cui va collocata.
1. I cambiamenti climatici in cima all’agenda globale
Dopo i due grandi vertici delle ultime settimane, la COP 26 e il G20 di Roma nei giorni immediatamente precedenti, possiamo dare per assodato che il clima rappresenta il tema dominante del dibattito pubblico mondiale, il fulcro della narrazione che serve a tutti come base per comprendere il mondo e ai media per raccontarlo. Svolge la funzione che in decenni ormai lontani era affidata al bipolarismo Est-Ovest, e successivamente alla globalizzazione economica e finanziaria, avendo ormai fatto passare in secondo piano il tema delle migrazioni e per certi versi persino quello che ha tenuto banco nell’ultimo biennio, ovvero la pandemia.
Da un certo punto di vista, possiamo ritenerlo un successo: la forza della natura (cioè l’aumento delle catastrofi climatiche come uragani, inondazioni e siccità) e la tenacia della vasta coalizione di scienziati, movimenti ambientalisti, leader religiosi, ecc. che da anni insiste sui temi della sostenibilità, sono riuscite a imporre la questione sull’agenda politica globale, come non si era riusciti a fare per altre cause, quali gli assetti del commercio internazionale, la speculazione finanziaria internazionale e le proposte di tassarla, o i brevetti in campo farmaceutico, vaccini inclusi. Ha potenzialmente grande valore il fatto che sempre di più ogni questione verrà affrontata cercandone le relazioni con i cambiamenti climatici, che diventeranno anche la ragione (e talvolta il pretesto) per giustificare scelte politiche. Questo aiuterà a mettere in evidenza le connessioni e allenerà il nostro sguardo a cercarle, a condizione di non trasformarsi in una scorciatoia per spiegare qualsiasi avvenimento senza analizzarlo.
2. La dinamica politica dei cambiamenti climatici
Segnalano questo passaggio di statuto della questione climatica alcuni elementi emersi in occasione della COP 26.
a) Non è (più) una questione (solo) tecnica
Da un punto di vista scientifico, la questione è risolta. Il consenso sul fatto che il clima si sta modificando come conseguenza delle attività antropiche e in particolare delle emissioni di gas a effetto serra è sostanzialmente unanime. Infatti, le resistenze si sono ormai spostate sul piano delle soluzioni, abbandonando quello della diagnosi. Di conseguenza, l’approccio tecnico-scientifico, con il suo linguaggio di scenari alternativi di andamento delle emissioni e conseguenti effetti sulla temperatura del pianeta, perde centralità. Diventa cruciale il costo delle misure di contrasto, o meglio il modo per ripartirne gli oneri. È qui che sono emerse le maggiori resistenze, che si tratti del promesso ma non approvato fondo con cui i Paesi ricchi avrebbero dovuto sostenere quelli più poveri nella transizione, di quella che è stata presentata come l’impuntatura dell’India sull’abbandono del carbone, o di quella dell’Italia e della Germania sui motori a scoppio, in nome delle esigenze della politica industriale nazionale. Nessuno più mette in discussione l’obiettivo, quanto piuttosto la scelta del percorso e della tempistica per raggiungerlo. Questa, però, non è una questione tecnica, ma squisitamente politica.
In altre parole, l’impegno per il clima dovrà parlare sempre meno il linguaggio della climatologia, e sempre di più quello dell’economia, della finanza, e soprattutto della politica, tenendo conto della dimensione sociale. Il passaggio della questione climatica a narrazione globale può rivelarsi prezioso, perché rende più facile evidenziare la necessità di convocare e integrare una pluralità di punti di vista. Soprattutto risulterà utile a smascherare i casi in cui il linguaggio della scienza, con la sua pretesa di incontrovertibilità, viene utilizzato a copertura di interessi di altra natura: la scienza è in grado di dirci, ormai con certezza, di quanto dobbiamo tagliare le emissioni, ma non di determinare la ripartizione dei tagli.
b) Il volto politico del negazionismo
In questo contesto è possibile rileggere e affrontare il fenomeno del negazionismo come una questione primariamente politica e non
cognitiva. Può funzionare come paravento di interessi economici precisi, nel nostro caso quelli dell’industria dei combustibili fossili, ma anche celare un malessere generato dal rifiuto delle politiche di contrasto, tipicamente per la loro natura “collettivista” che comprime la libertà individuale. È la stessa dinamica che porta a negare l’esistenza o la pericolosità della pandemia da COVID-19 come forma di resistenza all’invasività dei mezzi per il suo contenimento (mascherina e vaccinazione), percepita come intollerabile.
Proprio come nel caso del virus, anche il negazionismo climatico assume spesso la retorica della cospirazione, ipotizzando che i problemi siano creati ad arte per giustificare un aumento dei controlli sui cittadini: non a caso dalla denuncia della “dittatura sanitaria” ci si sta spostando a quella della “tirannia verde”. Può trattarsi di autentica convinzione, di necessità strategica in quanto si tratta dell’unica opzione disponibile per opporsi a un consenso scientifico accettato, o anche di un vissuto di marginalità politica e conseguente senso di impotenza. Si spiega così perché risulti inutile contrastare le posizioni negazioniste con strumenti quali il fact-checking. Vanno invece trattate nella loro valenza politica, a partire dall’impatto sulla dinamica della democrazia, che può risultarne inceppata. Infatti, quando una parte degli elettori decide sulla base di convinzioni errate, tutti ne subiscono le conseguenze, ad esempio perché si rende “scomodo” per i politici affrontare la questione del cambiamento climatico. Inoltre, come mostrano bene le vicende statunitensi più recenti, i complottismi favoriscono lo stallo politico perché riducono lo spazio della mediazione: è praticamente impossibile negoziare con chi si ritiene vittima di un complotto. A un livello ancora più profondo, queste teorie svolgono il ruolo di contronarrazioni in cui si possono riconoscere coloro che si sentono esclusi dalla narrazione dominante. Sarà la costruzione di un immaginario sociale più inclusivo, in cui tutti possano sentire di trovare posto, e non la polemica a oltranza, a depotenziare il fascino di negazionismi e complottismi.
c) Società civile e opinione pubblica
Quanto più il tema dei cambiamenti climatici si trasferisce dall’ambito tecnico-scientifico a quello politico, tanto più saranno i politici a dettare le regole del gioco. In particolare, faranno premio non la solidità delle argomentazioni – quella che l’IPCC ha l’incarico di vagliare –, ma la consistenza del consenso che le differenti alternative riscuotono: diventa quindi una questione di partecipazione. In fondo è questo che è andato in scena a Glasgow, spiegando sia perché si è deciso di proseguire il negoziato per un giorno in più (un risultato troppo striminzito sarebbe stato inaccettabile per l’opinione pubblica), sia le ragioni di quelle che abbiamo chiamato “impuntature”, che hanno radici ben precise nella dinamica del consenso.
Così, l’affermazione di Greta Thunberg e di molti che i Governi si limitano al “bla, bla, bla” risulta efficace come strumento di pressione nella misura in cui riscuote un significativo consenso. Si apre qui un immenso campo di azione per le organizzazioni della società civile, in termini di coscientizzazione dell’opinione pubblica. Un cammino di riduzione delle emissioni più rapido di quello a oggi concordato è possibile, ma comporta un aggravio di costi: le tecnologie disponibili per ridurre l’impatto delle fonti energetiche fossili (la cattura del carbonio) così come un maggiore ricorso alle fonti rinnovabili rendono la “bolletta energetica” più cara. Quanto più l’opinione pubblica si mostrerà disponibile a sopportarne l’onere, tanto più avanti si spingeranno i politici in sede di negoziati internazionali e conseguente elaborazione normativa. All’azione di lobbying nei confronti del mondo politico va affiancata quella nei confronti degli elettori. Non è utopia: assai più spesso di quanto si creda, è possibile chiedere ai cittadini di cambiare abitudini (ad esempio di iniziare a fare la raccolta differenziata) e anche di fare sacrifici.
3. Ecologia e democrazia
Infine, nell’attuale contesto la questione dei cambiamenti climatici rappresenta un interessantissimo cantiere di rinnovamento e rifondazione della democrazia, in particolare in ambito sovranazionale: l’atmosfera è una sola, comune a tutti, e non c’è modo di creare muri che impediscano la libera circolazione di sostanze chimiche e particolati. Non è un caso, del resto, che proprio sulla questione climatica mostrino la corda i format di governance internazionale oggi disponibili. Questo vale per il sistema ONU, a cui almeno formalmente è intestato anche il percorso delle COP. Troppo spesso i grandi vertici, compreso quello di Glasgow, mettono in scena un simulacro partecipativo, ma terminano con negoziati in cui i molti (Governi, organizzazioni internazionali, ONG, società civile, ecc.) si ritrovano ad aspettare fuori dalla porta della stanza in cui i pochi “che contano” decidono per tutti. Ma anche il G20, nato con l’ambizione di rappresentare un modello alternativo più sciolto, sconta da sempre problemi di legittimità, e ormai anche di efficacia: non tutte le promesse formulate a Roma in materia di clima sono state mantenute due settimane dopo a Glasgow.
Il problema non riguarda primariamente la formulazione di soluzioni, ma la capacità di rappresentare adeguatamente i problemi su scala globale, intrecciandone le molteplici dimensioni e convocando tutte le parti in causa in modo che possano partecipare alla costruzione di soluzioni davvero democratiche, anche attraverso il ricorso all’esercizio della sussidiarietà. Solo un processo di questo genere potrà renderle davvero vincolanti, in quanto radicate in un consenso sostanziale, a prescindere dal mutare dei Governi. Anche l’inconciliabilità dei tempi lunghi dei cambiamenti climatici e di quelli sempre più brevi dei cicli elettorali spinge per una evoluzione delle democrazie rappresentative.
Per affrontare questo compito di rinnovamento democratico a livello internazionale, competenze scientifiche e tecniche e abilità diplomatiche, sebbene importanti, non bastano. Frequentare efficacemente il piano delle narrazioni richiede la capacità di elaborare vision e di tornare a riflettere sulla finalità delle pratiche sociali, economiche, politiche e ambientali. Si apre qui uno spazio di vitale importanza per tutte quelle agenzie che da sempre trovano nella elaborazione del senso la propria ragion d’essere, tra cui spiccano le religioni e le comunità di fede. Per dirla con il linguaggio del cap. 8 dell’enciclica Fratelli tutti, il servizio della fraternità passa anche attraverso la promozione della sostenibilità come dovere verso le generazioni future. Religioni e comunità di fede devono però continuare ad attrezzarsi per svolgere questo compito sempre meglio. Per quanto riguarda il nostro Paese, ad esempio, la recente Settimana sociale di Taranto, intitolata “Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro” (21-24 ottobre 2021), ha mostrato una grande capacità di intercettare la vitalità del tessuto sociale. Serve ora trasformare questo radicamento in una comunicazione comprensibile in circuiti più ampi e in uno sforzo di elaborazione di strategie di azione compiutamente politica: un compito affascinante e un servizio di cruciale importanza al Paese e non solo.