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Nella ripresa, il coraggio di sperimentare

La fase della ripresa fa emergere tensioni tra polarità a cui è necessario trovare un nuovo equilibrio dinamico, aprendo spazi di innovazione e creatività in cui concretizzare il cambiamento immaginato durante il blocco. Lo testimonia l’esperienza di tre realtà di matrice ecclesiale.

Al di là della ritrovata “libertà di circolazione”, la situazione è tutt’altro che “a posto”. L’estate trascorre tra notizie di nuovi focolai italiani e internazionali, di pubblici esercizi in difficoltà e di turisti assenti. E soprattutto crescono i segnali di precarietà diffusa, le incertezze sul futuro del lavoro e la tenuta di territori e comunità. In questo contesto, come Rivista abbiamo deciso di proseguire la nostra ricerca sui pensieri per la ripartenza. Nel numero di giugno-luglio avevamo dato spazio a sogni e riflessioni per immaginare un futuro almeno in parte diverso. In questo numero ci mettiamo in ascolto di alcune realtà a cui abbiamo chiesto di riflettere sull’esperienza dei primi passi dopo la ripartenza, chiedendo loro di raccontare che cosa è successo, senza nascondere dubbi e difficoltà, esplicitando le domande ancora senza risposta, così come quello che è stato possibile mettere meglio a fuoco. Non presentiamo eroi o modelli, né buone pratiche da replicare. Vogliamo vedere e ascoltare, convinti che possa essere di grande aiuto per costruire una sapienza pratica che possa farci da bussola in questo nuovo tratto di strada.

Ciascuno ha lavorato per conto suo, senza confrontarsi con gli altri. Come primi lettori, ci sembra nostro compito provare a “cucire” gli interventi, rispettandone l’originalità, ma aiutando a far emergere dei legami che sono più forti di quello che ci si aspetterebbe. È un esercizio importante, non solo ai fini della strutturazione dell’articolo. Rintracciare legami ci sembra una strada promettente per affrontare uno dei problemi più acuti che già vivevamo nel nostro Paese, e nel Terzo settore in particolare, e che la crisi rischia di aggravare: la frammentazione che rinchiude tante buone pratiche ciascuna nella sua nicchia. Se la pandemia ci ha fatto riscoprire – come spesso è stato detto – che “siamo tutti sulla stessa barca”, bisogna anche imparare a remare insieme.

Costruire legami e sincronie è questione di metodo e di atteggiamento di fondo, a partire dalla convinzione che nessuno può mettersi al centro o pretendere il diritto all’ultima parola, ma che ciascuno ha qualcosa di prezioso e insostituibile da condividere, se assume la propria parzialità e accetta di far interagire la propria prospettiva con tutte le altre. Per questo ci è sembrato interessante dare la parola a tre esperienze che sono, ciascuna a suo modo, di matrice ecclesiale. L’obiettivo non è accreditare l’idea dell’autosufficienza del mondo cattolico, ma provare a far emergere un modo di procedere che esprime operativamente una ispirazione in maniera più efficace di molte dichiarazioni identitarie e che rappresenta la specificità del nostro contributo alla società in cui siamo inseriti. Del resto la lettura stessa dei tre interventi mostrerà quanto intensa è l’interlocuzione con le varie componenti della società, a partire dal settore pubblico e dal resto del Terzo settore.

Per “cucire” i tre contributi e facilitare l’accesso agli stimoli che essi offrono, espliciteremo ora un orizzonte di senso che ci sembra contenerli e al cui interno collocarsi per leggerli. Proporremo poi due chiavi di lettura che articolano tensioni che, in modo diverso, li percorrono tutti. Del resto tutte le esperienze sono attraversate da tensioni e polarità che vanno abitate con speranza, abbandonando l’ansia che sia possibile risolverle una volta per tutte, rinunciando a uno dei due poli. Sarebbe una semplificazione miope, e un grande impoverimento.

Saperci essere

Per esprimere l’orizzonte di senso ricorriamo all’episodio conclusivo del Vangelo di Marco: le donne che vanno al sepolcro per ungere il corpo di Gesù, ma trovano la tomba vuota. Lo facciamo a partire dalla convinzione che le religioni, come l’arte e ogni altra forma di sapienza umana, sono portatrici di una ricchezza insostituibile, da far dialogare con gli apporti delle diverse discipline scientifiche (cfr Laudato si’, nn. 199-201). Letta senza fondamentalismi, la Bibbia si rivela un aiuto potente nel cogliere, approfondire e riorientare le dinamiche non solo personali, ma anche sociali. Come Rivista lo abbiamo imparato dall’esperienza decennale della rubrica “Bibbia aperta” e su questa base siamo convinti che il testo biblico possa interpellare in maniera feconda anche i credenti di altre religioni o i non credenti.

L’episodio a cui facciamo riferimento è quello che ha commentato papa Francesco in una meditazione scritta durante il lockdown («Un piano per risorgere», in L’Osservatore Romano, 17 aprile 2020). Di fronte a un sepolcro chiuso da un macigno, simbolo di un futuro spezzato che minaccia di seppellire ogni speranza, il Papa sottolinea come le donne non si rassegnano: «A differenza di molti degli Apostoli che fuggirono in preda alla paura e all’insicurezza, […] seppero semplicemente esserci e accompagnare». Diventano così icona di quelle tante persone e organizzazioni che durante il lockdown hanno saputo esserci e accompagnare i propri cari e i più vulnerabili, senza lasciarsi spaventare dai rischi a cui questo le esponeva. I tre contributi fanno tutti riferimento a esperienze di questo genere.

Ma queste donne, che si mettono in moto per riprodurre il gesto tradizionale dell’unzione del cadavere, incontrano invece una novità radicale: Gesù non è più lì, per incontralo bisogna tornare al proprio territorio di provenienza. Le donne scappano, piene di paura, e non ne fanno parola con nessuno. Il loro silenzio chiede a ciascuno di prendere posizione: che fare, quando l’esperienza della paura e della morte conduce a una novità inattesa? Ritenerla un’invenzione e rimettere la pietra sul futuro, tornando allo status quo? O accettare il rischio di mettere in discussione ciò che si è sempre fatto, abbandonare le proprie aspettative e tornare al territorio sulle tracce della speranza? Ciascuna delle realtà che abbiamo interpellato ci offre la propria risposta a queste domande.

Assistenza o attivazione?

Nell’attuale contesto saperci essere e accompagnare significa avere a che fare con le difficoltà di tante persone e tante famiglie a sopravvivere dignitosamente. L’emergenza ha acuito questi bisogni, e ha anche fatto esplodere le iniziative di solidarietà immediata, le raccolte di fondi, la distribuzione gratuita di generi di prima necessità. Anche le politiche pubbliche hanno accentuato il versante della protezione (cassa integrazione straordinaria, divieto di licenziare, ecc.), destinando a questi capitoli risorse ingenti. Sembra passare in secondo piano il versante dell’attivazione, quello che parte da uno sguardo di medio-lungo periodo con l’obiettivo di promuovere le capacità delle persone e metterle in grado di ritrovare la propria autonomia, di dare risposta ai propri bisogni e di contribuire al bene comune della società.

Si tratta di una tensione classica che percorre ogni politica e ogni intervento sociale, ma torna prepotentemente di attualità e ci chiede di trovare un nuovo equilibrio dinamico. Conosciamo bene i rischi dei due estremi: da una parte l’aiuto che genera dipendenza, alimenta il clientelismo, legittima una visione dello Stato e del “pubblico” come giacimento di risorse da “saccheggiare”, non come bene comune a cui contribuire, e favorisce l’esplosione delle rivendicazioni; dall’altra uno sguardo di lungo periodo che perde progressivamente la capacità di riconoscere i bisogni immediati e il loro cambiamento, rischia di “lasciar morire le persone per strada” e seleziona i beneficiari trascurando sistematicamente gli ultimi degli ultimi, coloro che non chiedono nulla e che la società fatica a vedere.

Anche le esperienze a cui abbiamo dato la parola sono alle prese con questa tensione, in un lavorio di incessante riarticolazione che eviti l’annullamento della polarità. Due direttrici ci sembrano emergere con maggiore evidenza. La prima è la costruzione di un rapporto di collaborazione con l’ente pubblico che include una interlocuzione anche critica; la seconda è la preoccupazione per la coesione sociale, la spinta a tenere insieme i pezzi, a resistere a una frammentazione che inevitabilmente scarica i costi e gli oneri sui “capri espiatori di turno”, cioè sulle componenti già più vulnerabili della società. Se ci si limita a ripeterlo, “siamo tutti sulla stessa barca” resta uno slogan. Dargli concretezza richiede sforzo e creatività. E suscita resistenze.

Tradizione o innovazione?

Una seconda tensione, altrettanto tradizionale, percorre la nostra società in questo momento, quella tra tradizione e innovazione, tra memoria e riforma. Le esperienze a cui abbiamo dato la parola la intercettano e soprattutto provano a maneggiarla, a trovare un punto di equilibrio che consenta di sfruttare le energie che la polarità contiene.

Durante le fasi straordinarie del blocco delle attività, l’insistenza sull’innovazione e sul cambiamento serviva ad alimentare il sogno, ma rischiava anche di risolversi in un espediente retorico. È solo quando davvero si riprende che bisogna decidere il contenuto effettivo di questo “ri-”: nasconde l’insidia di un ritorno al passato, inaccettabile ma capace di allettare, e l’illusione di trovarsi davanti a un foglio completamente bianco, con il rischio di rimanere bloccati.

La concretezza dei primi passi svela come siano sempre un mix di antico e di nuovo, e soprattutto come la novità abbia bisogno di radici per poter essere feconda. Memoria e tradizione non sono la museificazione del passato, ma il richiamo a una vita che è in continuo sviluppo, e in questo senso non sono statiche, ma dinamiche.

Il 21 dicembre 2019, porgendo gli auguri natalizi alla Curia romana, e ricordando il percorso di riforma in cui è impegnata, papa Francesco ha ricordato che «la tradizione è la garanzia del futuro e non la custodia delle ceneri». Ma questo richiede che sotto le ceneri ci sia ancora brace. In fondo è questa la scommessa della ripresa: cercare la scintilla capace di riaccendere il fuoco. Ascoltiamo ora la testimonianza di tre realtà che si stanno impegnando a farlo.


Persone ai margini: creativi per includere

Gaia Jacchetti

Medico della Casa della carità di Milano, specialista in Malattie infettive e Sanità pubblica, <gaia.jacchetti@casadellacarita.org>



Ripartire è la parola chiave, l’imperativo sociale del momento. Perché non sia solo vitalismo inconsapevole, abbiamo bisogno di non mettere tra parentesi quello che abbiamo vissuto e di non smarrire tutto quello che abbiamo imparato durante il “blocco”. Questo vale in particolare per quelle realtà per cui il lockdown non ha significato l’arresto delle attività, ma il passaggio a un’operatività in regime di emergenza. È il nostro caso, quello del centro di accoglienza per persone in difficoltà (senza dimora, richiedenti asilo, rifugiati e migranti, intere famiglie con gravi problemi, anziani soli, detenuti ed ex detenuti) della Casa della carità, che sta provando a ripartire dopo l’esperienza della gestione di un focolaio pandemico. Concretamente questo ha voluto dire sospendere l’accoglienza, mantenere il centro aperto solo agli ospiti residenti per cui non c’era alternativa – decisione dura da prendere, perché per noi la casa aperta agli ultimi è sempre stata un segnale per la città –, e non rispondere per un tempo lungo alle nuove richieste e a coloro che usufruiscono dei servizi diurni. Ha anche voluto dire, alla comparsa dei primi sintomi negli ospiti, lottare con le istituzioni sanitarie per ottenere i tamponi e gestire la quarantena degli ospiti con gravi problemi di salute mentale, per i quali non era prevista nessuna collocazione tra quelle offerte ai cittadini.

Ripartire senza perdere la memoria

È questa la prospettiva da cui guardiamo ai prossimi passi; la memoria di quanto abbiamo vissuto ci aiuta a riconoscere alcune dinamiche e alcuni problemi e ci spinge a parlarne con chiarezza.

Ad esempio, è stato un errore attivare politiche di emergenza in risposta alla pandemia senza includere subito le categorie dei “gravosi” in carico ai centri di accoglienza. È stato spiazzante sentirci dire che le soluzioni abitative di emergenza non prevedevano l’accoglienza di persone senza dimora portatrici di disagio mentale. Fenomeni che si diffondono rapidamente attraverso tutti gli strati della società richiedono risposte trasversali e non diversificate in base al reddito o alla posizione documentale, perché questo promuove la salute e il benessere psicofisico di tutti, anche dei più tutelati. Pensare ai “non pensati”, a coloro che stanno ai margini dell’attenzione collettiva, è una buona strategia per tutelare il benessere sociale. Mettersi in ascolto delle persone e delle aree più degradate dovrebbe far parte dei percorsi di progettazione e verifica delle politiche sociali, per cogliere i segnali cronici e strutturali di ciò che non funziona e promuovere un rinnovamento nella direzione più efficace.

Si è imposta all’attenzione anche la questione della fragilità esistenziale e mentale. Dalle statistiche su depressione, alcolismo e suicidi dopo i mesi di lockdown ci rendiamo conto di quante sofferenze psicofisiche supplementari esso abbia generato, acuendo anche i fenomeni di violenza domestica come segnale delle contraddizioni dei luoghi dove è più marcato il degrado sociale (abitazioni piccolissime e fatiscenti, mancanza di verde e di servizi, incapacità della didattica a distanza di raggiungere una certa tipologia di alunni, ecc.).

Sperimentare per comprendere

La rilettura dell’esperienza non segnala solo mancanze e deficit operativi, ma aiuta anche a mettere in discussione alcune categorie che non ci aiutano a vivere insieme e a sviluppare una visione integrale.

Molti segnali ci confermano che antitesi rigide, che fanno una chiarezza solo teorica, non aiutano a descrivere e comprendere la realtà e a considerare la persona nella sua interezza e unità. Ad esempio, separare la salute mentale da quella fisica, focalizzarsi sulla salute del corpo senza tenere conto delle determinanti sociali che ne favoriscono o ne ostacolano la cura, oppure marcare la distinzione tra aspetti psicologici e ambientali, sono operazioni disfunzionali se si vogliono attivare cure efficaci e reali soluzioni dei problemi. Ancor più inefficaci sono le disquisizioni teoriche che tengono separati ambiti invece molto connessi: la grave emarginazione mostra problematiche talmente intrecciate da costringere a un approccio integrale alla persona, e non per singole parti.

Ma nella situazione che stiamo attraversando è forte anche il rischio di volere comprendere tutto, di ricostruire un orizzonte onnicomprensivo prima di mettersi al lavoro. La nostra esperienza sul campo ci dice che non possiamo permettercelo. Le tensioni non si possono risolvere a priori, ma vanno vissute affrontando concretamente le situazioni di emergenza.

Infine, ci rendiamo conto che il demone del “si è sempre fatto così” è costantemente in agguato; invece serve il coraggio di sperimentare strategie complesse e non solo di continuare a erogare risposte dirette, tanto piccole quanto lodevolissime. Occorre essere creativi per intervenire nella cura di persone che non chiedono nulla e che si sono adattate a condizioni di vita pessime, a cui non sono applicabili i protocolli standard predisposti per i pazienti che vengono in un ambulatorio. In realtà sarebbero tanti i soggetti pronti a farlo: la sperimentazione trova un terreno fertilissimo nel basso livello di strutturazione delle pratiche che caratterizza il Terzo settore, ad esempio in raffronto con le istituzioni pubbliche. Il problema è che questi contesti mancano di una legittimità riconosciuta per farlo: chi sosterrebbe la loro ricerca con delle donazioni? Quale servizio pubblico affiderebbe la ricerca a una rete di enti del Terzo settore invece che a un soggetto istituzionale rinomato?

In questa linea, la Casa della salute, come luogo di integrazione della cura dei diversi aspetti della salute e del benessere psicofisico individuale e comunitario, può essere un incubatore di innovazione e un connettore di buone pratiche comunitarie. La salute, e in modo particolare una medicina territoriale esperta, è il punto di partenza e il polo integratore delle altre dimensioni (welfare, lavoro, ambiente, educazione, ecc.). Non mancano esperienze pilota di grande interesse, come la Casa della salute delle Piagge, quartiere della periferia fiorentina (cfr Francini – Occhini G. – Milani C., La Casa della Salute alla prova Covid-19, in <www.saluteinternazionale.info>, 23 aprile 2020). Anche all’interno della Casa della carità il lavoro quotidiano di accoglienza e cura a partire dai più emarginati sta generando l’esigenza di strutturarsi in modo da andare a cercare chi non arriva spontaneamente, e nello stesso tempo essere polo di riflessione e di animazione politica. Essere istituzione di cura, partire dagli ultimi e riflettere criticamente non sono elementi disparati, ma tasselli del mosaico di una medicina territoriale che rende la comunità protagonista della propria salute.

Operatori dell’ibridazione cercasi

La prospettiva della Casa della salute obbliga anche a uscire dalla trappola della delega al Terzo settore di tutto ciò che riguarda i “casi disperati”, perché richiede a tutti gli attori la disponibilità di mettersi in gioco e fare sistema e il coraggio di abbandonare rigidità e aree di comfort.

Interpella la politica, che ha bisogno di nutrirsi dei contributi della collettività, così come dell’apporto di competenze, della capacità di leggere le esperienze e di generare pensiero dei corpi intermedi, sia quelli carichi di storia (partiti, sindacati, università, ecc.), sia quelli nuovi, che il cambiamento sociale continua a generare, e che non sono meno ricchi di stimoli. La Casa della salute può essere il contesto in cui cercare nuove modalità di esercizio del ruolo dei corpi intermedi, valorizzando il protagonismo della comunità e generando energia politica che traduce le azioni in linee di indirizzo utili per chi governa.

Alla sanità pubblica il modello della Casa della salute offre la possibilità di un ripensamento radicale e del superamento dei vecchi schemi, convocando tavoli plurali, dove soggetti diversi pratichino l’ascolto profondo e la rilettura dell’esperienza. In quest’ottica, la sanità pubblica ha bisogno di convocare il Terzo settore nei luoghi di elaborazione delle strategie e di accettare di essere convocata e partecipare ai tavoli che saranno eventualmente promossi dalle comunità che intendono riflettere sul proprio bene comune.

Agli enti del Terzo settore questa prospettiva chiede di liberarsi definitivamente dal senso di inferiorità e concepirsi come soggetti sociali con una vocazione pubblica, capaci di dialogare con gli altri attori del sistema. Per crescere in autorevolezza sono fondamentali, anche se molto impegnative, le iniziative di rete tra soggetti del Terzo settore, che promuovono una feconda contaminazione reciproca e spingono a superare l’autoreferenzialità che spesso li caratterizza.

Infine anche la cittadinanza è chiamata ad assumere un ruolo attivo e a osare sperimentare il nuovo. L’ospedale è attraente, perché rappresenta un presidio rassicurante. Ospedali specializzati e di eccellenza sono un bene prezioso, ma rispetto alla tutela della salute restano un bene parziale. Come collettività dobbiamo avere il coraggio di sperimentare forme di tutela della salute di tutti diverse, più efficaci, più inclusive e meno costose, che partono da dinamiche territoriali, da luoghi di accoglienza e integrazione delle domande di tutti, da quelle più semplici e ordinarie (un consiglio, una visita, la preoccupazione per un figlio adolescente, un imprevisto) fino a quelle che riguardano l’assistenza complessa della cronicità e della multiproblematicità (disabilità, malattia mentale, marginalità sociale, tossicodipendenza).

Ci sono quindi tante responsabilità da condividere e tante sperimentazioni da lanciare. Ma questo richiede che ci sia qualcuno che aiuta ad avviare i processi, a stimolare le reti, a valorizzare le competenze. Per questo non possiamo permetterci di tornare alla routine di prima. Se ora non rinunciamo al sogno, possiamo finalmente immaginare figure professionali nuove, da formare dentro l’esperienza e non a tavolino. Pensiamo a operatori che non sfuggono al confronto, ma affinano le proprie competenze nell’interazione con altre professionalità e sono capaci di modificare approccio in risposta a una complessità che non ammette rigidità di ruolo. Per iniziare a concretizzare il sogno abbiamo bisogno di operatori “poliglotti”, simbolo di un contesto sociale multiculturale che impara lingue nuove, perché abita la complessità senza rimanerne schiacciato. Osiamo dire che una rinnovata salute di comunità passa dall’ibridazione del meticciato e dal dialogo a tutti i livelli: tra istituzioni, tra soggetti, tra culture, tra saperi, tra categorie sociali. La metafora abusata del contagio pandemico, nella sua tragicità, suggerisce un metodo: niente e nessuno escluso, perché il diritto alla salute sia di tutti.



Chiesa e giovani: la complessità richiede alleanze

Michele Falabretti

Sacerdote, Responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile della Conferenza episcopale italiana, <giovani@chiesacattolica.it>



La prossima estate «scordiamoci i campi estivi e scordiamoci gli oratori, questo deve essere chiarissimo. Ho diverse perplessità su come si possa garantire il distanziamento dei bambini»: fu questa l’affermazione choc di un autorevole membro del Comitato tecnico scientifico lo scorso 23 aprile. Da quel momento ebbe inizio un dibattito vivace, non solo sulla possibilità “tecnica” di riprendere le attività negli oratori, ma anche, a un livello più profondo, sul loro significato pastorale. Valeva la pena assumersi la responsabilità di garantire il rispetto delle norme sanitarie, per permettere ai minori e alle loro famiglie di condividere il tempo estivo?

Le reazioni sono state diverse. Alcuni parroci, con buone ragioni, hanno valutato di non avere risorse sufficienti e hanno preferito sospendere le attività estive. Ma, in questi casi, il problema è stato solo rimandato a settembre, con la riapertura dell’anno catechistico.

I ragazzi e le famiglie

All’inizio di giugno, i ragazzi uscivano dall’esperienza inedita del confinamento. La sospensione delle lezioni aveva interrotto anche la socialità indispensabile per uno sviluppo psicologico sano. Per tutto questo periodo, le relazioni dei minori si sono ridotte all’ambito familiare. Quali frutti ha portato questa convivenza forzata e prolungata tra genitori e figli? Probabilmente i figli hanno potuto vedere più da vicino le preoccupazioni dei genitori per l’andamento familiare e per il futuro incerto del proprio lavoro. Anche le prassi di consumo sono state stravolte: è mancata l’evasione del supermercato a caccia del superfluo e la spesa, meno comoda a farsi, si è concentrata sui beni di prima necessità. Persino il commercio online ha conosciuto una frenata a causa della fatica nelle consegne a domicilio.

Questa situazione ha riportato all’essenziale: le relazioni, e non le cose, hanno determinato la qualità dell’esperienza del lockdown, nel bene e nel male, perché le fatiche non sono mancate. La cura delle relazioni richiede un lungo e paziente esercizio, attraverso il quale ogni persona trasforma atteggiamenti e abitudini. La quarantena è stata dunque un’occasione per praticare la dimensione della gratuità e utilizzare il rapporto di prossimità diretta, tipico della famiglia, come strumento educativo importante. Ma all’inizio di giugno gli adulti hanno dovuto tornare precipitosamente al lavoro.

Le comunità cristiane che sono partite con l’offerta di attività hanno mandato un segnale importantissimo. Si sono inserite nella tradizione educativa della Chiesa, che non ha mai avuto paura di affrontare emergenze e necessità. La storia di don Bosco e dei santi della carità è il segno più evidente che i cristiani non hanno mai disgiunto la cura delle persone dall’annuncio del Vangelo. È proprio nella logica della prossimità e del dono che si gioca l’annuncio; la carità è il cuore della fede. Dirlo in questo tempo e con la creatività che si è riusciti ad esprimere è stato un segnale forte.

Un nuovo rapporto con il territorio

La pandemia non ha detto cose nuove sulla pastorale giovanile, ma ha messo in evidenza ciò che si faticava a riconoscere. La condizione fondamentale per poter agire è il rispetto rigoroso di norme e linee guida. Al netto delle misure strettamente sanitarie, le altre regole non rappresentano una vera novità, a partire dal dovere di confrontarsi con le autorità locali in tema di servizi educativi o dalla necessità di avere personale adeguato. Ma questi criteri fondamentali in passato erano stati spesso ignorati e una certa abitudine ad agire trascurando il dialogo con le autorità ha portato alcuni a non comprendere il significato delle norme e anzi a lamentare la presunta ingerenza dello Stato nelle attività pastorali.

In questa strana estate è diventato chiaro che l’elaborazione di senso che viene dall’ascolto del territorio e delle istituzioni può essere un principio pastorale da assumere consapevolmente. Il confronto con le istituzioni locali fa bene anche agli operatori pastorali. Il compito di un sindaco, come responsabile della salute pubblica, è verificare se esistano le condizioni perché le attività pastorali possano svolgersi. Questo costringe i responsabili e gli operatori degli oratori a un lavoro di progettazione e di formazione più specifico. È una fatica sana, perché costringe a non ritenere le cose “buone” soltanto perché le facciamo noi. Il confronto è faticoso, talvolta allunga i tempi, chiede di trovare soluzioni nuove, ma il risultato è un’alleanza più forte con le realtà di un territorio, una cura più specifica in ciò che si fa. Tutto questo rappresenta senza dubbio un’opportunità di crescita per le realtà ecclesiali.

Potrei raccontare numerose storie di persone che si erano arrese dopo la lettura delle linee guida, ma con un po’ di pazienza hanno fatto passi importanti e nei giorni successivi hanno telefonato in ufficio per dichiarare il proprio entusiasmo per avercela fatta. Questo tempo ci sta insegnando che il dialogo con il territorio, le sue istituzioni e realtà educative, fa davvero crescere ed è fonte di grandi soddisfazioni: mette la Chiesa nella situazione di potersi offrire umilmente, ma con chiarezza, come punto di riferimento credibile, non prepotente eppure cosciente della propria storia e del proprio ruolo nei processi di promozione umana.

Il cavallo di Troia

Elaborare proposte pastorali in questo tempo ci chiede di non rimanere imprigionati dall’affetto e dalla nostalgia per gli schemi già collaudati. Se non rimaniamo ancorati a ciò che andava bene fino a ieri, ma troviamo il coraggio di accogliere il vissuto di oggi, possiamo incontrare la grande domanda che permette ai giovani e alle loro famiglie di percepire il senso sapienziale e la sfida educativa che la vita pone a ciascuno.

I servizi educativi un tempo affidati agli oratori senza troppi problemi, sono diventati oggetto di riflessione anche da parte delle amministrazioni pubbliche e del mondo del Terzo settore. Questo ha acceso i riflettori sull’oratorio in un modo nuovo, che richiede l’attivazione di competenze educative più specifiche. È tramontato il tempo in cui l’intervento del parroco risolveva ogni situazione.

Peraltro, non ci sono più i numeri di un tempo: alcuni preti hanno in carico più di una comunità e la disponibilità di tempo si riduce. Il percorso educativo standard in oratorio avviene attraverso gruppi di coetanei, spesso accompagnati da un prete. Si sente la mancanza di cammini più flessibili e personalizzati, in grado di rispondere a esigenze sempre più diffuse: situazioni di disagio sociale o familiare, disabilità, giovani di altre culture e religioni.

Questo costringerà la comunità ad attivarsi e i preti a costruire una rete di alleanze con persone e realtà presenti su un territorio. C’è bisogno di un gioco di squadra più convinto, nel quale si facciano entrare figure significative. magari già presenti nella comunità. Si tratta di dar vita a un processo sinodale anche a questo livello: la complessità chiede alleanze, non di chiudersi nella ripetizione di schemi già collaudati. Dunque possiamo vedere nell’esperienza della pandemia il cavallo di Troia penetrato nelle nostre strutture ecclesiali per obbligarle, finalmente, a confrontarsi con il mondo. È un’estate più faticosa, ma porta con sé un vento di novità che potrebbe essere particolarmente salutare per le nostre comunità cristiane.

Il senso da trovare

La sera del 27 marzo, che resterà nella memoria collettiva per l’immagine del Papa che impartisce la benedizione sotto la pioggia battente in una piazza deserta, davanti alla televisione c’era un pubblico da finale del campionato del mondo di calcio. Segno che, durante un tempo drammatico, emergono domande di senso anche in una società che siamo abituati a definire secolarizzata. Le persone continuano ad attendersi dalla Chiesa una parola in grado di aiutarle a trovare un significato all’esperienza che stanno vivendo. Sarebbe un tragico errore non accorgerci che abbiamo davanti una prateria in cui correre: il terreno delle domande di senso è spesso poco frequentato, ma quelle domande non si esauriscono.

Proprio la capacità di stare dentro la storia lottando per la verità del Vangelo e offrendo esperienze di servizio e accompagnamento, si sta rivelando una proposta efficace. L’estate 2020 ci dice che il tessuto sociale chiede di non essere abbandonato alle logiche mercantili che trasformano tutto in un’occasione di profitto. Guardando a questo scenario possiamo tornare a focalizzare anche il senso dei cambiamenti che le strutture ecclesiali devono affrontare: nella misura in cui sapremo comprenderne la funzione e la missione in uno scenario mutato, sapremo trovare cammini nuovi di servizio e di testimonianza cristiana.



Cittadini e lavoro: per un accompagnamento 4.0

Roberto Rossini

Presidente nazionale ACLI, <roberto.rossini@acli.it>



Chi conosce anche solo superficialmente le ACLI non faticherà a immaginare che il lockdown ha comportato la sostanziale chiusura dei circoli e quindi l’arresto forzato di tutte le attività ordinarie: quelle ricreative (gite, ristorazione e mescita), quelle sociali (corsi e dibattiti), quelle di utilità sociale (il lavoro dei patronati), quelle di formazione e quelle politico-culturali (incontri e convegni).

Il lockdown, un tempo di mobilitazione

Ma tutto questo non ha azzerato la vita delle ACLI; anzi, il lockdown è stato il tempo di una straordinaria mobilitazione, che ci ha permesso di continuare a essere presenti nel tessuto della società italiana. Quattro sono state le direttrici principali di questa mobilitazione:

Informazione e servizi: con grande rapidità, nei giorni di confusione seguiti all’adozione delle misure di blocco, ci siamo attrezzati per diventare punti di riferimento per i cittadini alla ricerca di informazioni. Le attività di patronati e Centri di assistenza fiscale (CAF) sono state gestite via web o tramite call center, continuando così a essere raggiungibili dai cittadini impossibilitati a spostarsi; analogamente le attive formative sono passate in modalità FAD (formazione distanza). In alcuni territori si sono attivate esperienze di volontariato per offrire vicinanza e supporto, anche psicologico, ad anziani e persone fragili, o per sostenere le famiglie nella gestione dei figli in assenza di scuole e asili, ad esempio con dei doposcuola virtuali.

Lotta alla povertà, in particolare attraverso la distribuzione o la consegna a domicilio di generi alimentari di prima necessità e di farmaci. Si stima che la pandemia abbia provocato un milione di nuovi poveri, e peggiorato ancora le condizioni di chi già viveva sotto la soglia di povertà. Vari circoli sono così tornati a svolgere un ruolo che ricoprivano agli inizi della nostra storia, negli anni ’40 del secolo scorso, quando erano tra le strutture incaricate della distribuzione degli aiuti del Piano Marshall.

Lo stesso slancio di solidarietà si è tradotto in molti luoghi e in modo spontaneo nell’organizzazione di collette e raccolte fondi, per l’acquisto di attrezzature per gli ospedali che ne erano privi, o per fornire PC o tablet che consentissero agli studenti meno abbienti di seguire la didattica a distanza.

Infine, si è contribuito all’animazione del dibattito pubblico attraverso web conference, sia nazionali (Lo stato delle cose), sia locali, in tante province.

Continuare a essere presenti: nuove sfide, nuove forme

La graduale riapertura delle attività modifica questo scenario, e ci chiede di sviluppare nuove forme per essere presenti nella società italiana a servizio dei più fragili. In questa nuova fase è fondamentale non sprecare le energie suscitate dalla mobilitazione durante il lockdown. L’analisi della realtà, ma soprattutto delle prospettive ragionevoli di evoluzione della situazione, tutt’altro che rosee, ci ha condotto a identificare alcuni ambiti a cui dedicare particolare attenzione, che articoliamo attorno a polarità opposte.

a) Lavoro/non lavoro

La crisi dell’economia e i cambiamenti conseguenti renderanno ancora più urgente la questione del lavoro. Ci troveremo di fronte a uno scenario di maggiore disoccupazione, lavoro intermittente, cambi di professionalità, alternanza tra lavoro in ufficio e smart working. Occorrerà allestire strumenti per integrare il reddito e coprire i periodi di inattività con formazione o altre forme di impegno, come il volontariato. L’Italia avrà bisogno di ingenti investimenti in capitale umano, a partire da strumenti che consentano a chi perde il lavoro di riqualificarsi nel giro di 6/8 mesi. Il decreto Rilancio ha stanziato fondi a questo scopo e sono convinto che sarebbe un’ottima scelta investire una parte delle risorse destinate all’Italia dal Recovery fund dell’UE in capitale umano e formazione. Come ACLI, ne ricaviamo lo stimolo a dare nuovo impulso a due grandi filoni del nostro impegno: quello dell’azione volontaria e comunitaria attorno alla centralità del lavoro e quello della formazione professionale.

b) Attivo/passivo

Potremmo descrivere una seconda polarità con i termini “attivo/passivo”. Il riferimento è al sistema di welfare e al rapporto con quelli che tradizionalmente sono chiamati beneficiari delle prestazioni. Lo sappiamo da tempo, ma questa crisi lo rende ancora più evidente: la debolezza dell’economia aumenta il rischio di rinchiudere le persone nella dipendenza da strumenti di sostegno al reddito, con esiti assistenzialistici e una grande dispersione di risorse, in un momento in cui sono particolarmente scarse. Il modello vincente di welfare è quello che risulta capace di attivare i propri beneficiari, diventando motore di sviluppo per l’intero sistema. Per raggiungere questo scopo è necessario essere capaci di innovazione e di trasversalità, di costruire alleanze tra soggetti diversi (pubblico, privato for profit e non profit), ibridando le logiche. E anche di scardinare i confini tra dispositivi e strumenti: l’idea è che parte dei fondi pubblici, anche afferenti a misure già esistenti, possa essere destinata a interventi capaci di generare nuove risorse, in modo che nuovi modelli economici e nuovi paradigmi di welfare si inneschino e si sostengano a vicenda. Possiamo ad esempio immaginare che uno strumento come il Reddito di cittadinanza diventi capace di sostenere forme di microimprenditorialità, attraverso l’erogazione del contributo in un’unica tranche anziché a rate mensili, così da mettere a disposizione un piccolo capitale iniziale. Per farlo occorre costruire una rete di assistenza e forme di accompagnamento, ma il potenziale di attivazione è sicuramente molto elevato. È questo il senso della proposta dei “Patti per l’imprenditoria civile”, che abbiamo contribuito a lanciare nel recentissimo instant book Per un nuovo welfare (cfr Simoni M. – Barbarossa E. – Rossini R. – Migliorini A., «Patti per l’imprenditoria», in Moretti A., Per un nuovo welfare. Le proposte della società civile, Vita, Milano 2020, 47-60).

c) Reale/virtuale

I mesi del lockdown ci hanno fatto toccare con mano il ruolo che rivestono le tecnologie informatiche e digitali, accelerando processi già in corso da tempo, ma che non si sarebbero compiuti così velocemente. Oggi ci è chiaro che la nostra presenza deve giocarsi su entrambi i canali, quello tradizionale, che prevede l’incontro fisico, e quello virtuale, mediato dalle tecnologie. Non sono intercambiabili, né possiamo pensare che il secondo rimpiazzi il primo, ma è importante essere credibili su entrambi. Questa riflessione risulta trasversale rispetto a tutte le nostre attività.

Investe senz’altro e in modo massiccio l’attività di CAF, patronati e centri di formazione professionale, chiamati a scoprire il loro modo di “diventare 4.0”. Per questo stiamo investendo sullo sviluppo del portale di servizi web “AcliQui”, che già era in fase di lancio, ma dobbiamo anche rimanere presenti sul territorio. Così stiamo elaborando un’idea che amplia e innova l’ispirazione dei patronati: dar vita a strutture che si pongano come punto unico di accesso alle misure di welfare pubblico e ai servizi delle reti del Terzo settore, capaci di accompagnare i cittadini a fruire di tutte le opportunità a cui hanno diritto, ma a cui per varie ragioni non riescono ad accedere. Oggi questa è una grande necessità. Queste strutture, che potremmo chiamare segretariati civici o di cittadinanza, non vanno pensate solo come luogo di disbrigo assistito di pratiche per l’accesso a determinate prestazioni, ma devono essere capaci di proporre e accompagnare le persone in percorsi più ampi, che travalicano la dimensione assistenziale, anche nell’ottica di una piena inclusione delle persone nel tessuto socioeconomico. Per rifarci a quanto detto poco sopra, potrebbero essere il luogo in cui collocare i percorsi legati ai “Patti per l’imprenditorialità civile”, inserendo nel circuito anche le nostre competenze e le nostre risorse nell’ambito della formazione professionale.

Ma in questi mesi abbiamo scoperto che la polarità reale/virtuale attraversa la nostra stessa vita associativa. Abbiamo imparato a gestire le riunioni dei nostri organi tramite web, o in forma mista, affrontando la questione di ridefinire che cosa significa mettere ai voti o calcolare il numero legale. Restiamo convinti che la democrazia sia un fatto fisico, ma possa funzionare con una frazione on line. E in questa direzione continueremo a sperimentare, a partire dal prossimo congresso nazionale, in cui per la prima volta una piccola quota dei delegati sarà presente on line.

Ritrovare un’etica pubblica

Vi è infine una quarta polarità che per sua natura non può che essere pensata a livello della società nel suo complesso. La possiamo identificare con la coppia “sano/malato”, che prova a catturare il rapporto tra la salute individuale e quella collettiva che la pandemia ci ha rimesso davanti agli occhi. Per tutto il tempo in cui dovremo convivere con il coronavirus, la salute di ciascuno dipenderà da quella di tutti, e, viceversa, la responsabilità di ciascuno per la propria salute tutelerà anche quella di tutti. A ben vedere, è il modo in cui ci si presenta oggi la polarità tradizionalmente descritta con la coppia “individuale/collettivo”.

Iniziamo a scorgere segnali che tra gli effetti della pandemia ci sia anche un ritorno del “noi”, una inversione del moto pendolare che ciclicamente sposta le società e le culture lungo l’asse individuale/collettivo. Si tratta di un fenomeno ancora embrionale, legato anche alla paura, ma su cui vale la pena provare a costruire: anche in questo caso, è qualcosa che interpella fin nel profondo la tradizione delle ACLI e il loro legame con la dottrina sociale della Chiesa e il principio del bene comune. Ho già richiamato l’esperienza degli anni della ricostruzione, che furono segnati da una forte tensione etica, dalla consapevolezza che tutti condividiamo la responsabilità del raggiungimento di una meta collettiva: se il Recovery fund è il nuovo Piano Marshall – così a volte è stato presentato –, significa che stiamo vivendo qualcosa di analogo e che quindi abbiamo bisogno della medesima tensione etica.

A questo riguardo mi sento fiducioso: quanto ho avuto modo di osservare in questi mesi mi dice che al Paese non mancano le risorse anche da questo punto di vista. Due sono gli esempi che mi vengono subito in mente: la disponibilità dei giovani a impegnarsi nelle iniziative di volontariato, anzi il loro protagonismo e soprattutto la loro creatività e capacità di innovare, e la resilienza di cui hanno dato prova le donne, giostrandosi senza cedere tra gli impegni di lavoro e di cura che il lockdown ha reso ancora più gravosi. Se sapremo mettere a frutto queste risorse, dando ai giovani e alle donne il posto che loro spetta, troveremo lo slancio giusto per ripartire davvero.


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