Multinazionali, non rassegniamoci all’impunità

Le multinazionali hanno spesso goduto dell’impunità in casi di violazioni dei diritti umani e danni socioambientali. Nuove norme possono cambiare questa situazione. In questa linea chiama all’azione la campagna globale «Diritti per i popoli, regole per le multinazionali».
Fascicolo: marzo 2020

Negli ultimi decenni molte sono state le iniziative, da parte della società civile e nel quadro delle organizzazioni internazionali, per rendere le società multinazionali responsabili delle conseguenze sociali e ambientali delle loro attività. Perché queste grandi imprese hanno goduto a lungo di una sorta di immunità? Quali strumenti giuridici utilizzano a proprio vantaggio e quali norme internazionali possono contrastare gli abusi? La parte iniziale dell'articolo di Victoire Caïla e Swann Bommier (Area advocacy, CCFD – Terre Solidaire, Parigi), pubblicato sul numero di marzo di AS in collaborazione con Etudes, rivista dei gesuiti francesi. 


 

Nel 2009, una corte arbitrale internazionale privata ha condannato il Messico a versare 77 milioni di dollari al gigante dell’industria agroalimentare Cargill. Di che cosa si era reso colpevole lo Stato messicano? Tutto ebbe inizio nel 2002 con l’adozione di nuove misure sanitarie. Con il 72% della popolazione in sovrappeso e un tasso di obesità superiore al 30%, il Paese doveva affrontare una seria crisi sanitaria. Per contrastare questa piaga, il Governo introdusse una tassa sugli sciroppi di mais a elevato contenuto di fruttosio e la Cargill, che li commercializza, vide in questa misura una minaccia ai propri profitti. Facendo leva su una clausola dell’Accordo nordamericano per il libero scambio (North American Free Trade Agreement, NAFTA) sottoscritto da Stati Uniti, Canada e Messico ed entrato in vigore nel 1994, la multinazionale avviò una procedura arbitrale contro il Messico, al fine di ottenere una compensazione finanziaria per il mancato guadagno. Senza tenere conto delle implicazioni sanitarie e del carattere democratico della legislazione messicana, i tre avvocati che componevano la corte ritennero il Messico colpevole di espropriazione indiretta e condannarono lo Stato a versare un risarcimento alla controparte.

Lungi dal costituire un’eccezione, questo tipo di procedura è ormai comune, tanto è vantaggiosa per le imprese. Dalla creazione di questo meccanismo, si sono registrati più di 980 procedimenti e 88 miliardi di fondi pubblici sono stati versati dagli Stati alle multinazionali a seguito dell’adozione di misure di tutela dell’interesse generale. L’arbitrato tra investitori e Stati lascia intravedere un sistema giudiziario parallelo che dà alle multinazionali la possibilità di aggirare le giurisdizioni nazionali per difendere i propri interessi davanti a tribunali speciali.

Invece le popolazioni incontrano grandi difficoltà e dispongono di mezzi limitati per ottenere giustizia quando i loro diritti fondamentali vengono violati dalle multinazionali. La suddivisione in filiali apparentemente autonome e indipendenti e il crescente ricorso a fornitori esterni e subappalti rappresentano un grosso ostacolo all’accesso alla giustizia per chi è danneggiato dalle loro attività. Sei anni dopo il crollo del Rana Plaza, che nell’aprile 2013 causò la morte di 1.138 operai in Bangladesh, nessuna delle principali imprese occidentali che avevano subappaltato parte della loro produzione al Plaza è stata minimamente toccata. Ci vollero due anni perché alcune versassero un contributo, su base volontaria, a un fondo di risarcimento istituito da associazioni e sindacati internazionali sotto l’egida dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Ma ottenere veramente giustizia, con un risarcimento commisurato al danno subito è una missione impossibile, senza un’evoluzione del diritto internazionale.

A oggi, più di 3.400 accordi commerciali e di investimento proteggono gli interessi delle multinazionali attraverso meccanismi di arbitrato tra investitori e Stati, mentre nessun trattato internazionale le obbliga a rispettare i diritti umani e l’ambiente. Questa situazione grottesca, frutto del susseguirsi di decisioni politiche a favore degli interessi delle grandi imprese e denunciata per cinquant’anni dalle organizzazioni della società civile, giunge ora a un punto di svolta.

La costruzione dell’impunità


Per lo più sconosciuto al grande pubblico prima delle mobilitazioni del 2015 contro il TAFTA e il CETA, l’arbitrato fra investitori e Stati ha avuto origine nel 1965 per iniziativa della Banca mondiale. Nel contesto della decolonizzazione, la Banca mondiale lo introdusse per garantire agli investitori occidentali un quadro giuridico sufficientemente vincolante, che escludesse qualsiasi rischio di espropriazione. In altri termini, si trattava di uno strumento del diritto internazionale concepito per tutelare le imprese delle ex potenze coloniali nei Paesi di recente indipendenza. Per decenni questo meccanismo è rimasto riservato e solo tre cause sono state intentate dalle multinazionali tra il 1965 e il 1995. Ma l’introduzione di queste clausole nel NAFTA nel 1994 ha cambiato la situazione: il numero di azioni legali è esploso e i meccanismi arbitrali, gradualmente introdotti in centinaia di accordi commerciali e di investimento, mettono i Paesi emergenti o in via di sviluppo sotto la pressione crescente delle grandi multinazionali.

Il TAFTA e il CETA

Il TAFTA (Transatlantic Free Trade Area, successivamente denominata Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP), è un progetto di accordo di libero scambio tra UE e USA; i negoziati, cominciati nel 2013, si sono arenati con l’elezione a presidente di Donald Trump. Il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) è un trattato di libero scambio tra Unione Europea e Canada, in vigore dal 2017 in forma provvisoria, in attesa della ratifica di tutti gli Stati membri dell’UE.


Il caso dell’Argentina parla da sé: nel 2001-2002, durante una crisi economica e finanziaria senza precedenti, il Governo argentino attuò una politica di svalutazione della valuta nazionale e impose il congelamento delle tariffe di acqua ed elettricità. Queste misure di emergenza erano un tentativo di rispondere alla più grave crisi economica, sociale e politica che il Paese avesse mai vissuto. In meno di un anno, si avvicendarono alla guida del Paese cinque presidenti e il 57% della popolazione si trovava al di sotto della soglia di povertà. Come conseguenza, l’Argentina divenne il bersaglio di oltre quaranta cause legali intentate davanti a corti arbitrali, che le costeranno circa un miliardo di dollari versati agli investitori stranieri.

L’evoluzione delle procedure arbitrali e la moltiplicazione dei ricorsi all’arbitrato hanno trasformato questo sistema di protezione degli investimenti in un potentissimo strumento di pressione al servizio degli interessi delle multinazionali.

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9 marzo 2020
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