Le multinazionali hanno spesso goduto dell’impunità in casi di violazioni dei diritti umani e danni socioambientali. Nuove norme possono cambiare questa situazione. In questa linea chiama all’azione la campagna globale «Diritti per i popoli, regole per le multinazionali».
Negli ultimi decenni molte sono state le iniziative, da parte della società civile e nel quadro delle organizzazioni internazionali, per rendere le società multinazionali responsabili delle conseguenze sociali e ambientali delle loro attività. Perché queste grandi imprese hanno goduto a lungo di una sorta di immunità? Quali strumenti giuridici utilizzano a proprio vantaggio e quali norme internazionali possono contrastare gli abusi? La parte iniziale dell'articolo di Victoire Caïla e Swann Bommier (Area advocacy, CCFD – Terre Solidaire, Parigi), pubblicato sul numero di marzo di AS in collaborazione con Etudes, rivista dei gesuiti francesi.
Nel 2009, una corte arbitrale internazionale privata ha condannato
il Messico a versare 77 milioni di dollari al gigante
dell’industria agroalimentare Cargill. Di che cosa si era
reso colpevole lo Stato messicano? Tutto ebbe inizio nel 2002 con
l’adozione di nuove misure sanitarie. Con il 72% della popolazione
in sovrappeso e un tasso di obesità superiore al 30%, il Paese doveva
affrontare una seria crisi sanitaria. Per contrastare questa piaga, il
Governo introdusse una tassa sugli sciroppi di mais a elevato contenuto
di fruttosio e la Cargill, che li commercializza, vide in questa
misura una minaccia ai propri profitti. Facendo leva su una clausola
dell’Accordo nordamericano per il libero scambio (North American
Free Trade Agreement, NAFTA) sottoscritto da Stati Uniti, Canada
e Messico ed entrato in vigore nel 1994, la multinazionale avviò una
procedura arbitrale contro il Messico, al fine di ottenere una compensazione
finanziaria per il mancato guadagno. Senza tenere conto
delle implicazioni sanitarie e del carattere democratico della legislazione messicana, i tre avvocati che componevano la corte ritennero
il Messico colpevole di espropriazione indiretta e condannarono lo
Stato a versare un risarcimento alla controparte.
Lungi dal costituire un’eccezione, questo tipo di procedura è ormai
comune, tanto è vantaggiosa per le imprese. Dalla creazione di
questo meccanismo, si sono registrati più di 980 procedimenti e 88
miliardi di fondi pubblici sono stati versati dagli Stati alle multinazionali
a seguito dell’adozione di misure di tutela dell’interesse generale. L’arbitrato tra investitori e
Stati lascia intravedere un sistema giudiziario parallelo che dà alle
multinazionali la possibilità di aggirare le giurisdizioni nazionali
per difendere i propri interessi davanti a tribunali speciali.
Invece le popolazioni incontrano grandi difficoltà e dispongono di
mezzi limitati per ottenere giustizia quando i loro diritti fondamentali
vengono violati dalle multinazionali. La suddivisione in filiali apparentemente
autonome e indipendenti e il crescente ricorso a fornitori
esterni e subappalti rappresentano un grosso ostacolo all’accesso alla
giustizia per chi è danneggiato dalle loro attività. Sei anni dopo il
crollo del Rana Plaza, che nell’aprile 2013 causò la morte di 1.138
operai in Bangladesh, nessuna delle principali imprese occidentali che
avevano subappaltato parte della loro produzione al Plaza è stata minimamente
toccata. Ci vollero due anni perché alcune versassero un
contributo, su base volontaria, a un fondo di risarcimento istituito da
associazioni e sindacati internazionali sotto l’egida dell’Organizzazione
internazionale del lavoro. Ma ottenere veramente giustizia, con un
risarcimento commisurato al danno subito è una missione impossibile,
senza un’evoluzione del diritto internazionale.
A oggi, più di 3.400 accordi commerciali e di investimento
proteggono gli interessi delle multinazionali attraverso meccanismi
di arbitrato tra investitori e Stati, mentre nessun trattato
internazionale le obbliga a rispettare i diritti umani e l’ambiente.
Questa situazione grottesca, frutto del susseguirsi di decisioni politiche
a favore degli interessi delle grandi
imprese e denunciata per cinquant’anni
dalle organizzazioni della società civile,
giunge ora a un punto di svolta.
La costruzione dell’impunità
Per lo più sconosciuto al grande
pubblico prima delle mobilitazioni
del 2015 contro il TAFTA e il CETA,
l’arbitrato fra investitori e Stati ha
avuto origine nel 1965 per iniziativa della Banca mondiale. Nel contesto della decolonizzazione,
la Banca mondiale lo introdusse per garantire agli investitori
occidentali un quadro giuridico sufficientemente vincolante, che
escludesse qualsiasi rischio di espropriazione. In altri termini, si
trattava di uno strumento del diritto internazionale concepito
per tutelare le imprese delle ex potenze coloniali nei Paesi di
recente indipendenza. Per decenni questo meccanismo è rimasto
riservato e solo tre cause sono state intentate dalle multinazionali
tra il 1965 e il 1995. Ma l’introduzione di queste clausole nel
NAFTA nel 1994 ha cambiato la situazione: il numero di azioni
legali è esploso e i meccanismi arbitrali, gradualmente introdotti
in centinaia di accordi commerciali e di investimento, mettono i
Paesi emergenti o in via di sviluppo sotto la pressione crescente
delle grandi multinazionali.
Il TAFTA e il CETA
Il TAFTA (Transatlantic Free Trade Area, successivamente denominata Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP), è un progetto di accordo di libero scambio tra UE e USA; i negoziati, cominciati nel 2013, si sono arenati con l’elezione a presidente di Donald Trump. Il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) è un trattato di libero scambio tra Unione Europea e Canada, in vigore dal 2017 in forma provvisoria, in attesa della ratifica di tutti gli Stati membri dell’UE.
Il caso dell’Argentina parla da sé: nel 2001-2002, durante una
crisi economica e finanziaria senza precedenti, il Governo argentino
attuò una politica di svalutazione della valuta nazionale e impose il
congelamento delle tariffe di acqua ed elettricità. Queste misure di
emergenza erano un tentativo di rispondere alla più grave crisi economica,
sociale e politica che il Paese avesse mai vissuto. In meno di
un anno, si avvicendarono alla guida del Paese cinque presidenti e il
57% della popolazione si trovava al di sotto della soglia di povertà.
Come conseguenza, l’Argentina divenne il bersaglio di oltre quaranta
cause legali intentate davanti a corti arbitrali, che le costeranno
circa un miliardo di dollari versati agli investitori stranieri.
L’evoluzione delle procedure arbitrali e la moltiplicazione dei
ricorsi all’arbitrato hanno trasformato questo sistema di protezione
degli investimenti in un potentissimo strumento di pressione
al servizio degli interessi delle multinazionali.
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