Un serpentone di persone, centomila secondo le stime degli organizzatori, si è snodato lungo le strade del centro di Roma il 5 novembre 2022, per esprimere solidarietà alla popolazione ucraina vittima dell’aggressione militare russa e chiedere la conclusione di questa guerra europea, che sta causando morti, distruzione e milioni di profughi, così come degli altri conflitti in corso in tante regioni del mondo che, pur non essendo meno cruenti, ricevono un’attenzione mediatica minore o quasi inesistente. D’altronde, nell’odierno flusso incalzante dell’informazione, la stessa manifestazione di qualche settimana fa è ormai una notizia ingiallita e superata, da archiviare. Riteniamo però che sarebbe un errore farlo in un modo così frettoloso, perché il messaggio che ci ha consegnato non si esaurisce negli slogan scanditi dai partecipanti al corteo o nei discorsi ufficiali pronunciati sul palco. Ritornare su quanto accaduto a Roma – a distanza di qualche tempo e con il vantaggio scaturito dall’aver lasciato decantare emozioni e impressioni – è un aiuto per mettere a fuoco alcuni snodi legati alla partecipazione e alla capacità di fare squadra che sono cruciali nell’attuale clima culturale e politico del nostro Paese, in cui predomina un senso di stanchezza e di disorientamento, di accese polarizzazioni e di diffusa disaffezione.
La pace: dalle affermazioni di principio al confronto con la realtà
Era da tempo che non si assisteva a un’iniziativa nata dalla società civile capace di raccogliere un’adesione così ampia e trasversale. A colpire non è solo il numero elevato di persone giunte a Roma da tutta Italia, ma anche il dato che circa seicento organizzazioni abbiano deciso di parteciparvi in modo ufficiale: oltre ai movimenti pacifisti, vi erano diverse e significative realtà del mondo cattolico, le principali sigle sindacali nazionali, associazioni impegnate in vari ambiti culturali e sociali, enti del Terzo settore. Proprio sul tema della promozione della pace e di una idea di difesa che prescinda dalla logica delle armi, la medesima varietà di ispirazioni e tradizioni culturali cinquant’anni fa aveva prodotto nel nostro Paese l’approvazione della prima legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare e la nascita del servizio civile (cfr gli articoli del dialogo su questo numero).
Una chiave di lettura per comprendere questa ampia partecipazione è data di certo dal tema della pace, quanto mai sentito e presente. A nove mesi di distanza dall’inizio del conflitto, le notizie e le riflessioni su quanto accade in Ucraina non monopolizzano più la nostra attenzione e gli spazi informativi come nelle prime settimane di guerra, ma continuano ad avere un rilievo importante, anche perché resta alta la preoccupazione su come potrà evolvere l’intera situazione. Ma la richiesta di pace non basta a spiegare perché in questa occasione migliaia di persone abbiano deciso di recarsi a Roma per manifestare. Non è stata certo l’unica iniziativa in favore della pace organizzata nel nostro Paese, ma è quella che è riuscita più di tutte le altre ad aggregare persone e realtà diverse: laici e credenti, rappresentanti del mondo del lavoro, del volontariato, della cultura. Evidentemente vi è stato qualcosa di diverso, qualcosa in più, che riguarda il modo in cui si è preparato e vissuto questo appuntamento.
Un primo aspetto tocca proprio la parola pace, che malgrado la sua bellezza e potenza simbolica rischia di essere paradossalmente divisiva: possono esservi diversi modi di definirla e divergenze sulle vie da seguire perché diventi realtà. Ne abbiamo una riprova se si considerano le prese di posizione degli attori della politica internazionale in merito al conflitto in Ucraina (basti pensare a quanto siano distanti le parole di papa Francesco da quelle di tanti leader mondiali) e, di riflesso, il dibattito nei media al riguardo. Per la manifestazione del 5 novembre si è fatto lo sforzo di precisare meglio in che cosa consista la pace ricercata e desiderata per l’Ucraina, individuando alcuni passi prioritari: giungere al cessate il fuoco, la messa al bando delle armi nucleari, l’intervento delle istituzioni internazionali attraverso la convocazione di una conferenza internazionale. Si tratta ancora di indicazioni minime, che suscitano vari interrogativi, ma che permettono di uscire dalla indeterminazione delle affermazioni di principio per definire un campo di azione. In questo modo, diviene più semplice scegliere se aderire a una proposta o meno, in quanto ci si impegna per un obiettivo che ha contorni sufficientemente chiari e definiti.
Non è stato un semplice happening
Si è giunti a questo esito grazie a un lungo lavoro di confronto e di riflessione, che ha richiesto tempo e ha messo in gioco quanti vi hanno preso parte. Questo è stato possibile perché ci troviamo di fronte a un processo ampio, promosso dal gruppo organizzatore Europe for peace da vari mesi, che nel tempo ha raccolto adesioni e sostegno. La manifestazione di Roma non è stata un evento isolato a beneficio delle telecamere e degli smartphone, ma una tappa, preparata da altri momenti realizzati in diverse città italiane, in cui molti degli sforzi compiuti in precedenza sono confluiti, e che a sua volta apre a ulteriori sviluppi.
A questa fondamentale dimensione di processo si è accompagnato il carattere aperto dell’iniziativa. Vi è un gruppo organizzatore, ma sono tantissimi coloro che hanno aderito. Vi è qualcuno che si fa carico di tenere le fila e portare avanti la dinamica della collaborazione, ma non vi è una persona che monopolizza su di sé l’attenzione generale, che viene identificato con l’insieme del movimento. Piuttosto si è avuta la percezione di una leadership partecipata e diffusa, capace per questo di tenere insieme le diverse anime e sensibilità senza annacquarle o esasperarle, e proprio per questo sono tantissimi coloro che hanno aderito.
Un messaggio politico
Questo tratto ha fatto sì che il significato politico del messaggio della manifestazione emergesse in modo chiaro e a tutto tondo: la richiesta rivolta alle istituzioni del nostro Paese e alle forze politiche di dare priorità alla costruzione realistica della pace. La forza di questa presa di posizione si radica anche nella scelta, strenuamente difesa, di non essere un’iniziativa di una parte. Da qui la richiesta ai partecipanti di non portare i simboli di partiti, nonostante nelle settimane precedenti si fosse cercato in più occasioni di “politicizzare” l’iniziativa, riducendola al dibattito tra i partiti. Basti ricordare i tentativi del Movimento 5 Stelle di “intestarsi” simbolicamente la paternità dell’appuntamento e le non poche polemiche sul contenuto della piattaforma preparato dagli organizzatori, al punto che una manifestazione parallela è stata organizzata in concomitanza a Milano dal Terzo Polo. Anche i media hanno privilegiato questa chiave di lettura della manifestazione prima e dopo il suo svolgimento, finendo per impoverirne la portata e disconoscendo l’ampiezza del mondo che si è coinvolto e impegnato, oppure ridicolizzando le richieste avanzate, lontane dalla narrazione dominante che vede nel ricorso alle armi l’unica strada per porre fine all’invasione russa in Ucraina.
In buona misura, queste dispute o interpretazioni sono conseguenza dei risultati elettorali di settembre e degli strascichi che hanno prodotto all’interno dei vari partiti e celano una dimensione strumentale, un secondo fine, che con la ricerca della pace ha ben poco a che fare.
D’altro canto, smarcandosi per quanto possibile da queste dinamiche e senza identificarsi nella posizione di un partito, i partecipanti alla manifestazione erano ben consapevoli che stavano facendo politica con la loro scelta. Come voci della società civile si rivolgevano a quanti detengono la responsabilità della guida del Paese in questo momento e a tutte le forze politiche, in una sana e pacifica dialettica che è il sale della vita democratica. A questo riguardo, non è secondario sottolineare che la manifestazione si è svolta senza problemi di ordine pubblico e senza violenze: vi è stata una coerenza non da poco tra i valori e gli obiettivi della manifestazione e il modo in cui è stata condotta.
Una pluralità di voci
Fa parte della democrazia anche l’esistenza di una varietà di posizioni, di idee, di soluzioni. Era così anche in piazza San Giovanni in Laterano. Vi era un pieno sostegno su quello che abbiamo definito l’obiettivo comune e condiviso della manifestazione, ma era – ed è – molto più aperto e meno pacifico il dibattito su come raggiungere quel risultato, soprattutto per quanto riguarda la questione dell’invio delle armi all’Ucraina.
Questa diversità era evidente, è stata ampiamente raccontata dai media, ma soprattutto era riconosciuta e assunta fino in fondo, senza essere minimizzata o dissimulata. Commentando la manifestazione, Angelo Moretti osservava che «Il fatto che la piazza fosse divisa sul cosa fare domani non può e non deve essere una debolezza, ma il primo “movens” che spinge le forze di pace verso l’obiettivo: il dialogo tra le parti» («In piazza San Giovanni tante anime capaci di camminare insieme», in <www.vita.it>, 6 novembre 2022). Vi è un aspetto estremamente positivo in questo riconoscimento dell’esistenza di una divergenza e della sua considerazione come un dato da cui partire, come un punto di forza. Da troppo tempo nel nostro Paese, a tutti i livelli, da quelli della vita politica e istituzionale a quelli del mondo del lavoro, delle associazioni, delle famiglie, abbiamo smarrito il senso di un sano rapporto con la diversità e con la possibilità di gestire in modo generativo le tensioni che questa inevitabilmente fa sorgere. È una sfida che riguarda anche la Chiesa e le sue comunità, che sta al cuore del processo sinodale in corso (cfr Costa e Foglizzo a pp. 671-679). Nella nostra società, la diversità va assunta come un dato strutturale, anzi come una vera benedizione, perché è la condizione della generatività.
Resta il fatto, però, che non sappiamo come gestire gli inevitabili conflitti, finendo il più delle volte per fingere che non esistano, oppure rifugiandoci nelle polarizzazioni. In questi due opzioni non vi è nessuna via di uscita alla conflittualità. Lo ricorda anche papa Francesco: il conflitto «dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà» (esortazione apostolica Evangelii gaudium, 2013, n. 226; su questo punto è molto interessante anche la riflessione che sta maturando nel processo sinodale: cfr Documento di lavoro per la Tappa Continentale, n. 30). Per questo diventa importante assumere un atteggiamento diverso, tornare “studenti”, perché tra le cose che abbiamo bisogno di imparare o reimparare vi è anche la capacità di stare dentro al conflitto (cfr Novara D., La grammatica dei conflitti. L’arte maieutica di trasformare la contrarietà in risorse, Sonda, Milano 2011), interpretandolo come occasione di incontro e dialogo, pur con la fatica che comporta, e quindi di maturazione e crescita.
Su questo terreno, non manca il lavoro per le realtà che hanno aderito alla manifestazione del 5 novembre e per tutti noi, perché un certo modo di comprendere e attraversare la conflittualità possa essere trasmesso e praticato anche nel quotidiano della vita associativa e della società civile. Si tratta di compiere un salto nell’interpretazione, considerando il conflitto non più come un fattore negativo di divisione, ma come il terreno in cui si realizza l’incontro tra le diversità, e che per questo, pur nella sua inevitabile fatica, diviene uno spazio che favorisce il dialogo e la partecipazione, rendendoli più autentici e profondi, e per questo capaci di incidere nella realtà.
Un sapiente mix di ingredienti
Senza consacrare un evento, la manifestazione per la pace del 5 novembre ci offre alcune piste concrete per lavorare sul tema della partecipazione a livello di società civile e su come crescere nella capacità di collaborare insieme come una buona squadra. In particolare, evidenzia una pluralità di “ingredienti” da dosare sapientemente. Il primo è l’attenzione a temi fondativi per il vivere insieme: in questo caso si è trattato della pace, ma ve ne sono altri non meno urgenti che vanno affrontati, come ci ricorda la COP27 recentemente conclusa a proposito delle questioni ambientali. Poi vi è il lavoro per approfondirli insieme ad altri, con un approccio sinergico, andando al di là degli “steccati” di appartenenze a tradizioni culturali diverse o dei protagonismi perniciosi, in uno spirito di confronto che è capace di sostenere la fatica della diversità feconda. Segue la disponibilità a impegnarsi in un processo che si dispiega nel tempo, che non è azzoppato dalla ricerca di un risultato immediato, di una visibilità effimera. A questo si aggiungono una leadership che si pone al servizio e non è autocentrata e la chiara consapevolezza che ciascuno dei soggetti coinvolti ha del proprio ruolo all’interno della società, della base che rappresenta, dei valori che lo ispirano. Tanti ingredienti, non sempre semplici da maneggiare, che rinviano a un’opera collettiva, coerentemente d’altronde con lo spirito e il senso che sta alla base della partecipazione.