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Conflitti sociali e strumenti di governance al tempo dell'impresa liquida

Fascicolo: marzo 2014
Le cronache recenti hanno dato ampio spazio alle vicende di alcune grandi imprese: la neonata FIAT Chrysler Automobiles (FCA) che pone la propria sede legale nei Paesi Bassi e quella fiscale a Londra; Electrolux, che minaccia di trasferire la produzione di elettrodomestici in Polonia; l’ennesimo “salvataggio” di Alitalia, che per sopravvivere deve accettare di entrare nell’orbita della compagnia aerea di Abu Dhabi, Etihad.

Si tratta di tre casi, certamente significativi, ma non isolati od originali. Negli stessi giorni, ad esempio, il produttore di piastrelle Del Conca inaugurava un nuovo stabilimento in Tennessee (USA), mentre attende da 10 anni i permessi per ampliare l’impianto in Romagna. Nell’intervista apparsa sul n. 1 (2014) di Limes, intitolata «Finmeccanica è orgogliosamente italiana, ma anche “polacca”», Alessandro Pansa, amministratore delegato del colosso dell’industria aerospaziale e della difesa, il cui socio di maggioranza è il Ministero del Tesoro italiano, risponde alla domanda «Che cos’è la Polonia per Finmeccanica?» con queste parole: «È un mercato domestico, proprio come l’Italia, gli Stati Uniti o la Gran Bretagna».

Non è un fenomeno solo italiano: in Francia, secondo alcune indiscrezioni, il piano di salvataggio del gruppo Peugeot-Citroën potrebbe prevedere l’ingresso dello Stato (francese) e dell’azienda automobilistica cinese Dongfeng nel capitale della società, a fianco della famiglia Peugeot che ne perderebbe il controllo. Spostandoci oltre Atlantico, a fine gennaio Google ha annunciato la vendita di Motorola Mobility (produttore di telefoni cellulari) alla cinese Lenovo, che nel 2005 aveva già acquisito la divisione personal computer di IBM.

Le notizie sul trasferimento di imprese e stabilimenti generano timore per ulteriori perdite di posti di lavoro e richieste di interventi governativi per bloccare questa dinamica. Per quanto comprensibili, queste reazioni rischiano di arrestarsi ai sintomi, mentre è necessaria una lettura più profonda del fenomeno. Siamo di fronte all’onda lunga della globalizzazione, che prosegue indipendentemente dalle vicende nazionali e, tutto sommato, anche dall’andamento della crisi economica mondiale: è lo scenario al cui interno dobbiamo proiettare l’economia, la politica e, in qualche modo, tutta la nostra vita. Che la globalizzazione sia un fenomeno complesso, sfaccettato e ambiguo (cioè con aspetti positivi e negativi al tempo stesso), non è una novità; soprattutto richiede di essere governata e indirizzata perché i benefici vadano a vantaggio di tutti e non solo di pochi.

In questa linea proporremo alcune riflessioni, necessariamente limitate, che puntano a meglio comprendere quanto accade e a identificare i conflitti in corso: senza questa crescita in capacità di discernimento dei fenomeni socioeconomici, rischiamo di sbagliare l’obiettivo delle nostre battaglie e di perdere la possibilità di orientare i processi nella direzione del bene comune.

Le imprese non hanno (più) passaporto
I fenomeni di cui ci stiamo occupando sono la conseguenza più recente di un intreccio di dinamiche in corso da decenni. La drastica riduzione dei costi di trasporto consente di produrre merci in aree anche molto distanti dai mercati ove sono vendute, senza renderne il prezzo esorbitante. Il vertiginoso sviluppo delle tecnologie informatiche rende possibile il governo di processi produttivi e distributivi su scala globale: una vera e propria rivoluzione manageriale, che consente il coordinamento in tempo reale di attività sparse nel mondo intero. Inoltre, da almeno trent’anni l’evoluzione della normativa che disciplina l’attività economica è ispirata a un progressivo abbattimento delle barriere al commercio internazionale. Viviamo nell’epoca della libera circolazione: dei capitali innanzi tutto, che possono spostarsi alla ricerca del massimo profitto; delle merci, che viaggiano alla ricerca dei consumatori disposti a comprarle a un prezzo più alto; e, pur con limitazioni molto più stringenti, anche delle persone, che si spostano alla ricerca di opportunità di lavoro.

La conseguenza è che lo scenario sul quale le imprese proiettano le proprie scelte prescinde in larga misura dai confini nazionali. Dobbiamo imparare a considerarle come soggetti senza passaporto o, forse, con molti passaporti. Ad esempio FIAT, ormai diventata FCA, è un produttore globale di automobili con sede legale nei Paesi Bassi, sede fiscale nel Regno Unito, mercato borsistico di riferimento a Wall Street, un assetto proprietario aperto ad azionisti di ogni parte del mondo (per lungo tempo una partecipazione consistente è stata in mani libiche), sedi operative principali in Italia e USA, impianti in svariati Paesi del mondo e filiali commerciali ancora più diffuse: ha davvero senso chiedersi qual è la sua identità nazionale? Assai spesso per le imprese, anche medie e piccole, l’internazionalizzazione è una scelta obbligata per cercare di sopravvivere a una competizione sempre più serrata.

In questo scenario anche i conflitti che da sempre oppongono i diversi attori economici e produttivi si modificano drasticamente: è un elemento chiave da tener presente per non leggere la realtà di oggi sulla base di categorie obsolete.

Innanzi tutto aumenta il grado di competizione tra produttori: solo pochi decenni fa sul mercato europeo le auto prodotte in Corea non erano in condizione di fare concorrenza a quelle prodotte in Italia. Oggi lo sono. Anzi, questo è esattamente l’obiettivo delle politiche di libera circolazione, nella convinzione che maggiore concorrenza metta a disposizione dei consumatori prodotti migliori e meno cari. Il che in molti casi accade. Ovviamente l’aumento della competizione comporta un incremento dei rischi per le imprese: errori e inefficienze rischiano di costare molto cari in termini di perdita di quote di mercato. Di qui la pressione per ottenere una flessibilità sempre più elevata.

La concorrenza ha inoltre assunto una dimensione “geopolitica”: oggi sono i Paesi a competere tra di loro per attirare investimenti produttivi sul proprio territorio, come è successo tra Italia e Serbia nel momento in cui FIAT ha scelto dove localizzare l’impianto che avrebbe prodotto la 500L.

Cresce anche la competizione fra lavoratori di aree diverse, come ci ricorda il caso Electrolux. A differenza delle imprese, tuttavia, i sistemi di tutela dei diritti dei lavoratori (sindacati, diritto del lavoro, welfare, ecc.) restano ancorati ai confini nazionali e questo introduce elementi di tensione e di disequilibrio nelle relazioni tra capitale e lavoro. Da tempo gli esponenti più lungimiranti del mondo sindacale hanno chiara la necessità di una globalizzazione dei diritti e delle tutele, anche se questo stenta a tradursi in pratica.

Infine, emerge con prepotenza il conflitto tra consumatori e lavoratori: la possibilità di acquistare prodotti tessili a basso costo provenienti dall’Asia meridionale e orientale grazie all’eliminazione di dazi e barriere all’importazione rappresenta una opportunità per i consumatori italiani; ma non si può dire lo stesso per quanti lavoravano nelle industrie tessili che non hanno retto la concorrenza o che, per riuscirci, hanno delocalizzato la produzione.

Appare qui con evidenza l’ambivalenza della globalizzazione: le opportunità per alcuni (imprese, ma anche Stati, lavoratori, consumatori) diventano una condanna per altri. Si tratta di due facce della stessa medaglia, che non è possibile districare, anche se, molto spesso, l’accesso alle opportunità risulta possibile (o almeno molto più agevole) a chi occupa una posizione di forza o di privilegio. Per questo tutti gli indicatori ci dicono che l’era della globalizzazione è anche un’epoca di disuguaglianze crescenti.

Spunti di riflessione in prospettiva italiana
In questo quadro le tensioni tendono a scaricarsi con particolare intensità sul livello nazionale, al quale è rimasta ancorata la politica: è ai Governi nazionali che si rivolge l’appello – talvolta il “comandamento” – di non interferire con la “mano invisibile” del mercato; che, alle prime avvisaglie di crisi, si trasforma in richieste di aiuto e programmi di sostegno. E sono i Governi nazionali a doversi fare carico delle conseguenze delle delocalizzazioni, in termini di ammortizzatori sociali quando queste avvengono, o di concessione di incentivi quando sono solo minacciate. Si tratta di una partita politica estremamente delicata, in cui i principi sono chiari – evitare che a farne le spese siano sempre i più poveri e i meno favoriti –, ma non altrettanto le modalità di concretizzarli, che devono essere innovative per tenere il passo dell’evoluzione dell’economia.

La prospettiva nazionale, dunque, mantiene la sua pertinenza per quanto attiene all’orientamento dei processi. È necessario però cambiare lo sguardo. Presentiamo qui tre spunti a partire dalla situazione italiana, che suggeriscono piste per una politica industriale sostenibile ed efficace nel mondo dell’impresa liquida.

a) Non è solo questione di costo del lavoro

Affermare che le delocalizzazioni sono la risposta delle imprese a un eccessivo costo del lavoro è ormai diventato un luogo comune. In realtà alcuni studi (cfr ad esempio ACCETTURO A. et al., «Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi», Questioni di economia e finanza, n. 193, Banca d’Italia, luglio 2013) suggeriscono una maggiore cautela: la questione della produttività – il vero fattore critico in termini di competitività internazionale – non può essere ridotta alla dinamica salariale. La Germania oggi ha problemi di produttività e di competitività internazionale assai minori dell’Italia, ma il costo del lavoro tedesco è ben più elevato di quello italiano.

La produttività è infatti un fenomeno estremamente complesso, che dipende non tanto dai prezzi dei singoli fattori produttivi, quanto dalla loro disponibilità adeguata (in termini quantitativi e qualitativi) e dalla loro interazione. Il deficit di produttività di cui l’Italia soffre è dunque un problema sistemico: imputarlo unicamente alla dinamica dei salari ne occulta le reali dimensioni e soprattutto rischia di fare il gioco di chi cerca di speculare per ridurre ulteriormente il “prezzo” del lavoro. Anzi, i lavoratori italiani già pagano le conseguenze della scarsa produttività del sistema Italia, a cui va addebitato il fatto che i salari reali italiani siano notevolmente inferiori a quelli dei principali Paesi dell’Europa occidentale. Il che, tra l’altro, contribuisce a spiegare la contrazione dei consumi che rappresenta uno degli ostacoli all’uscita dalla crisi.

Serve dunque un’attenzione equilibrata a tutte le determinanti della produttività. Almeno per quanto riguarda il settore manifatturiero, ad esempio, l’energia ha una importanza strategica e le imprese italiane in questo campo devono affrontare costi superiori a quelli dei principali concorrenti europei. Per alcune produzioni (come nel caso della metallurgia) questo fattore può rivelarsi più importante del costo del lavoro nelle decisioni sulla localizzazione di un impianto. Discorsi analoghi valgono per gli altri campi in cui il Paese soffre di un deficit infrastrutturale: dalla congestione del sistema dei trasporti (in particolare in alcune aree) alla minore diffusione della banda larga e ultralarga per l’accesso a Internet. Spingono ugualmente nella direzione della riduzione della produttività le inefficienze della pubblica amministrazione, le lentezze della burocrazia e della giustizia, un sistema scolastico meno competitivo di quello di altri Paesi, l’alto grado di corruzione ed evasione fiscale, un sistema di imposizione fiscale che non incentiva l’attività imprenditoriale, ecc. Sono aree in cui il ritardo storico dell’Italia è aumentato lungo gli ultimi vent’anni, che – come ha affermato L’Osservatore Romano – si sono rivelati «poco utili, almeno sotto l’aspetto della modernizzazione istituzionale ed economica» (BELLIZZI M., «Letta si è dimesso. Renzi verso l’incarico», 14 febbraio 2014).

Quando i blocchi che si registrano in questi campi risultano insormontabili, tutta la pressione per il mantenimento della competitività si scarica sui salari, cioè sulle spalle dei più deboli.

b) Una politica industriale proattiva

Agire sui fattori che deprimono la produttività e quindi la competitività del Paese rappresenta l’obiettivo prioritario di una politica industriale adeguata al contesto economico in cui ci muoviamo. Le strategie tradizionali della politica industriale italiana, cioè l’intervento diretto dello Stato imprenditore (imprese pubbliche, partecipazioni statali, ecc.) e la concessione di incentivi a determinate industrie o settori, si rivelano oggi sostanzialmente impercorribili, sia per l’esigenza di mantenere in equilibrio i conti pubblici (che spinge verso ulteriori privatizzazioni, cioè riduzione del ruolo imprenditoriale dello Stato), sia perché cozzano contro la normativa europea in materia di aiuti di Stato e tutela della concorrenza.

Peraltro la loro evoluzione nel tempo ha finito per privilegiarne il carattere difensivo: questo li rende poco adatti a uno scenario dinamico come quello della globalizzazione, soprattutto in un’ottica di medio-lungo termine. Il tempo in cui la politica industriale serviva a creare imprese italiane e poi a difenderle è terminato: il suo obiettivo oggi è dotare il Paese di tutto ciò che serve perché le imprese – italiane, straniere

o globali che siano – lo trovino attraente per insediarvi le loro attività. Abbandonare un’ottica difensiva significa anche decidere di puntare sui settori nei quali l’Italia gode di un vantaggio all’interno della competizione globale (dall’agroalimentare al turismo, da moda e design alla manifattura tecnologicamente avanzata), in modo che possano costituire la “locomotiva” a cui agganciare il resto del sistema economico.

Questa prospettiva non significa rinunciare alla tutela di chi opera nei settori in cui l’Italia non potrà risultare competitiva: le persone non possono essere abbandonate, ma vanno accompagnate e sostenute in un processo che ne permetta una ricollocazione autenticamente produttiva, nell’ottica di quella che a livello europeo viene definita flessicurezza o flexicurity. Dopo decenni di immobilità, gli ultimi due anni hanno visto interventi di riforma (per ora parziale) degli ammortizzatori sociali ed è in corso un ampio dibattito in vista di passi ulteriori. L’evoluzione sembra andare da strumenti che “guardano al passato”, sostanzialmente all’impiego perduto (come in fondo fa la Cassa integrazione), a programmi che cercano di guardare al futuro, al “lavoro che verrà” (come i sussidi legati a formazione e riqualificazione professionale). Senza entrare nel dettaglio delle singole misure, ci sembra una linea di tendenza promettente.

c) Governare la competizione fra Paesi

Come abbiamo visto a più riprese, nell’economia globalizzata i Paesi fanno a gara per attirare le imprese. Si tratta di una competizione solo parzialmente regolata da strumenti giuridici internazionali (su diversa scala), ed è assai elevato il rischio di dinamiche che la letteratura economica identifica con l’espressione inglese beggar thy neighbour (impoverisci il tuo vicino): un continuo gioco al ribasso nel tentativo di “farsi le scarpe” a vicenda.

Classicamente queste politiche conducevano a un progressivo aumento dei dazi sulle importazioni e dei sussidi alle esportazioni per sottrarre quote di mercato ai Paesi concorrenti: queste pratiche sono oggi proibite e sanzionate, almeno a livello UE. Ma dinamiche analoghe possono scatenarsi per quanto riguarda regimi fiscali sempre più vantaggiosi, o un diritto commerciale o del lavoro, o una legislazione ambientale sempre più accondiscendente, con l’unico effetto di accrescere i margini di profitto delle imprese a danno dei bilanci pubblici o dei diritti dei lavoratori. La Commissione europea, così occhiuta nella repressione degli aiuti di Stato e scrupolosa nella difesa della libertà di circolazione, non sembra esserlo altrettanto su questi fronti.

In un orizzonte di lungo periodo, è del tutto legittimo che l’Italia, qui con gli altri Paesi dell’UE, si proponga come obiettivo l’identificazione di adeguate forme di governance della competizione fra Stati in materia fiscale e di diritto societario. Anzi, la creazione di un vero mercato unico nella prospettiva dell’economia sociale – quella che l’UE ha scelto – lo esige come componente irrinunciabile. Del resto è ormai riconosciuto a livello scientifico che un eccesso di competizione fiscale può risultare dannoso per il buon funzionamento dell’economia. Sappiamo bene quanto possano essere lunghi e faticosi i processi in sede europea (e ancora di più a livello globale), ma non è un motivo per rinunciare a porre i problemi. I progressi registrati in materia di unione bancaria europea e di paradisi fiscali a livello globale mostrano che è possibile agire anche su questi piani.

Non solo Stato
Qualunque politica industriale proattiva che raggiunga il risultato di rendere l’Italia un luogo adatto a fare impresa sarà frustrata se poi non ci saranno imprenditori
. Questo è un fattore cruciale per il successo di una politica economica. Da questo punto di vista, alcune statistiche recenti segnalano come l’Europa presenti un deficit rispetto ad altre regioni del mondo per quanto riguarda la propensione all’imprenditorialità (cfr EUROPEAN COMMISSION, Entrepreneurship in the EU and Beyond, Flash Eurobarometer 354, 2013). Nel caso dell’Italia, si aggiunge il problema del radicamento familiare di buona parte delle medie e piccole imprese, che rappresentano una quota molto più elevata che all’estero. Lo studio delle loro storie mostra come spesso, di fronte a prospettive di crescita che richiederebbero il passaggio a una forma organizzativa più complessa o investimenti troppo onerosi per i proprietari, questi preferiscano rinunciare alle opportunità per non perdere il controllo dell’attività. Ovviamente questo frena la dinamicità complessiva del sistema.

La risposta che ci permetterà di “agganciare” la ripresa non si gioca dunque solo sul piano delle politiche o del quadro normativo e fiscale: non è solo responsabilità dello Stato e della politica. Entrano in gioco anche precisi fattori culturali, inerenti alla propensione al rischio, alle scelte di investimento, alle prospettive di vita. Da questo punto di vista la demografia gioca contro di noi: in modo quasi naturale la propensione a investire e a intraprendere, e la capacità di innovare, si riducono al crescere dell’età e questo può risultare preoccupante in un Paese in cui la percentuale di giovani continua a diminuire.

Altrettanto importanti sono gli orientamenti culturali di fondo rispetto a ciò a cui una società dà valore e promuove, anche attraverso le leggi che si dà. Ormai da tempo nell’immaginario collettivo finanza e speculazione hanno sostituito industria e manifattura come fonti per acquisire ricchezza e potere. Lo stesso accade nelle scelte di destinazione del risparmio: gli impieghi speculativi, anche grazie al moltiplicarsi degli strumenti finanziari e alle prospettive di redditività che promettono, soppiantano man mano quelli legati all’economia reale e al mondo produttivo. Una dinamica di questo genere non è priva di conseguenze in termini di vitalità del tessuto imprenditoriale.

Tocchiamo qui uno tra i più profondi conflitti che percorrono la nostra società: quello tra coloro che guadagnano producendo (lavoratori e imprenditori stanno entrambi da questo lato) e coloro che guadagnano perché godono di una qualche forma di rendita, che si tratti di quella di matrice speculativa (immobiliare o finanziaria) o di quella derivante dall’occupare posizioni di potere o di privilegio (le tante caste professionali, le cui elevate remunerazioni sono difese da barriere ben presidiate). Non è un caso che proprio su quest’ultimo scoglio si siano infranti i tentativi di modernizzazione e liberalizzazione che pure a varie riprese erano stati avviati. A farne le spese sono, ancora una volta, quei soggetti economici produttivi che già devono fare i conti con gli altri fattori che deprimono la competitività del Paese. Intervenire su queste dinamiche è un problema squisitamente politico, in quanto attiene alla ripartizione di costi e benefici all’interno del corpo sociale. Ma la sua soluzione non può essere demandata alla sola politica: richiede infatti che nella società maturi il consenso a sostegno delle riforme. Serve grande forza politica per poter avere la libertà (dai poteri precostituiti e dagli interessi di parte) necessaria a liberalizzare il sistema. Se non la si vuole giocare solo sulla depressione dei livelli salariali, è questa la strada per vincere la sfida della competitività.

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