La cittadinanza è un concetto complesso e sfaccettato, in cui si distinguono
diverse dimensioni e si intrecciano aspetti normativi, politici,
sociali e psicologici. In primo luogo, rinvia all’appartenenza a uno
Stato, a cui il cittadino è tenuto a essere leale, fino al punto da battersi in
guerra per difenderlo, e da cui si aspetta di essere protetto in caso di necessità.
Dalla Rivoluzione francese in poi, questa appartenenza comporta anche
un’eguaglianza giuridica di principio di fronte alle leggi e alle istituzioni
dello Stato. Una seconda dimensione concerne l’accesso a un pacchetto di
diritti civili e politici, ampliatisi nella seconda metà del ’900 anche alla sfera
sociale: educazione, pensioni, sanità, infortuni, tutela più o meno ampia
contro la disoccupazione e la povertà. Inoltre, la cittadinanza riguarda la
partecipazione attiva alla vita della società, attraverso il diritto di voto e
molte altre forme di espressione, che spaziano dai movimenti di protesta
all’associazionismo per promuovere cause ritenute meritevoli. Infine, una
dimensione più informale e cangiante della cittadinanza consiste nell’identificazione
psicosociale: quel sentimento per cui ci sentiamo e ci dichiariamo
italiani, anche quando non viviamo più in Italia da anni (Ambrosini 2020).
L’immigrazione “sfida” la cittadinanza
Nazionalità e cittadinanza nella nostra lingua, come in altre, sono quasi
sinonimi. Gli Stati moderni hanno promosso l’identificazione nazionale
dei propri cittadini mediante strumenti come la codifica di una lingua
unitaria, l’istruzione obbligatoria, l’elaborazione di una serie di simboli e
di rituali para-religiosi, come la bandiera, l’inno nazionale, i monumenti
agli eroi nazionali. Si sono spesi a lungo perché i loro cittadini si differenziassero
da quelli di altri Paesi e introiettassero questa differenza, anche se
nell’epoca a noi più vicina la distensione dei rapporti con i vicini e la nascita
di istituzioni come l’Unione Europea hanno portato al superamento di
una distinzione troppo netta tra cittadini e stranieri, introducendo quanto
meno la categoria intermedia dei “nostri amici”, o degli stranieri prossimi.
Questa comprensione della cittadinanza, fondata sulla coincidenza tra
nazionalità, cittadinanza e territorio, è però scompaginata dall’immigrazione,
soprattutto quando è stabile, nel momento in cui persone straniere,
che non rientrano tra i “prossimi” o gli “amici”, si stabiliscono sul territorio
nazionale, rompendone visibilmente l’omogeneità. Cittadinanza e territorio
non coincidono più e si pone il problema dell’accesso ad alcuni
diritti di cittadinanza da parte di questi stranieri residenti, specialmente
quando lavorano regolarmente: i primi diritti a essere acquisiti in
epoca contemporanea sono stati infatti quelli sociali legati al lavoro, come
la pensione. Un’altra questione che sorge è lo status da conferire ai loro figli,
in particolare quando sono nati e cresciuti sul territorio, o l’inquadramento
legale da dare alle famiglie miste. [Continua]
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