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Vivere con la porta aperta. L’esperienza della Fraternità della Visitazione

Intervista a Suor Simona Cherici a cura di Paolo Foglizzo

Nell’ambito del percorso formativo “Oltre la dittatura dell’emergenza: neoassistenzialismo e generatività”, organizzato da Caritas Ambrosiana e Aggiornamenti Sociali, abbiamo ascoltato la testimonianza di suor Simona Cherici, della Fraternità della Visitazione di Pian di Scò (AR).

La scelta di vivere “con la porta aperta” senza condizioni crea uno spazio in cui possono emergere le forze e le potenzialità delle persone, in un confronto quotidiano che spinge tutti, chi è accolto come chi accoglie, a scavare dentro di sé e a cambiare. Offriamo qui una sintesi delle riflessioni di suor Simona, ricordando che sul nostro canale YouTube è disponibile la registrazione integrale dell’incontro.

Fascicolo: ottobre 2021

Che cos’è la Fraternità della Visitazione?

 

In una frase si potrebbe dire che è l’espressione di un desiderio di vivere con la porta aperta. Siamo tre suore che da vent’anni hanno scelto di vivere in fraternità con i poveri. La nostra esperienza ebbe inizio da un desiderio profondo, che iniziò a realizzarsi quando mons. Luciano Giovannetti, allora vescovo di Fiesole, ci affidò una canonica, disabitata da trent’anni.

La Fraternità della Visitazione La Fraternità della Visitazione si trova a Castelfranco Piandiscò (AR), nella diocesi di Fiesole, più precisamente nella canonica cinquecentesca della chiesa di S. Miniato a Scò. Nel 2001 le tre suore responsabili della Fraternità iniziarono a rendere gli spazi abitabili, per avviare un’esperienza riconosciuta dalla diocesi che ha assunto la veste giuridica di associazione ODV (organizzazione di volontariato). L’accoglienza è rivolta in particolare a madri con bambini in difficoltà, donne in fuga dallo sfruttamento sessuale, in stato di pericolo e in condizioni di emarginazione sociale. L’attività è sostenuta, oltre che dal lavoro dei componenti della Fraternità, anche dalla generosità di molti che offrono aiuti materiali o donano la propria opera di volontari. La caratteristica di “casa aperta” a chi ha bisogno, a chi chiede e a chi desidera dare aiuto, ha permesso di continuare quest’opera al servizio del bene di tutti. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito della Fraternità, www.fraternitadellavisitazione.org, o nella sua pagina Facebook @fraternita.dellavisitazione

 

Il nostro stile non è quello di un’istituzione, ma piuttosto di “fare casa”; per questo, ad esempio, abbiamo rifiutato di stipulare convenzioni con enti pubblici, proprio per essere più libere da vincoli all’accoglienza. Ma chi accogliamo? Questa domanda ce la ponevamo appena arrivate e mons. Giovannetti ci disse: «Il Signore ve lo farà vedere». Così è stato: dopo quindici giorni, una mattina ha suonato alla porta una donna con una bambina di cinque mesi avvolta in una coperta militare e un’altra per mano; è venuta a vivere con noi. Da allora sono passate 800 persone, tra cui 150 bambini. E sono 39 quelli nati qui. In fin dei conti, la Fraternità nasce da un’assunzione di rischio: il vescovo ha rischiato, come oggi nella Chiesa sta rischiando papa Francesco per il bene di tutti. L’inizio è stato una follia ma, come diceva Madeleine Delbrêl, assistente sociale e mistica francese (1904-1964), bisogna essere un po’ folli per essere saggi. Oggi siamo impegnate nell’accoglienza di donne vittime di violenza e dei loro figli. In questo momento in Fraternità siamo ventuno persone, di cui nove bambini.

 

 

Nel quotidiano che cosa comporta vivere con la porta aperta?

 

Quando qualcuno entra in casa, trova il caos: i giochi dei bambini, la cucina, una mamma che prega rivolta verso La Mecca; poi cominciano i riti e i canti delle religioni tradizionali africane… Una macedonia di diversità che ci fa bene, perché impariamo a conoscere il mondo. Tra i tanti episodi, ne racconto uno: la polizia ci porta una donna con un bambino di un anno e mezzo, incinta, non sapeva bene neanche lei di quanti mesi; aspettava una femmina e per questo era stata picchiata. Qualche giorno dopo inizia il travaglio, tiriamo a sorte e tocca a me portarla in ospedale e stare con lei. In sala parto non riusciva a stare nella posizione in cui le ostetriche le dicevano di mettersi. Allora le ho chiesto: «Ma tu in che posizione vuoi stare?». Risponde: «Io vorrei partorire accovacciata, come si usa nel mio Paese, perché so farlo così». Le abbiamo dato ascolto e con eleganza e dignità lo ha fatto, insegnando alle persone del mestiere che la vita si dà così come siamo. Così è nata C. Quel giorno era la vigilia di Natale e il medico mi ha detto: «Suora, che ci fa qui invece di andare alla messa?». Io gli ho risposto: «Faccio quello che fanno tutti, sto con la mia famiglia», perché per quella donna ero tutta la famiglia che non aveva accanto.

 

Le persone stanno con voi per un tempo limitato, compiendo un percorso: come lo costruite insieme e con quali obiettivi?

 

Da noi arrivano persone dai luoghi più disparati, la maggior parte da situazioni di emergenza senza alcuna assistenza. La prima cosa che facciamo è accoglierle e metterle due per camera, di nazionalità diversa: è un modo per favorire la conoscenza reciproca e l’apprendimento dell’italiano, e permette a noi di cominciare a conoscerle. Il senso del percorso è attivare una relazione nel quotidiano e suscitare fiducia. Certo, c’è una risposta ai loro bisogni, ma facciamo attenzione: il “bisogno” non riassume tutta la persona. Occorre invece mettersi davanti alla persona e chiederle: «Che cosa desideri per te?», perché il cambiamento deriva dai desideri. Nella relazione quotidiana emergono tanti momenti del loro passato, anche dolorosi, ma è da quello che bisogna ripartire. Una relazione costruita sul desiderio fa emergere le potenzialità e le forze delle persone, che servono per superare le fragilità e i dolori che ha vissuto. Poi facciamo i corsi di cucina, le aiutiamo a prendere la patente, ecc. Così cominciano a scoprire che possono stare in piedi; alla fine vanno da sole e noi diciamo loro: «Ora vai, ma sappi che noi siamo sempre qua per te».

 

Non tutti i percorsi hanno lo stesso esito; come si valutano il successo o il fallimento di questi cammini?

 

La verifica è importante. Quando una mamma parte, facciamo una verifica comunitaria attraverso una forma di saluto particolare: ci mettiamo in cerchio, e ognuno dice alla mamma che parte qualcosa che ritiene utile per il suo futuro e poi riflette sulla sua relazione con lei, cercando che cosa poteva essere fatto meglio. È un ottimo strumento che aiuta anche noi suore, perché c’è sempre il rischio di adeguarci a ciò che sappiamo fare: così la missione diventa un’onesta professione. Ma noi dobbiamo valutarci rispetto a quello che vogliamo essere.

Altre occasioni di verifica nascono dalla quotidianità. Ad esempio, il lockdown è stato una prova molto dura: ventuno persone chiuse in casa, undici postazioni DAD e due bambini con disabilità cognitiva. Una sera noi suore abbiamo detto alle mamme: «Non ce la facciamo più», e loro si sono date da fare per supplire a quanto non riuscivamo a portare avanti. Riuscire a dire che avevamo bisogno del loro aiuto è stata una verifica e insieme anche un momento di grande liberazione. Ed è quello che ci ha salvato, perché dove non ce la facevamo più noi, ci sono riuscite loro.

Un altro esempio di verifica che nasce dalle circostanze è stato il colloquio con una candidata al servizio civile, che mi ha detto: «Mi chiamo M., sono stata qui, tu mi hai tenuto in braccio quando avevo sette anni, hai protetto la mia mamma, ora voglio tornare per restituire». È stata una delle emozioni più grandi di questi vent’anni. Ora questa ragazza studia giurisprudenza e si sta specializzando proprio sulla difesa delle donne. Oppure S., arrivato qui a quattro anni dalla strada, che ogni sabato ci dedica quattro ore per aiutarci nei lavori pesanti, nell’uliveto e nei campi; e quando viene si prende cura della persona più in difficoltà della comunità, portandosela dietro tutto il giorno. Sono verifiche importanti, da vedere e da ascoltare nella realtà, anche se nessuno le mette per iscritto.

 

Quindi ha ragione papa Francesco: per aiutare i vulnerabili bisogna essere vulnerabili.

 

Certo. Mi viene da ridere quando sento dire «Meno male che ci sono le suore»; una volta ho risposto: «Signora, c’è anche lei». Le suore non devono supplire, perché amare è responsabilità di tutti. Il coraggio più grande non l’abbiamo noi, ma le persone che arrivano a vivere qui. Ci mettono con le spalle al muro, ci obbligano a confrontarci con noi stesse. Il confronto richiede coraggio, chiedere a una persona che cosa desidera richiede coraggio. Dare da mangiare è facile, è difficile invece mangiare insieme, ma è quello che ti mette in relazione con la persona. Tante persone vengono a pranzo in comunità, si siedono a tavola e non si trovano davanti un “ospite”, un “povero”, ma una persona che ti mette in discussione e che ti chiede: «Perché sei qui?». Noi volontari e operatori dobbiamo avere il coraggio di dire che tutti abbiamo bisogno. Spesso proiettiamo sull’altro i nostri bisogni, dimenticando che l’altro ha bisogno di scoprire come camminare da solo nella vita, per diventare a sua volta capace di donare: il primo bisogno da riconoscere è quello di fare del bene. È quello che fa Gesù con i discepoli di Emmaus: non li “assiste”, ma li accompagna a rendersi conto del loro desiderio.

 

Sr. Simona, com’è cambiata in questi vent’anni? Com’è cambiato il suo modo di vedere il mondo e anche quello di essere suora?

 

Il mio modo di essere suora è cambiato tanto. Nessun cambiamento è possibile se non parte da dentro e se non c’è la consapevolezza che siamo stati amati e chiamati a vivere la vita da un Dio che si lascia toccare negli altri. Poi capiamo che anche noi abbiamo bisogno di lasciarci toccare. Io non pensavo che avrei fatto una vita così; il cambiamento che mi ha salvata è stato capire che anch’io ho bisogno degli altri.

C’è stato un fatto doloroso durante la pandemia: un bambino, che a mezzanotte giocava con noi, e alle due e mezza non si è svegliato. Gli ho fatto il massaggio cardiaco qui per terra, mentre la mamma di ventisei anni diceva: «Riportalo da me!», ma io sentivo che ormai non c’era più. Alla fine un’altra mamma, che mi stava aiutando a fare il massaggio cardiaco, ha detto: «Simona, lui è andato, ma noi ci siamo». Pur nel dolore straziante, grazie a questo episodio abbiamo preso coscienza che “noi ci siamo”: non “io”, ma “noi”. Il cambiamento sta nella presa di consapevolezza di quel “noi”. Il “noi” era la parola di Dio in quel momento, quel Dio che tocchiamo nelle persone che vivono con noi e in quelle che bussano alla porta.

Per questo invito tutti a toccare Dio nelle persone che incontrano, e lasciare che Dio ci faccia delle domande attraverso i poveri. Non perché i poveri hanno bisogno, ma perché noi abbiamo bisogno di incontrarli e di incontrare Dio attraverso di loro.

 

Cito dal n. 198 dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro». Quale vangelo le hanno annunciato i poveri? E come possiamo imparare da loro?

 

Ripensando a questi vent’anni di quotidianità condivisa con persone che inciampano e lottano per rialzarsi, fra incontri e scoperte, ci sono due episodi del Vangelo che mi colpiscono particolarmente. La prima è il ritorno alla vita di Lazzaro. Gesù dà il massimo come educatore, perché non tira l’amico fuori dal sepolcro, ma gli dice: «Vieni fuori» e Lazzaro esce con le sue gambe, non ha bisogno di essere portato a braccia. I poveri mi hanno insegnato proprio questo «Vieni fuori». Il secondo è l’incontro di Maria di Magdala con il Risorto, quando lei non lo riconosce. Per me è uno shock: a volte siamo convinti di sapere quello che facciamo e di saper riconoscere il Signore proprio lì. Invece per incontrarlo bisogna voltarsi, cambiare prospettiva, come appunto fa la Maddalena. Altrimenti ci confondiamo e non riconosciamo né Cristo né la persona che abbiamo davanti. Per questo è importante aprire gli occhi sui dettagli della vita delle persone. A volte la normalità appare noiosa e insignificante e andiamo in cerca di qualcosa di straordinario e solenne. Ma la vita, così com’è, è l’unico spazio che abbiamo per accogliere e amare le fragilità, dando e dandoci la possibilità di vivere da risorti.

 

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