Che cos’è la Fraternità della Visitazione?
In una frase si potrebbe dire che è l’espressione di un desiderio di vivere con la porta aperta. Siamo tre suore che da vent’anni hanno scelto di vivere in fraternità con i poveri.
La nostra esperienza ebbe inizio da un desiderio profondo, che iniziò a
realizzarsi quando mons. Luciano Giovannetti, allora vescovo di
Fiesole, ci affidò una canonica, disabitata da trent’anni.
La Fraternità della Visitazione
La Fraternità della Visitazione si trova a Castelfranco Piandiscò (AR), nella diocesi di Fiesole, più precisamente nella canonica cinquecentesca della chiesa di S. Miniato a Scò. Nel 2001 le tre suore responsabili della Fraternità iniziarono a rendere gli spazi abitabili, per avviare un’esperienza riconosciuta dalla diocesi che ha assunto la veste giuridica di associazione ODV (organizzazione di volontariato). L’accoglienza è rivolta in particolare a madri con bambini in difficoltà, donne in fuga dallo sfruttamento sessuale, in stato di pericolo e in condizioni di emarginazione sociale. L’attività è sostenuta, oltre che dal lavoro dei componenti della Fraternità, anche dalla generosità di molti che offrono aiuti materiali o donano la propria opera di volontari. La caratteristica di “casa aperta” a chi ha bisogno, a chi chiede e a chi desidera dare aiuto, ha permesso di continuare quest’opera al servizio del bene di tutti. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito della Fraternità, www.fraternitadellavisitazione.org, o nella sua pagina Facebook @fraternita.dellavisitazione
Il nostro stile non è quello di un’istituzione, ma piuttosto di “fare casa”;
per questo, ad esempio, abbiamo rifiutato di stipulare convenzioni con
enti pubblici, proprio per essere più libere da vincoli all’accoglienza.
Ma chi accogliamo? Questa domanda ce la ponevamo appena arrivate e
mons. Giovannetti ci disse: «Il Signore ve lo farà vedere». Così è
stato: dopo quindici giorni, una mattina ha suonato alla porta una donna
con una bambina di cinque mesi avvolta in una coperta militare e
un’altra per mano; è venuta a vivere con noi.
Da allora sono passate 800 persone, tra cui 150 bambini. E sono 39 quelli nati qui.
In fin dei conti, la Fraternità nasce da un’assunzione di rischio: il
vescovo ha rischiato, come oggi nella Chiesa sta rischiando papa
Francesco per il bene di tutti. L’inizio è stato una follia ma, come
diceva Madeleine Delbrêl, assistente sociale e mistica francese
(1904-1964), bisogna essere un po’ folli per essere saggi.
Oggi siamo impegnate nell’accoglienza di donne vittime di violenza e dei loro figli. In questo momento in Fraternità siamo ventuno persone, di cui nove bambini.
Nel quotidiano che cosa comporta vivere con la porta aperta?
Quando qualcuno entra in casa, trova il caos: i giochi dei
bambini, la cucina, una mamma che prega rivolta verso La Mecca; poi
cominciano i riti e i canti delle religioni tradizionali africane… Una macedonia di diversità che ci fa bene, perché impariamo a conoscere il mondo.
Tra i tanti episodi, ne racconto uno: la polizia ci porta una donna con
un bambino di un anno e mezzo, incinta, non sapeva bene neanche lei di
quanti mesi; aspettava una femmina e per questo era stata picchiata.
Qualche giorno dopo inizia il travaglio, tiriamo a sorte e tocca a me
portarla in ospedale e stare con lei. In sala parto non riusciva a stare
nella posizione in cui le ostetriche le dicevano di mettersi. Allora le
ho chiesto: «Ma tu in che posizione vuoi stare?». Risponde: «Io vorrei
partorire accovacciata, come si usa nel mio Paese, perché so farlo
così». Le abbiamo dato ascolto e con eleganza e dignità lo ha fatto,
insegnando alle persone del mestiere che la vita si dà così come siamo.
Così è nata C. Quel giorno era la vigilia di Natale e il medico mi ha
detto: «Suora, che ci fa qui invece di andare alla messa?». Io gli ho
risposto: «Faccio quello che fanno tutti, sto con la mia famiglia»,
perché per quella donna ero tutta la famiglia che non aveva accanto.
Le persone stanno con voi per un tempo limitato, compiendo un percorso: come lo costruite insieme e con quali obiettivi?
Da noi arrivano persone dai luoghi più disparati, la maggior parte
da situazioni di emergenza senza alcuna assistenza. La prima cosa che
facciamo è accoglierle e metterle due per camera, di nazionalità
diversa: è un modo per favorire la conoscenza reciproca e
l’apprendimento dell’italiano, e permette a noi di cominciare a
conoscerle. Il senso del percorso è attivare una relazione nel quotidiano e suscitare fiducia. Certo,
c’è una risposta ai loro bisogni, ma facciamo attenzione: il “bisogno”
non riassume tutta la persona. Occorre invece mettersi davanti alla
persona e chiederle: «Che cosa desideri per te?», perché il cambiamento
deriva dai desideri. Nella relazione quotidiana emergono tanti momenti
del loro passato, anche dolorosi, ma è da quello che bisogna ripartire. Una
relazione costruita sul desiderio fa emergere le potenzialità e le
forze delle persone, che servono per superare le fragilità e i dolori
che ha vissuto. Poi facciamo i corsi di cucina, le aiutiamo a
prendere la patente, ecc. Così cominciano a scoprire che possono stare
in piedi; alla fine vanno da sole e noi diciamo loro: «Ora vai, ma sappi
che noi siamo sempre qua per te».
Non tutti i percorsi hanno lo stesso esito; come si valutano il successo o il fallimento di questi cammini?
La verifica è importante. Quando una mamma parte, facciamo una
verifica comunitaria attraverso una forma di saluto particolare: ci mettiamo
in cerchio, e ognuno dice alla mamma che parte qualcosa che ritiene
utile per il suo futuro e poi riflette sulla sua relazione con lei,
cercando che cosa poteva essere fatto meglio. È un ottimo strumento che
aiuta anche noi suore, perché c’è sempre il rischio di adeguarci a ciò che sappiamo fare: così la missione diventa un’onesta professione. Ma noi dobbiamo valutarci rispetto a quello che vogliamo essere.
Altre occasioni di verifica nascono dalla quotidianità. Ad
esempio, il lockdown è stato una prova molto dura: ventuno persone
chiuse in casa, undici postazioni DAD e due bambini con disabilità
cognitiva. Una sera noi suore abbiamo detto alle mamme: «Non ce la
facciamo più», e loro si sono date da fare per supplire a quanto non
riuscivamo a portare avanti. Riuscire a dire che avevamo bisogno del loro aiuto è stata una verifica e insieme anche un momento di grande liberazione. Ed è quello che ci ha salvato, perché dove non ce la facevamo più noi, ci sono riuscite loro.
Un altro esempio di verifica che nasce dalle circostanze è stato
il colloquio con una candidata al servizio civile, che mi ha detto: «Mi
chiamo M., sono stata qui, tu mi hai tenuto in braccio quando avevo
sette anni, hai protetto la mia mamma, ora voglio tornare per
restituire». È stata una delle emozioni più grandi di questi vent’anni.
Ora questa ragazza studia giurisprudenza e si sta specializzando proprio
sulla difesa delle donne. Oppure S., arrivato qui a quattro anni dalla
strada, che ogni sabato ci dedica quattro ore per aiutarci nei lavori
pesanti, nell’uliveto e nei campi; e quando viene si prende cura della
persona più in difficoltà della comunità, portandosela dietro tutto il
giorno. Sono verifiche importanti, da vedere e da ascoltare nella
realtà, anche se nessuno le mette per iscritto.
Quindi ha ragione papa Francesco: per aiutare i vulnerabili bisogna essere vulnerabili.
Certo. Mi viene da ridere quando sento dire «Meno male che ci sono
le suore»; una volta ho risposto: «Signora, c’è anche lei». Le suore
non devono supplire, perché amare è responsabilità di tutti. Il
coraggio più grande non l’abbiamo noi, ma le persone che arrivano a
vivere qui. Ci mettono con le spalle al muro, ci obbligano a
confrontarci con noi stesse. Il confronto richiede coraggio,
chiedere a una persona che cosa desidera richiede coraggio. Dare da
mangiare è facile, è difficile invece mangiare insieme, ma è quello che
ti mette in relazione con la persona. Tante persone vengono a pranzo in
comunità, si siedono a tavola e non si trovano davanti un “ospite”, un
“povero”, ma una persona che ti mette in discussione e che ti chiede:
«Perché sei qui?». Noi volontari e operatori dobbiamo avere il coraggio di dire che tutti abbiamo bisogno.
Spesso proiettiamo sull’altro i nostri bisogni, dimenticando che
l’altro ha bisogno di scoprire come camminare da solo nella vita, per
diventare a sua volta capace di donare: il primo bisogno da riconoscere è
quello di fare del bene. È quello che fa Gesù con i discepoli di
Emmaus: non li “assiste”, ma li accompagna a rendersi conto del loro
desiderio.
Sr. Simona, com’è cambiata in questi vent’anni? Com’è cambiato il suo modo di vedere il mondo e anche quello di essere suora?
Il mio modo di essere suora è cambiato tanto. Nessun cambiamento è
possibile se non parte da dentro e se non c’è la consapevolezza che
siamo stati amati e chiamati a vivere la vita da un Dio che si lascia
toccare negli altri. Poi capiamo che anche noi abbiamo bisogno di
lasciarci toccare. Io non pensavo che avrei fatto una vita così; il cambiamento che mi ha salvata è stato capire che anch’io ho bisogno degli altri.
C’è stato un fatto doloroso durante la pandemia: un bambino, che a
mezzanotte giocava con noi, e alle due e mezza non si è svegliato. Gli
ho fatto il massaggio cardiaco qui per terra, mentre la mamma di
ventisei anni diceva: «Riportalo da me!», ma io sentivo che ormai non
c’era più. Alla fine un’altra mamma, che mi stava aiutando a fare il
massaggio cardiaco, ha detto: «Simona, lui è andato, ma noi ci siamo».
Pur nel dolore straziante, grazie a questo episodio abbiamo preso
coscienza che “noi ci siamo”: non “io”, ma “noi”. Il cambiamento sta
nella presa di consapevolezza di quel “noi”. Il “noi” era la parola di
Dio in quel momento, quel Dio che tocchiamo nelle persone che vivono con
noi e in quelle che bussano alla porta.
Per questo invito tutti a toccare Dio nelle persone che
incontrano, e lasciare che Dio ci faccia delle domande attraverso i
poveri. Non perché i poveri hanno bisogno, ma perché noi abbiamo bisogno di incontrarli e di incontrare Dio attraverso di loro.
Cito dal n. 198 dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium:
«Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da
insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie
sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci
lasciamo evangelizzare da loro». Quale vangelo le hanno annunciato i
poveri? E come possiamo imparare da loro?
Ripensando a questi vent’anni di quotidianità condivisa con
persone che inciampano e lottano per rialzarsi, fra incontri e scoperte,
ci sono due episodi del Vangelo che mi colpiscono particolarmente. La
prima è il ritorno alla vita di Lazzaro. Gesù dà il massimo come
educatore, perché non tira l’amico fuori dal sepolcro, ma gli dice:
«Vieni fuori» e Lazzaro esce con le sue gambe, non ha bisogno di essere
portato a braccia. I poveri mi hanno insegnato proprio questo «Vieni
fuori». Il secondo è l’incontro di Maria di Magdala con il Risorto,
quando lei non lo riconosce. Per me è uno shock: a volte siamo
convinti di sapere quello che facciamo e di saper riconoscere il Signore
proprio lì. Invece per incontrarlo bisogna voltarsi, cambiare
prospettiva, come appunto fa la Maddalena. Altrimenti ci
confondiamo e non riconosciamo né Cristo né la persona che abbiamo
davanti. Per questo è importante aprire gli occhi sui dettagli della
vita delle persone. A volte la normalità appare noiosa e insignificante e
andiamo in cerca di qualcosa di straordinario e solenne. Ma la vita,
così com’è, è l’unico spazio che abbiamo per accogliere e amare le
fragilità, dando e dandoci la possibilità di vivere da risorti.