Un’idea integrale di pace. I sessant’anni della Pacem in terris

Foto: Harry Pot for Anefo, Wikimedia Commons
Fascicolo: aprile 2023

Almeno dal punto di vista della pace, non è un mondo molto diverso dal nostro quello a cui l’11 aprile 1963, Giovedì santo, Giovanni XXIII rivolge l’enciclica Pacem in terris (PT), primo documento del Magistero «indirizzato anche “a tutti gli uomini di buona volontà”» (CDSC, n. 95) e non solo ai membri della Chiesa. Meno di due anni prima era cominciata la costruzione del muro di Berlino, simbolo della divisione del mondo in blocchi contrapposti, ma soprattutto erano passati sei mesi da quando la crisi dei missili di Cuba aveva condotto l’umanità «sull’orlo di un conflitto atomico mondiale» (Papa Francesco 2013). Giovanni XXIII era intervenuto personalmente, sia scrivendo ai leader delle due superpotenze, Kennedy e Krusciov, sia con il Radiomessaggio diffuso il 25 ottobre 1962, maturando anche la decisione di intervenire con uno strumento più ampio e autorevole quale un’enciclica. Il confronto tra le due superpotenze si giocava anche in modo indiretto, attraverso innumerevoli conflitti “locali”: dalla guerra in Viet Nam alle costanti tensioni in Medio Oriente, ai movimenti di liberazione e alle insurrezioni nel quadro della decolonizzazione. Era già in corso quella “guerra mondiale a pezzi” che segna ancora il nostro mondo, spesso nei medesimi luoghi.

«La Chiesa non ha nel cuore che la pace e la fraternità tra gli uomini, e lavora, affinché questi obbiettivi si realizzino. Noi ricordiamo a questo proposito i gravi doveri di coloro che hanno la responsabilità del potere. E aggiungiamo: “Con la mano sulla coscienza, che ascoltino il grido angoscioso che, da tutti i punti della terra, [...] sale verso il cielo: pace! pace!”».

Giovanni XXIII (1962), Radiomessaggio per l’intesa e la concordia tra i popoli, 25 ottobre

L’enciclica sceglie di non nominarne nessuno, anche se sono riconoscibili in filigrana. È il segno di un modo di intendere la dottrina sociale della Chiesa diverso da quello a cui siamo abituati oggi, frutto del rinnovamento conciliare. Si spiega così il senso di spaesamento che si prova quando si intraprende la lettura del testo: ai nostri occhi appare molto “dottrinale”, animato da una logica deduttiva all’interno di un impianto filosofico e giuridico tipico della tradizione del pensiero cristiano: innanzi tutto il diritto naturale e, per alcune parti, il diritto dei popoli, cioè l’embrione del diritto internazionale elaborato soprattutto in Spagna in seguito alla conquista dell’America e all’incontro con popoli di diversa cultura e religione. Inoltre, a differenza di quanto accade in documenti più recenti, la Bibbia è utilizzata per lo più a riprova di argomentazioni razionali e non svolge quella funzione di riferimento ispirativo che ricopre, tanto per limitarci a un esempio, la parabola del buon samaritano nell’enciclica Fratelli tutti.

Questo impianto ormai lontano dalla nostra sensibilità richiede uno sforzo ermeneutico per comprendere il messaggio dell’enciclica,che diventa l’occasione per mettere in una diversa prospettiva alcuni tratti della nostra epoca e della sua mentalità, prendendone così maggiore consapevolezza.

Pace, dignità e sviluppo integrale della persona

Da questo punto di vista, uno degli elementi più spiazzanti di una prima lettura di PT è quanto poco si parli di guerra: il termine ricorre solo sei volte, di cui cinque nei nn. 60 e 62, nella sezione dedicata al disarmo. Addirittura l’enciclica sceglie di non menzionare uno dei punti più sviluppati della tradizione morale in cui pure si iscrive, quello della “guerra giusta” (cfr Mellon 2023). Così facendo, smonta l’associazione spontanea tra pace e guerra che finisce per farne un bipolarismo manicheo, concedendo alla seconda uno spazio e un risalto che non merita. Il discorso sulla pace, infatti, non è complanare a quello sulla guerra, ma ben più ampio e profondo, ed è su questo piano che l’enciclica si pone, proponendo una riflessione sulla pace nel suo significato fondamentale, che oggi definiremmo anche integrale: volere la pace è molto più che non volere la guerra, e questo diventa anche un test per valutare l’autenticità delle intenzioni di chi dichiara di operare per la pace, oltre alla robustezza delle posizioni pacifiste.

Nel suo significato integrale, pace rimanda all’assunzione della dignità della persona come criterio base della convivenza umana (cfr PT, n. 18), con l’insieme di diritti e doveri che ne derivano (cfr PT, n. 5, nel riquadro in questa pagina). L’enciclica li passa in rassegna, dedicando particolare attenzione ai diritti, che non sono dichiarazioni formali, ma hanno un contenuto molto concreto: cibo, casa, sanità, sicurezza sociale, partecipazione politica, lavoro dignitoso, salario equo e riposo, libertà religiosa e di scelta dello stato di vita, libertà di movimento e di emigrazione (cfr PT, nn. 6-13). Sono la tutela di questi diritti, l’adempimento dei rispettivi doveri e la promozione delle strutture e delle istituzioni che li garantiscono a costituire «non solo la condizione ma anche la sostanza della pace» (Ciancio 2003). Questa risulta coestensiva alle «condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona» (PT, n. 35), cioè allo spazio del bene comune1.

Questa nozione integrale di pace ha un fondamento teologico, in quanto è coerente con «l’ordine stabilito da Dio» (PT, n. 1), cioè con l’intenzionalità profonda che il Creatore ha impresso alla creazione, e a cui la ragione umana è chiamata ad aderire: si radica qui la dignità inalienabile di ogni persona. Al tempo stesso, anche se questo legame non viene mai esplicitato, questa idea di pace si nutre di tutta la ricchezza semantica del termine biblico shalòm, che «indica una realtà ampia e tendenzialmente globalizzante: significa integrità, totalità, interezza, pienezza di vita, sazietà e consolazione, fecondità e benedizione; designa il benessere dell’esistenza quotidiana, lo stato dell’uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso, con Dio» (Martini 2004).

«In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili».

Pacem in terris, n. 5

La scelta di un linguaggio non esplicitamente confessionale (o almeno ritenuto tale dagli estensori del testo) non deriva solo dallo statuto epistemologico della dottrina sociale, all’epoca considerata parte della filosofia e non della teologia. Si collega anche alla volontà di rivolgersi a tutti gli uomini di buona volontà, non solo ai cattolici, cercando quindi un registro espressivo non marcatamente identitario. In epoca a noi più vicina, compie una scelta analoga l’enciclica Laudato si’ (2015; cfr Costa e Foglizzo 2016). L’obiettivo fu raggiunto, se, anche per interessi politici, lo Stato sovietico fece pubblicare una traduzione russa di PT.

Ma ancora più importante è un altro risultato che questa scelta di linguaggio consente di realizzare: la riconciliazione della dottrina sociale con la cultura dei diritti umani, fino ad allora considerati con sospetto dalla Chiesa per il legame genetico con l’illuminismo e la rivoluzione francese. Questa riconciliazione non opera soltanto sul piano delle idee, ma si estende a quello dell’azione per il «raggiungimento di scopi economici, sociali, culturali, politici, onesti e utili al vero bene della comunità» (PT, n. 85), cioè per la promozione della pace. Con parole all’epoca molto controverse, Giovanni XXIII apre la porta alla valutazione dell’opportunità di «un avvicinamento o un incontro di ordine pratico» (ivi) anche con movimenti storici che si ispirano a dottrine filosofiche incompatibili con la verità cristiana: «chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione?» (PT, n. 84). Inaugura così una spinta al dialogo e alla costruzione di alleanze per il bene comune che è ben lungi dall’essere esaurita.

Un compito della politica, ma non un monopolio

Se il contenuto della pace corrisponde al bene comune, ben si capisce lo spazio che l’enciclica dedica ai compiti e alla responsabilità dell’autorità politica, ribadendo l’affermazione che «l’attuazione del bene comune costituisce la stessa ragione di essere dei poteri pubblici» (PT, n. 32).

Anche in questo caso l’adozione di una nozione integrale di pace opera un significativo allargamento di prospettive. Il rispetto dei diritti inviolabili della persona e l’assolvimento dei corrispondenti doveri, in cui, come abbiamo visto, si sostanzia la pace, sono esigenze che attraversano l’intero spettro delle relazioni umane, anche quelle che non rientrano nella sfera del rapporto con i pubblici poteri, ma in quello della cultura e dell’ethos sociale. Violano la pace non solo i conflitti armati tra Stati, ma anche lo sfruttamento dei lavoratori, le discriminazioni e le violenze contro le donne, il rifiuto dei migranti, il razzismo e la tratta di esseri umani. In altre parole, lo spazio della pace è più grande di quello della politica.

I pubblici poteri conservano un ruolo insostituibile, ma non detengono il monopolio: devono riconoscere che anche altri soggetti sono titolari del compito di promuovere la pace. Le istituzioni statuali, così come le forme di governance mondiale di cui profeticamente il capitolo IV di PT preconizza la necessità2, traggono origine da un dinamismo che le precede e al cui servizio sono chiamate a mettersi. In questa luce, la ragion di Stato e la logica dell’interesse nazionale non coincidono necessariamente con la promozione della pace. Stato e autorità pubblica restano strumenti fondamentali – ne è una riprova la costante insistenza del Magistero sull’importanza della diplomazia –, a patto di mantenersi al servizio della dignità di ogni persona (e non solo dei propri cittadini). Altrimenti la storia e la geopolitica ci insegnano quanto rapidamente le persone si trasformino in danni collaterali o in pedine sacrificabili alla volontà di potenza degli Stati e di chi li governa.

«A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale. Compito nobilissimo quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio».

Pacem in terris, n. 87

Riteniamo che sia questa la base su cui PT apre la strada a una seconda riconciliazione, altrettanto fondamentale, tra Chiesa e democrazia (cfr PT, n. 31), che è il regime politico che nasce con l’ambizione di porre argini alla pretesa totalitaria del potere, in primis tramite la sua suddivisione (cfr PT, n. 45). Infatti, «in diverse parti si condanna il totalitarismo, sia come sistema di governo, sia come regime non rispettoso dei diritti della persona umana» (Sale 2013). Grande enfasi viene posta sul ruolo della costituzione nella delimitazione dei poteri e per affidare «ai poteri pubblici il compito preminente di riconoscere, rispettare, comporre armonicamente, tutelare e promuovere i diritti e i doveri dei cittadini» (PT, n. 45).

Spiare i segni dei tempi

Oggi come sessant’anni fa nel mondo non regna la pace, men che meno nel senso integrale proposto da PT: ogni giorno i diritti umani dichiarati inviolabili vengono violati ed è calpestata la dignità di troppe persone. Giovanni XXIII ne era consapevole e la sua proposta è tutt’altro che ingenuo irenismo.

Per questo, alla fine di ogni capitolo pone una sezione intitolata «Segni dei tempi», dove indica quelle dinamiche della cultura e della società in cui rintraccia una spinta verso la pace in senso integrale: ad esempio, «l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici» (PT, n. 21), «l’ingresso della donna nella vita pubblica» (PT, n. 22), o l’accesso di tutti i popoli all’indipendenza politica (cfr PT, n. 23). Alla radice di queste dinamiche individua la crescente consapevolezza della propria dignità, che spinge le persone ad agire per esigere che tutti abbiano ciò a cui hanno diritto e a resistere alle prevaricazioni. È la via che taluni chiamano della nonviolenza attiva, riconoscendone le radici proprio in PT (cfr Toso 2022b): «praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti» (Papa Francesco 2017). È questa la radice del senso di speranza che PT riesce ancora oggi a suscitare, chiedendo a ciascuno di fare la propria parte.

 

 

Note

1 PT cita qui la definizione di bene comune del n. 51 di Mater et magistra, la prima enciclica sociale di Giovanni XXIII, pubblicata nel 1961, che successivamente il Concilio assumerà come ispirazione del n. 26 della costituzione Gaudium et spes (1965).

2 La necessità di istituire forme di autorità mondiale per la gestione dei problemi globali è un punto che il Magistero successivo non cesserà di riprendere: cfr ad esempio CV, n. 67, e LS, n. 175.

 

 

Risorse

Magistero

CDSC = Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, LEV, Città del Vaticano 2004.

CV = Benedetto XVI, lettera enciclica Caritas in veritate, 2009.

FT = Papa Francesco, lettera enciclica Fratelli tutti, 2020.

LS = Papa Francesco, lettera enciclica Laudato si’, 2015.

MM = Giovanni XXIII, lettera enciclica Mater et magistra, 1961.

PT = Giovanni XXIII, lettera enciclica Pacem in terris, 1963.

Papa Francesco (2023), Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno, 9 gennaio.

— (2017), La nonviolenza: stile di una politica per la pace, Messaggio per la celebrazione della L Giornata mondiale della pace, 1° gennaio.

(2013), Discorso ai partecipanti all’Incontro promosso dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace nel 50° anniversario della “Pacem in terris”, 3 ottobre.

Giovanni XXIII (1962), Radiomessaggio per l’intesa e la concordia tra i popoli, 25 ottobre.

Altri testi

Ciancio C. (2003), «Attualità della Pacem in terris», in Prospettive assistenziali, n. 144, ottobre-dicembre, <www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/144/144_pacem_in_terris.htm 2003>.

Costa G. – Foglizzo P. (2016), «Evangelii gaudium: un “motore” per la Laudato si’ (I)», in Aggiornamenti Sociali, 2, 156-163.

Martini C.M. (2004), «Pace», in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Le cose nuove del XXI secolo, <www.dizionariodottrinasociale.it/Voci_fondamentali/Pace.html>.

Mellon Ch. (2023), «Esiste la guerra giusta? La Chiesa di fronte a una domanda ancora cruciale», in Aggiornamenti Sociali, 2, 114-120.

Melloni A. (2010), Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, Roma-Bari, Laterza.

Pavan P. (1991), Scritti, a cura di Franco Biffi, vol. III, Città Nuova Editrice, Roma.

(1988), L’enciclica Pacem in terris a venticinque anni dalla pubblicazione, Ed. Academiae Alphonsianae, Roma.

Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (2013), Il concetto di pace. Attualità della Pacem in terris nel 50° anniversario, a cura di Vittorio Alberti, LEV, Città del Vaticano.

Sale G. (2013), «Il cinquantesimo anniversario della “Pacem in terris”», in La Civiltà Cattolica, quaderno 3907 (6 aprile) 9-22.

Toso M. (2022a), Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace. Il caso Ucraina. Riflessioni per il discernimento, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2022.

— (2022b), A 60 anni dalla «Pacem in terris». Il messaggio della dottrina sociale della Chiesa in un nuovo assetto geopolitico, 27 novembre, in <www.diocesifaenza.it>.

A questi testi si aggiungono i numerosi contributi che in questi sessant’anni Aggiornamenti Sociali ha dedicato alla Pacem in terris, ora raccolti in una pagina dedicata del nostro sito.

 

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