ll palazzo di Bonn dove, dal 3 al 13 giugno, si sono tenuti i negoziati intermedi in preparazione alla COP29 di Baku, la capitale dell’Azerbaigian, dista una cinquantina di metri dal Reno, il cui livello era piuttosto alto a seguito delle inattese ed abbondanti piogge dei giorni precedenti. Se non si è verificata la scena distopica dei negoziati inondati dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, nondimeno la conferenza è iniziata con toni molto accesi sui principali temi all’ordine del giorno.
Le contestazioni sulla finanza
Il delegato cinese ha denunciato lo scarso interesse del Nord globale ad assolvere ai propri impegni di finanza climatica e la delegazione pakistana ha addirittura minacciato di uscire dalla United Nation Framework on Climate Change Conference (UNFCC) e dall’Accordo di Parigi se i Paesi più ricchi non intensificheranno i propri impegni (https://www.italiaclima.org/ncqg-gli-schieramenti-sono-pronti/).
Infatti, al centro dei negoziati ci sono state proprio le dotazioni finanziarie necessarie per realizzare il phase-out (uscita) dalle fonti fossili, adattare i territori ai nuovi scenari climatici e riparare i danni inevitabili.
Si è anche discusso del nuovo obiettivo finanziario, il New Collective Quantified Goal (NCQG), che dovrà essere approvato entro l’anno. Si tratta della dotazione necessaria per le azioni di mitigazione e di adattamento nei Paesi in via di sviluppo, anche in considerazione delle ingenti ricadute economiche che i cambiamenti climatici stanno già avendo ed avranno in futuro in questi Paesi. L’obiettivo precedente, assunto nel 2009, di stanziare 100 miliardi di dollari all’anno, è stato raggiunto soltanto nel 2022; dei fondi mobilitati, circa il 70% consiste in prestiti, a carico di Paesi già pesantemente indebitati (https://www.oecd.org/climate-change/finance-usd-100-billion-goal/). Esiste un consenso generale sul fatto che la responsabilità di mobilitare questi flussi spetti ai Paesi sviluppati, come tra l’altro previsto dall’Accordo di Parigi. Le posizioni invece divergono quando si tratta di stabilire l’entità e le modalità dei trasferimenti finanziari. I Paesi del Sud globale spingono per alzare l’obiettivo a 1.000 miliardi di dollari all’anno. Inoltre, richiedono che i prestiti a tasso di mercato vengano esclusi dalla finanza climatica, la quale invece dovrebbe consistere esclusivamente in prestiti a tasso agevolato.
Il fondo Loss and damage (perdite e danni)
Un altro punto importante riguarda il fondo di ristoro per le perdite e i danni (loss and damage), che ha ricevuto una prima dotazione finanziaria di 700 milioni di dollari a seguito della COP28 di Dubai, che è largamente insufficiente. Per avere un termine di confronto, circa 6 miliardi di euro, quasi dieci volte tanto, è la cifra stanziata dal Governo italiano solo per i danni causati dalle alluvioni del maggio 2023 in Emilia Romagna, Toscana e Marche. Il dibattito a Bonn ha messo in luce le sfide affrontate dai piccoli Stati insulari e dai Paesi meno sviluppati (least developed countries, LDC): si tratta di eventi improvvisi e catastrofici, come le inondazioni dello scorso aprile in Kenya e Tanzania, che hanno causato circa 500 vittime e mezzo milione di sfollati, o di processi di lungo termine, come l’innalzamento del livello del mare che rischia di inghiottire le isole del Pacifico. I Paesi in via di sviluppo hanno sottolineato l’insufficienza dell’attuale fondo Loss and Damage, che tra l’altro non è ancora operativo, e i lunghi tempi di attesa, in media nove mesi dalla richiesta, per l’erogazione dei fondi già disponibili (https://www.italiaclima.org/perdite-e-danni-rafforzare-coerenza-e-coordinamento/).
Resta poi da chiarire se i fondi per le perdite e i danni verranno erogati sotto forma di sovvenzioni o di prestiti. Il documento approvato a Dubai comprende entrambe le possibilità (vedi artt. 57 e 58). Va da sé che nuovi prestiti, per quanto a tasso agevolato, rischiano di gravare ulteriormente sui bilanci di Stati già gravemente indebitati.
Misure per ridurre le emissioni di gas serra
Il terzo punto chiave è il Programma di lavoro per la mitigazione (Mitigation Work Programme, MWP), approvato due anni fa alla COP27 di Sharm el-Sheik, che rappresenta uno dei principali strumenti per ridurre le emissioni globali di gas serra. È un progetto fortemente sostenuto dall’Unione Europea e contrastato da Cina, Russia e Paesi del Golfo, che anche in questi negoziati hanno fatto ostruzionismo per prevenire la possibilità che dalla prossima COP escano nuovi obiettivi ed impegni.
Su questo punto, così come su altri temi del negoziato, non possiamo non chiederci quali saranno gli scenari dopo le ultime elezioni del Parlamento europeo, che hanno registrato una crescita delle forze più critiche rispetto agli obiettivi e alle strategie del Green Deal varato nel 2019, che punta a conseguire la neutralità climatica entro il 2050. Un arretramento su questo fronte rischia di compromettere quanto resta della credibilità europea quando si parla di mitigazione. Per molti versi, ci sono motivi importanti per farci tenere alta l’attenzione, nei prossimi mesi.
Nessun passo in avanti
In conclusione, nessun progresso significativo è stato compiuto su questi temi fondamentali. Il nuovo obiettivo finanziario non è stato definito. Il Programma di lavoro sulla mitigazione è completamente rimandato alla COP29. A questo riguardo ricordiamo che, secondo le stime dell’IPCC, con le attuali politiche è impossibile mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei +2°C rispetto all’era preindustriale. Come ha ricordato Simon Stiell, segretario esecutivo nell’UNFCCC, nel suo discorso alla chiusura dei lavori, “il business as usual è una ricetta per i disastro”.
La conferenza di Bonn lascia un grande senso di frustrazione e di inquietudine. Lo spirito dell’Accordo di Parigi consisteva nel rilanciare il multilateralismo e promuovere la collaborazione tra Nord e Sud globali. Invece, assistiamo al radicalizzarsi della contrapposizione: i Paesi in via di sviluppo rivendicano, non senza ragione, adeguata assistenza finanziaria; i Paesi sviluppati sostengono obiettivi ambiziosi di mitigazione ma recalcitrano di fronte alle proprie responsabilità finanziarie; in mezzo, grandi emettitori di gas serra come Cina e Russia e grandi esportatori di fonti fossili come i Paesi del Golfo e il Sudafrica difendono i propri interessi e traggono vantaggio dalla stasi. Questi negoziati intermedi non hanno svolto il lavoro che ci si attendeva per preparare la strada alla conferenza di Baku, strada che ora appare molto in salita, una vera montagna da scalare. Soltanto un impegno finanziario adeguato alle necessità e portato avanti con coerenza da parte del Nord globale può sbloccare la stasi. È quanto aspettiamo dal G20 che si terrà in Brasile il prossimo novembre.