Il bene comune è un principio tradizionale della dottrina sociale e della teologia morale cattolica. Esprime l’insieme delle condizioni sociali che consentono a tutti gli esseri umani di condurre una vita conforme alla loro inalienabile dignità. È questa la base per la denuncia della cultura dello scarto e di una economia che uccide. Che cosa comporta l’impegno a dare concretezza alla nozione di bene comune? Perché suscita tante resistenze e accuse nei confronti di coloro che provano a farlo? Quali nuove prospettive apre il magistero sociale di papa Francesco?
Il bene comune è un principio tradizionale della dottrina sociale e della teologia morale cattolica. Esprime l’insieme delle condizioni sociali che consentono a tutti gli esseri umani di condurre una vita conforme alla loro inalienabile dignità. È questa la base per la denuncia della cultura dello scarto e di una economia che uccide. Che cosa comporta l’impegno a dare concretezza alla nozione di bene comune? Perché suscita tante resistenze e accuse nei confronti di coloro che provano a farlo? Quali nuove prospettive apre il magistero sociale di papa Francesco?
Sulla base del magistero di papa Francesco, il bene comune ha un nuovo nome: terra, casa e lavoro come garanzia universale della dignità umana. Il cristianesimo nasce come teologia e si differenza dalla religione di Stato dell’epoca tramite due affermazioni profetiche. La prima è l’affermazione dell’esistenza di un Dio trascendente per detronizzare i falsi dèi immanenti che occupavano il potere politico e asservivano economicamente i popoli; la seconda è quella del principio della creazione del mondo da parte di Dio per delegittimare i falsi proprietari, che hanno accumulato tutti i beni a costo della vita della maggior parte degli esseri umani.
Fratelli tutti, n. 127
«Senza dubbio, si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità. È possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne».
Da allora nulla è cambiato. Non a caso, la penultima enciclica sociale, Laudato si’ (LS, 2015), si fonda proprio sul dogma della creazione e sull’antropologia trinitaria. Entrambi i principi di fede giustificano la denuncia di un’economia che uccide a causa della concentrazione della ricchezza, che può essere legale ma, se esclude, diventa illegittima, e di relazioni sociali individualistiche ed egoistiche. Il dogma della creazione è il fondamento indiscutibile per la denuncia dell’appropriazione illegittima di terra, casa e lavoro da parte dei falsi dèi, che diventa illegittima quando non rispetta il limite morale della destinazione universale dei beni creati come garanzia di una vita dignitosa per tutti: è un principio indiscusso della tradizione cattolica, come sottolineava già san Tommaso d’Aquino.
Una morale sociale integrale
Come è noto, l’etica teologica è una sola, ma ha due facce, una sociale e l’altra bioambientale: tutto è collegato, tutto è connesso, come più volte ripete LS. Di conseguenza, non sarebbe possibile un’etica teologica cattolica che non tenga conto del corpo delle persone in modo integrale, cioè in relazione al loro ambiente e alla loro possibilità di sopravvivere in modo dignitoso per un essere umano. Sarebbe contraddittorio quanto essere proprietari di miniere, o di azioni di società minerarie, e poi mostrarsi ambientalisti per moda. Inoltre, il volto sociale dell’etica teologica cattolica dovrebbe chiedersi se il proprio ambito di riflessione comprenda solo le virtù private, o anche la domanda di giustizia che il grido della terra e dei poveri rivolge alle pratiche pubbliche. Se è così, dovrebbero smettere gli attacchi agli studiosi di morale sociale cattolica, accusati di fare politica e non teologia quando denunciano le cause economiche dell’ingiustizia? Nessun teologo sociale cattolico dovrebbe giustificarsi quando viene accusato che il suo discorso a favore dei poveri non è teologia, ma politica. Al contrario, dovrebbe sentirsi orgoglioso perché, come dice papa Francesco, «La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune» (EG, n. 205; cfr LS, n. 231; FT, n. 180).
Pensiamo a quanto succede oggi in America Latina: sono migliaia i morti prodotti dalla pandemia, vittime non di un virus, che ne è il detonatore, ma di un sistema sociale che, non garantendo loro un minimo di terra, casa e lavoro come bene comune, li lascia esposti alle intemperie, senza acqua potabile e con lavori precari. Secondo le stime di CEPAL (Commissione economica per l’America latina) e FAO (CEPAL e FAO 2020), nel 2020 il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema in America latina crescerà di 16 milioni. Rispondere al loro grido non dovrebbe essere la priorità di una riflessione morale sociale cattolica radicata nel proprio contesto? Invece, con dolore assistiamo al prevalere di considerazioni egoistiche, anche tra i ceti medio-bassi, che si oppongono al salario universale proposto dal Pontefice nella lettera inviata a Pasqua 2020 ai Movimenti popolari, e promosso dai movimenti sociali attraverso forme di imposizione fiscale sulla ricchezza. Alla base di questa opposizione troviamo di solito l’argomento del diritto inalienabile alla proprietà privata, anche se questa – come sappiamo – si concentra nelle mani del 10% della popolazione mondiale.
In questo tempo di pandemia, molti accademici si buttano a scrivere post, articoli e persino libri, in cui affermano che è da buon samaritano “prendersi cura” dei poveri, perché non hanno nulla. Mi chiedo se questo modo di intendere la cura in fin dei conti non sia espressione di arroganza quanto l’egoismo sociale. Credo di sì, perché dal punto di vista della teologia del popolo, i poveri non hanno bisogno di cure, ma di rispetto. Due approcci diversi. Piuttosto, ai poveri è dovuto il giusto riconoscimento economico per la cura che realizzano gratuitamente con il loro lavoro. Dunque dei poveri non ci si prende cura perché non hanno nulla, ma li si rispetta per il semplice fatto di essere in vita: fanno parte della creazione, opera di Dio Padre, redenta da Dio Figlio, e animata da Dio Spirito Santo, in pienezza di unità e di amore. Rispettare gli esseri umani che vivono su questo pianeta significa rispettare il loro inalienabile diritto a una vita dignitosa, attraverso un equo accesso di ogni abitante del pianeta alla proprietà privata di terra, casa e lavoro, come minimo sociale di base per una sussistenza dignitosa, non come un lusso o un privilegio. Se ai poveri viene restituito ciò che già loro appartiene, per il semplice fatto di essere in vita, allora non c’è nessun bisogno di prendersene cura: non sono bambini, né persone incapaci. Come ha detto papa Francesco al primo Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014), i poveri «si organizzano, studiano, lavorano».
I poveri sono esseri umani in senso pieno, capaci di prendersi cura non solo di sé, ma anche del resto dell’umanità, per cui continuano a lavorare anche nel bel mezzo della pandemia, e del pianeta, opponendosi con i loro corpi a coloro che incendiano l’Amazzonia, aprono miniere e contaminano i fiumi. Sono gli stessi corpi che si prendono cura di noi come “lavoratori essenziali”, e che gonfiano la lista delle vittime della pandemia.
Il contenuto concreto del bene comune
Tutto questo pone profondi interrogativi antropologico-teologici agli studiosi di morale sociale cattolica: chi si prende cura di chi? Chi lavora per chi? Chi si appropria dei beni di chi? Di chi è il bene comune? In questo tempo di pandemia non c’è teologo morale cristiano che, prendendo la parola del dibattito pubblico – cioè facendo politica – non cerchi di fondare le sue argomentazioni a favore dei poveri sulla categoria del bene comune. È cosa buona e giusta, ma assai spesso, con tristezza ci rendiamo conto che a mala pena riusciamo a spiegare questa posizione ai fedeli con chiarezza e convinzione e che siamo ben lontani dal riuscire ad argomentarla in un contesto secolarizzato, insensibile alle motivazioni di fede. A mio parere, questo ci accadrà ogni volta che non saremo in grado di dare un contenuto concreto alla categoria del bene comune.
In America latina e nei Caraibi, continente in maggioranza cristiano e cattolico, registriamo il divario più ampio a livello mondiale in termini di disuguaglianza sociale: la distanza tra ricchi e poveri è la più ampia del pianeta. Questo rende tutti noi cattolici responsabili, e può significare due cose: o che i ricchi non sono cattolici, o che, se lo sono, non condividono la stessa nozione di bene comune. Se questo fosse il caso, gli studiosi di morale sociale cattolica dovrebbero unirsi a livello regionale e offrire una riflessione radicata nella realtà concreta – sulla base del Vangelo, della tradizione teologica cattolica e della dottrina sociale della Chiesa – su quale sia oggi il significato di bene comune e il modo migliore per dirlo.
La categoria del bene comune è l’asse centrale di qualsiasi pensiero sociale cristiano, non solo in questo momento di crisi economica globale, ma nel corso di molti secoli. La dottrina sociale della Chiesa definisce il bene comune come un insieme di condizioni sociali che garantiscono la dignità umana. Quindi, in un continente dove la stragrande maggioranza della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, senza che lo Stato garantisca condizioni minime di sussistenza, una vita dignitosa non è possibile e l’obiettivo ultimo della teologia morale sociale cattolica resta da raggiungere, almeno in questa parte del pianeta.
Al centro del messaggio della LS, come di tutte le encicliche sociali a partire dalla prima, la Rerum novarum (1891), vi è la persona del lavoratore, che nel XIX e XX secolo era sfruttato da un sistema economico senza limiti morali, e che ora, nel XXI secolo, è scartato. Questo vuol dire che il suo corpo non vale niente, non può nemmeno essere venduto come merce. Inoltre, vediamo con tristezza che questo sistema economico non si è accontentato di sfruttare gli esseri umani, ma ha fatto lo stesso con il pianeta. Di conseguenza, le grida si sono moltiplicate. Ora, non gridano solo i poveri, ma anche sorella madre terra, come la chiama papa Francesco.
In LS, papa Francesco parla di una crisi ecologica, che è socioambientale, poiché mette a repentaglio sia la vita dei lavoratori poveri e scartati, sia la casa comune.
LS, n. 101
«A nulla ci servirà descrivere i sintomi, se non riconosciamo la radice umana della crisi ecologica. Vi è un modo di comprendere la vita e l’azione umana che è deviato e che contraddice la realtà fino al punto di rovinarla. Perché non possiamo fermarci a riflettere su questo? Propongo pertanto di concentrarci sul paradigma tecnocratico dominante e sul posto che vi occupano l’essere umano e la sua azione nel mondo»
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Tuttavia, coloro che godono di una posizione sociale ed economica privilegiata hanno fatto in modo di dare massima visibilità alla crisi ecologica e di rendere invisibile quella sociale. Nell’enciclica, e in ogni occasione, Papa Francesco sostiene che la crisi ecologica e socioambientale ha una radice umana (cfr in particolare il cap. III di LS, che si intitola proprio «La radice umana della crisi ecologica»). Ciò significa che una parte dell’umanità vive a costo della vita di un’altra parte e del pianeta ed è responsabile delle condizioni indegne in cui versano entrambi. Come tutti sappiamo, per la teologia morale cattolica ogni essere umano ha diritto a usare i beni della creazione in modo da garantire la propria sopravvivenza per il solo fatto di essere in vita. Forse, non tutti siamo altrettanto consapevoli che il contenuto minimo di quel diritto è una terra da lavorare e su cui costruire un tetto per prendersi cura di una famiglia.
Fratelli tutti: il popolo come forma politica del cambiamento
Anche nella più recente enciclica sociale, Fratelli tutti (FT), il fulcro continua a essere il lavoro come fattore di organizzazione sociale (cfr FT, n. 162). Questo richiede la terra come luogo di lavoro, e la casa come realizzazione effettiva del lavoro. La novità di FT sta nel riconoscere i movimenti popolari come forma di azione politica per il cambiamento, in quanto sono portatori di «quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune» (FT 169, che rinvia al discorso all’Incontro mondiale dei movimenti popolari del 2014). Ma è proprio «una forma» la chiave della proposta dell’intera enciclica (cfr FT, n. 1). Una forma è una chiave che, quando si incastra perfettamente in un’altra forma, apre o chiude la porta di accesso ai beni. I movimenti popolari non vanno qui intesi come una massa inorganica e faziosa, al cui interno ciascuno punto ad accrescere i propri beni, ma come un soggetto politico collettivo che lotta per la giustizia sociale per tutti. Dovrebbero essere intesi come una comunità organizzata politicamente, dal sottosuolo del pianeta, in vista del bene comune. Come ha affermato papa Francisco nel discorso al II Incontro mondiale dei movimenti popolari (2015), un popolo in movimento, che ha saputo convertire la passione in azione comunitaria, appare come la chiave capace di aprire la porta di uscita da un sistema che uccide.
Una chiave nelle mani di Pietro è uno dei simboli della Chiesa stessa, come popolo di Dio. La forma buona è quella che si incastra a perfezione, è quello che la porta e la chiave hanno in comune. Per Francesco, la costituzione di quanti sono inclusi e di quanti sono esclusi in un unico popolo è la forma politica in grado di garantire terra, casa e lavoro su base universale. Secondo FT, ciò che è comune emerge tra le persone come progetto di vita a lungo termine, come sogno collettivo attraverso il quale costituiscono la propria identità. Francesco chiama popolo questo bene comune, che appare come un fenomeno sociale reale (cfr FT, n. 157). Ciò che è comune, ovvero il popolo, si manifesta nell’unità tra i diversi come sentimento operativo, che fa dell’amore la forma politica capace di realizzare l’uguaglianza in quanto bene per tutti. Questo sentimento d’amore, quando si incarna come forma politica, diventa la fonte di energia per organizzare giuridicamente la comunità intorno a terra, casa e lavoro come bene comune. In FT la forma politica degli esclusi, cioè di coloro che non hanno parte, non è un partito che li rappresenta in modo disincarnato, ma un movimento popolare organizzato e incarnato in istituzioni di solidarietà e strutture sussidiarie. Così, in quest’ultima enciclica, terra, casa e lavoro rappresentano il bene comune come sogno sociale costitutivo di un popolo.