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Rifugiati: per una risposta integrale

L’esplosione del fenomeno dei migranti forzati chiede soluzioni che non siano solo di gestione e controllo del fenomeno, ma occasione di cambiamento profondo anche per le nostre società.
Fascicolo: ottobre 2015
Da parecchie settimane quella che viene chiamata emergenza profughi si trova al centro dell’agenda politica, in particolare europea, così come dell’attenzione dei media. Le immagini di grande crudezza di un dramma che si svolge alle porte di casa nostra suscitano profonde emozioni, mentre si accendono le polemiche tra coloro che spingono per l’apertura e l’accoglienza e quanti sono invece fautori della chiusura e dei respingimenti.

Per molti versi si tratta della replica di un copione già visto, ma questa volta dobbiamo notare oltre all’intensificarsi dei toni, anche l’ampliamento della portata del fenomeno: secondo i dati diffusi dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR, <www.unhcr.org>), le persone arrivate via mare nei Paesi europei più esposti (Italia, Grecia, Malta e Spagna) nel primo semestre 2015 sono 137mila, contro le circa 75mila dello stesso periodo del 2014: l’aumento è quindi dell’83%.

La stessa fonte ci informa che si tratta in larghissima maggioranza di persone in fuga dalle aree di instabilità e conflitto che circondano l’Europa: il Medio Oriente, soprattutto la Siria, e l’Africa a nord dell’Equatore, dove ormai si fatica a tenere il conto delle crisi (Eritrea, Libia, Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria, Sud Sudan, ecc.). Coloro che oggi cercano di entrare in Europa sono dunque migranti forzati, prodotto di quella terza guerra mondiale combattuta a pezzi che si va intensificando.

A livello globale infine il fenomeno dei migranti forzati ha raggiunto dimensioni mai toccate in precedenza: sempre secondo l’UNHCR, il loro numero nel 2014 ha raggiunto i 59,5 milioni (l’equivalente della popolazione italiana), con un aumento del 16% rispetto ai 51,2 milioni del 2013, pari a circa 42.500 nuovi profughi ogni giorno. «Siamo di fronte ad un cambio di paradigma, a un incontrollato piano inclinato in un’epoca in cui la scala delle migrazioni forzate, così come le necessarie risposte, fanno chiaramente sembrare insignificante qualsiasi cosa vista prima», ha dichiarato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati António Guterres.

Il confronto fra i dati globali e quelli degli arrivi in Europa ci dice anche che finora il nostro continente è stato a mala pena sfiorato dal fenomeno delle migrazioni forzate, tanto che il solo Libano, con una estensione pari a quella dell’Abruzzo e una popolazione analoga al Piemonte o all’Emilia-Romagna, ospita più rifugiati dell’intera UE. In questo quadro è dunque ragionevole aspettarsi che i flussi di rifugiati in arrivo nei nostri Paesi siano destinati ad aumentare.

Le nostre società hanno quindi bisogno di attrezzarsi per far fronte a un fenomeno a cui non potranno sottrarsi e che non può essere gestito sull’onda delle emozioni, poiché quando si rimane prigionieri della loro alternanza, servono a ben poco. Ce lo hanno ricordato sia il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che il 1° settembre nel Discorso sullo stato dell’Unione ha affermato: «La rabbia non aiuta nessuno», sia il presidente del Consiglio Renzi, che in una intervista al Corriere della Sera del 30 agosto ha dichiarato che commuoversi non basta. Quando invece le emozioni sono integrate in una visione di insieme, che include la comprensione dei fenomeni e delle loro cause, la competenza scientifica e professionale, la determinazione ad agire in vista dell’autentico bene comune, allora rappresentano una riserva di energia irrinunciabile per spingere al cambiamento.

In questa linea proveremo a tracciare alcuni elementi di un possibile quadro di riferimento per una riflessione più integrale sul tema delle migrazioni forzate, partendo dal patrimonio della tradizione biblica, che sul tema dell’ospitalità è portatrice di una sapienza millenaria ancora capace di ispirarci. Ne trarremo alcuni stimoli per rileggere le risposte all’emergenza profughi a livello politico e della società civile, in vista di delineare possibili percorsi di evoluzione.


Il Vangelo dell’ospitalità

Secondo l’Antico Testamento, la condizione di migrante addirittura definisce l’identità del popolo ebreo, il cui antenato, Abramo, si spostò dalla Mesopotamia verso la Palestina: «Mio padre era un arameo errante» (Deuteronomio 26,5), cioè uno straniero, confessa l’ebreo che al tempio si presenta davanti a Dio. Successivamente i patriarchi, in particolare Giacobbe e i suoi figli, furono costretti a emigrare in Egitto dalla carestia sopraggiunta nel paese di Canaan, e qui il popolo sperimentò la condizione di straniero immigrato, oppresso e sfruttato. Uscito dall’Egitto, Israele entra in una terra che Dio gli affida, mantenendone la proprietà: «la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Levitico 25,23).

Questa esperienza profonda e articolata diventa la giustificazione della sacralità dell’accoglienza degli stranieri e dei profughi. Dio, che ha liberato Israele dall’oppressione e lo ha accolto nella sua terra, chiede al popolo di fare altrettanto: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Esodo 22,20). Anzi, Dio prende espressamente posizione a favore dello straniero, che è oggetto del suo amore, esattamente come Israele: «Dio ama lo straniero» (Deuteronomio 10,18) è una affermazione sorprendente, anche perché è uno dei soli quattro casi in cui nell’Antico Testamento il verbo “amare” ha Dio come soggetto (negli altri tre l’oggetto dell’amore di Dio è Israele). Il popolo è invitato a imitare il suo Dio facendo lo stesso: «Amate lo straniero» (Deuteronomio 10,19).

Il Nuovo Testamento prosegue e approfondisce questa linea. Nel famoso brano del giudizio universale (Matteo 25), infatti, Gesù si identifica con il forestiero che ha bisogno di essere accolto: ospitarlo è ospitare Lui. Ma lungo tutto il Vangelo appare chiaro come Gesù avesse fatto dell’ospitalità ricevuta – pensiamo ai tanti che lo invitano a pranzo – e a volte anche richiesta (il caso di Zaccheo) una vera e propria cifra del proprio modo di stare al mondo. Dopo il termine della Sua vita terrena, l’ospitalità diventa addirittura il modo con cui continua essere presente nella storia, in attesa del suo compimento: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Apocalisse 3,20).

Nei racconti evangelici l’ospitalità ricevuta da Gesù non è mai una semplice accoglienza funzionale al soddisfacimento di un bisogno primario, ma si trasforma sempre in un incontro: a chi gli apre la porta, Gesù apre il cuore e fa dono della sua parola. L’ospitalità autentica istituisce una relazione di simmetria in cui ciascuno accoglie ed è accolto, dà e riceve, che è chiamata a sfociare nella reciprocità evocata dalle parole dell’Apocalisse: «io [...] con lui ed egli con me». È questa ospitalità al forestiero (allo straniero, al rifugiato, al migrante) che apre la porta della vita eterna.

Come in ogni incontro, l’esito resta consegnato alla libertà di coloro che si ritrovano faccia a faccia: possono chiudersi nel rifiuto, rimanere bloccati nel sospetto e nella paura, cedere alla tentazione della violenza e del dominio; sono situazioni che Gesù stesso ha sperimentato, fino al rifiuto radicale di chi lo ha espulso dalla città e messo in croce. C’è dunque un rischio nell’ospitalità, che le nostre società percepiscono con forza e da cui sono spaventate. Per questo cercano di sfuggire all’incontro, attraverso mezzi e dispositivi, di cui muri e filo spinato sono una efficace rappresentazione. Si difendono, e, rinunciando a quella interrogazione radicale su di sé che viene dal confronto con l’alterità, finiscono per rimanere prigioniere di se stesse: ciò che chiude alcuni fuori, inevitabilmente chiude altri dentro.

Queste dinamiche spiegano bene perché nel racconto biblico l’ospitalità resti sempre una questione di fede. Non necessariamente una fede esplicita in Dio, ma quell’atto fondamentale che scommette sulla vita e sul fatto che aprire a un altro una possibilità di vita non significa necessariamente perdere la propria. Per chi la offre, come per chi la riceve, l’ospitalità contiene una promessa di vita, a cui occorre affidarsi assumendo il rischio che l’accompagna. Se si cerca di garantirsi contro il rischio, ci si preclude anche la possibilità di accedere alla promessa e alla vita. Il destino di tanti migranti che perdono la vita per non aver trovato ospitalità ne è una tragica conferma.

Occorre sempre tenere conto di questo spessore antropologico della dinamica dell’ospitalità, anche nell’elaborazione delle politiche di accoglienza e delle risposte all’emergenza profughi: l’assunzione del rischio in vista della promessa può essere proposta – ed è quello che fa la Chiesa sulla base della fede che custodisce – ma non può essere imposta per decreto. Per questo risposte davvero efficaci devono articolare e integrare una pluralità di livelli e offrire percorsi di progressiva crescita della fiducia tanto alle persone che accolgono quanto a quelle che sono accolte. Proveremo a evidenziare questa dinamica rileggendo le mosse della politica e di alcune componenti della società civile in questi mesi.


Una politica a rischio di deriva tecnoburocratica

La risposta politico-istituzionale all’aumento degli arrivi lungo l’estate è parsa quanto meno frammentaria, tentennante, indecisa, a volte improvvisata: accordi tra i Paesi europei annunciati e poi smentiti; frontiere aperte, poi chiuse e poi riaperte; traffico ferroviario bloccato e poi sbloccato. Molte delle posizioni assunte o invocate paiono far riferimento a un paradigma di controllo e gestione del fenomeno che possiamo definire tecnoburocratico.

Si colloca qui la convinzione diffusa che la soluzione sia il controllo, ricercato attraverso un investimento sempre più massiccio in mezzi e tecnologie: da quelli relativamente semplici, come muri lungo i confini, a quelli più sofisticati, di derivazione militare, come i dispositivi di sorveglianza anche satellitare utilizzati nel Mediterraneo. L’intensificazione del controllo resta un ingrediente fondamentale di tutte le proposte politiche, come appare chiaro anche nel Discorso sullo stato dell’Unione del presidente Juncker, che pure mostra il desiderio di uno sforzo di accoglienza condiviso a livello europeo: «Una politica unitaria nel settore dell’asilo e dei rifugiati richiede altresì maggiori sforzi condivisi per rendere sicure le nostre frontiere esterne».

L’elemento comune delle soluzioni puramente tecnocratiche, che ne spiega l’appeal politico, almeno di breve periodo, è che alimentano l’illusione di poter trovare risposte puntuali senza mettere in discussione l’assetto complessivo. Il prezzo è la negazione di parte della realtà e la riduzione della reale efficacia delle politiche europee, che hanno iniziato a mostrar la corda nella gestione degli eventi di questi mesi.

Molte organizzazioni da tempo attive sul campo sottolineano invece come altri approcci, meno focalizzati sul controllo, potrebbero rivelarsi altrettanto efficaci, oltre che più rispettosi della dignità delle persone coinvolte. Come ha fatto presente, ad esempio, p. Camillo Ripamonti SJ, già redattore di Aggiornamenti Sociali e attualmente direttore del Centro Astalli (Servizio dei gesuiti per i rifugiati – JRS Italia): «Oggi chi scappa da guerre e persecuzioni e legittimamente vuole esercitare il suo diritto a chiedere protezione negli Stati dell’UE non ha alternative al traffico di esseri umani. Prima delle quote, prima dei programmi di rimpatrio, prima degli hot spot con relative inaccettabili misure di detenzione e coercizione nei confronti dei migranti è necessario stabilire immediatamente canali umanitari sicuri». La lotta ai trafficanti di esseri umani non si fa sabotandone le imbarcazioni, secondo il paradigma del controllo, ma offrendo ai migranti alternative alla necessità di finire nelle loro grinfie.

Inoltre, in un quadro di prevedibile aumento degli arrivi, una risposta politica seria non potrà limitarsi a gestirli in qualche modo, ma dovrà proiettarsi nel lungo periodo e collegarsi con altri elementi di politica estera e interna. Sul primo versante, l’Europa dovrà rivedere il proprio atteggiamento nei confronti delle crisi e dei conflitti che minano la stabilità alle sue porte, aumentando il proprio impegno nella promozione di processi di pace; analogamente andrà affrontata la questione delle crescenti disuguaglianze globali, fonti di tensioni e spinte alla migrazione, e del sistema economico che le produce. Sul versante interno, è evidente la necessità di riprogettare il cammino sociale, culturale, politico ed educativo verso quel multiculturalismo che sempre più segnerà il nostro continente. Nell’uno come nell’altro caso, è inevitabile mettere in discussione lo status quo sulla cui base i nostri Paesi funzionano e si rappresentano.

In questo percorso e nella linea dell’autentica ospitalità, è cruciale e urgente immaginare anche un diverso posto e ruolo per gli stessi migranti. Nel paradigma tecnocratico del controllo essi sono ridotti a pura oggettività, corpi di cui bloccare il movimento o da rinchiudere in spazi delimitati o quote sulla cui ripartizione decidere senza alcuna considerazione delle necessità, dei legami e dei desideri di cui sono portatori. È davvero possibile e sensato che non abbiano alcuna voce in capitolo, se non la tenacia con cui continuano a muoversi nonostante tutto? Non c’è alcun modo per farli diventare coprotagonisti di soluzioni condivise?


Uno spazio per la sussidiarietà

Sarebbe ingenuo pensare che un simile cambio di paradigma possa essere affidato unicamente alla politica. Decidere se rimanere prigionieri della paura del rischio o aprirsi alla promessa dell’ospitalità è competenza di ciascuna società, che non la può appaltare nemmeno al proprio sistema politico: sarebbe in fin dei conti ancora una illusione tecnocratica.

Se la politica da sola non può produrre il cambiamento, può invece interpretarlo, accompagnarlo, sostenerlo qualora ne scorga i segnali nella società. La cronaca di questi mesi ha registrato anche motivi di speranza da non sottovalutare. Alcuni sono stati ampiamente mediatizzati, come il movimento di solidarietà che in Islanda ha sbugiardato la disponibilità a un’accoglienza puramente simbolica dichiarata dal Governo, o i viaggi dei cittadini austriaci e tedeschi partiti con la propria auto per andare a recuperare i migranti bloccati in Ungheria, nonostante il rischio di sanzioni. Ci sono molti altri esempi meno famosi. Limitandoci a qualche esempio oltre confine, possiamo citare il progetto Refugees Welcome, che in Germania e Austria consente a studenti fuori sede di offrire una stanza del loro alloggio a un profugo; il Network of Shower Activists (Rete di attivisti della doccia), grazie al quale a Parigi centinaia di famiglie aprono la propria casa ai rifugiati perlomeno per una doccia e un pasto; le tante iniziative di volontariato per assistere i migranti bloccati nelle stazioni dell’Europa centrale.

Paura e xenofobia non sono gli unici elementi della cultura e della società europea che l’emergenza profughi ha messo in luce: ci sono ampi spazi di solidarietà praticata nella sussidiarietà e con grande creatività. Sono segnali importanti inviati alla politica in funzione del suo mutamento, perché comprenda che non tutti i cittadini sono d’accordo con il paradigma della chiusura e del controllo. Questo messaggio potrà diventare tanto più forte e decisivo quanto più queste iniziative sapranno aprirsi anche uno spazio di interlocuzione propriamente politica, facendo sentire la propria voce e il peso del proprio consenso. Gli alfieri della xenofobia lo sanno fare benissimo, restituendo alla politica un’immagine della società che è probabilmente distorta.

Al tempo stesso – e si tratta di un obiettivo fondamentale nel lungo periodo –, operando la solidarietà nella sussidiarietà, queste iniziative produrranno esperienze capaci di modificare la cultura e il modo di pensare della società nel suo insieme: adempiranno così a una insostituibile funzione educativa, che una politica davvero orientata al bene comune saprà assumere e tradurre anche a livello istituzionale. Il ruolo delle forme di auto-organizzazione della società civile – il privato sociale, il terzo settore o, con un linguaggio più antico, i corpi intermedi – è di capitale importanza e non può consistere solo nell’offrire servizi a basso costo o nel reperire risorse economiche per supplire alla carenze dei bilanci pubblici. La loro funzione, autenticamente pubblica anche se non statale, che devono poter svolgere all’interno dello spazio definito da leggi pensate con questo obiettivo, è di essere moltiplicatori di risorse attraverso l’attivazione delle reti sociali. In questo modo le singole iniziative e la ricchezza di creatività e impegno di cui sono portatrici potranno diventare patrimonio comune, andando ad accrescere la dotazione di capitale sociale di cui la collettività può disporre.

Nella linea dei percorsi di educazione e di costruzione del capitale sociale ci sembra che vada collocato anche l’invito all’accoglienza che il Papa ha rivolto a ogni parrocchia. Nessuno è così ingenuo da immaginarlo come un modo di risolvere il problema: visto il numero dei migranti forzati, semplicemente non ci sono abbastanza parrocchie! Tuttavia, parafrasando l’enciclica Laudato si’, non va assecondato il diffuso scetticismo sulla reale efficacia di questi atti: «Non bisogna pensare che questi sforzi non cambieranno il mondo» (n. 212). Per due ragioni: innanzitutto perché sono i gesti concreti che possono costruire una cultura diversa: «Tali azioni diffondono un bene nella società che sempre produce frutti al di là di quanto si possa constatare, perché provocano in seno a questa terra un bene che tende sempre a diffondersi, a volte invisibilmente» (n. 211). Ma soprattutto perché ci danno accesso e ci consentono di praticare il senso della nostra umanità: ogni singolo gesto, al di là della sua efficacia, «ci restituisce il senso della nostra dignità, ci conduce ad una maggiore profondità esistenziale, ci permette di sperimentare che vale la pena passare per questo mondo» (ivi).

Insieme a tanti uomini e donne, anche noi gesuiti non siamo rimasti indifferenti alle parole del Papa: le pubbliche prese di posizione dei Superiori a livello europeo e italiano lo attestano (come la lettera inviata alle comunità dei gesuiti da Gianfranco Matarazzo SJ, provinciale d’Italia e pubblicata sul nostro sito, <www.aggiornamentisociali.it>), incoraggiando a un impegno a più livelli, dall’accoglienza concreta nelle comunità di rifugiati, all’attivare percorsi di sensibilizzazione al fenomeno da inserire nel percorso di formazione dei gesuiti; dall’impegno attivo nelle scuole per promuovere la cultura dell’accoglienza presso gli studenti e le loro famiglie, fino all’approfondimento serio e rigoroso del tema da parte delle Riviste della Compagnia. In questo quadro si inserisce la costante attenzione riservata da Aggiornamenti Sociali alla questione delle migrazioni in tutte le sue molteplici sfaccettature.

Le esperienze di quanti faranno proprio l’invito del Papa o di quanti saranno mossi per le motivazioni più diverse a tentare vie di accoglienza, specie se ben accompagnate a sviluppare la loro creatività e ad affrontare le inevitabili difficoltà e disillusioni, moltiplicheranno occasioni di incontro in cui è più semplice accogliere il rischio dell’ospitalità e aprirsi alla promessa di vita che essa contiene. Quanto più numerose saranno queste esperienze, tanto più diventeranno contagiose per la società nel suo insieme, convincendola ad accettare la dinamica della reciprocità e della fiducia nella vita.

Questa sì nel lungo periodo sarebbe una soluzione, oltretutto nel segno della reciprocità. Non andrebbe infatti solo a beneficio dei migranti forzati, che si muovono alla ricerca di nuove possibilità e confidano di poterle trovare grazie alla solidarietà di altri membri della famiglia umana, ma anche delle società europee: alcuni segnali di vuoto e di stanchezza che inviano – pensiamo ad esempio alle dinamiche demografiche – raccontano che al loro interno la fiducia nella vita è ormai un bene piuttosto scarso, da difendere e promuovere in ogni occasione.

Per un percorso di approfondimento: Dossier rifugiati, proposta di alcuni articoli sul tema dell’immigrazione e dell’accoglienza dei rifugiati recentemente pubblicati su Aggiornamenti Sociali.  


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