Il pensiero di Benedetto XVI sulla crisi economica globale espresso nella
Caritas in veritate (CV; cfr Camacho Laraña 2015) può essere arricchito dall’esame di due documenti del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Il primo (PCGP 2011) ha come oggetto la crisi economica e finanziaria e le riforme necessarie per la sua soluzione, mentre il secondo (PCGP 2013) si occupa dell’impresa, anche se non mancano allusioni alla crisi.
Riformare la finanza
A differenza della CV, PCGP 2011 contiene un’analisi tecnica più dettagliata della crisi e una forte denuncia delle disuguaglianze che ha provocato. Sebbene vi si percepisca facilmente l’eco dell’enciclica di Benedetto XVI, il fatto che non sia un documento papale ne spiega il tono più concreto e incisivo.
Dopo l’analisi dei processi che, dal dopoguerra, hanno propiziato lo sviluppo dell’economia finanziaria, si denunciano i reiterati eccessi di liquidità che hanno provocato crisi come quella petrolifera (anni ’70), quelle di Messico, Brasile, Russia e Corea (anni ’80), e ancora quelle di Messico, Thailandia e Argentina (anni ’90). Tutte rappresentano un precedente della crisi scoppiata nel 2008 e sono accomunate da una caratteristica: gli enormi costi in termini di generazione di disuguaglianze, non solo nei Paesi in via di sviluppo ma anche in quelli sviluppati. Gli errori tecnici si sommano alle responsabilità morali.
Ma quando vuole approfondire le cause della crisi attuale, il documento concentra le sue denunce su un liberismo economico senza regole né controlli, inteso come ideologia che ispira l’economia internazionale. Il giudizio è molto severo: «Si tratta di una ideologia, di una forma di “apriorismo economico”, che pretende di prendere dalla teoria le leggi di funzionamento del mercato e le cosiddette leggi dello sviluppo capitalistico esasperandone alcuni aspetti. Un’ideologia economica che stabilisca a priori le leggi del funzionamento del mercato e dello sviluppo economico, senza confrontarsi con la realtà, rischia di diventare uno strumento subordinato agli interessi dei Paesi che godono di fatto di una posizione di vantaggio economico e finanziario»
(n. 1)
.
Il primato della politica su economia e finanza
In tale processo, occorre recuperare il primato dello spirituale e dell’etica e, con essi, il primato della politica – responsabile del bene comune – sull’economia e la finanza. Occorre ricondurre queste ultime entro i confini della loro reale vocazione e della loro funzione, compresa quella sociale, in considerazione delle loro evidenti responsabilità nei confronti della società, per dare vita a mercati ed istituzioni finanziarie che siano effettivamente a servizio della persona, che siano capaci, cioè, di rispondere alle esigenze del bene comune e della fratellanza universale, trascendendo ogni forma di piatto economicismo e di mercantilismo performativo (PCGP 2011, n. 4).
Al liberismo economico si aggiunge l’ideologia utilitarista, secondo cui ciò che è utile per l’individuo conduce al bene della comunità. Il documento denuncia un altro errore, figlio dell’ideologia neoliberale: l’ideologia tecnocratica, la quale ritiene che i problemi da affrontare siano esclusivamente di natura tecnica e che, in quanto tali, si sottraggano alla necessità di un discernimento e di una valutazione di tipo etico (cfr n. 2).
Tutte queste critiche si collegano a quanto afferma la CV: siamo di fronte a una crisi di carattere morale, che non si limita a comportamenti individuali ma che riguarda la concezione di una economia priva di anima, dove la solidarietà propria della famiglia umana è assente e vigono solo il meschino egoismo, l’avidità collettiva e l’accaparramento della ricchezza.
Le proposte di soluzione coincidono in gran parte con quelle della CV. Si focalizzano sul «governo della globalizzazione», che è il titolo della parte terza del documento; segue da vicino l’enciclica
Pacem in terris, proponendo di istituire una autorità mondiale in modo graduale e su una base di realismo. PCGP 2011 specifica la proposta invitando a una fase preliminare di concertazione, che non punti agli interessi di lobby e gruppi di Paesi, ma al bene comune. Con concretezza propone inoltre di affidare agli organismi internazionali e al G20 il compito di procedere a una effettiva regolamentazione dei mercati finanziari e monetari.
Le iniziative suggerite hanno un carattere più concreto, conforme al tenore del documento: tassazione delle transazioni finanziarie, forme di ricapitalizzazione delle banche, ritorno alla differenza tra credito ordinario e banche di investimento. La proposta più significativa del documento è comunque recuperare il primato della politica su economia e finanza (cfr riquadro).
Bisogna riconoscere che questa proposta andrà incontro alla riluttanza di tanti ambienti in cui la politica è disprezzata, accusata non solo di inefficienza, ma anche di corruzione. Per questo motivo è importante riaffermare che la politica, nella misura in cui si occupa (si dovrebbe occupare) direttamente del bene comune, deve avere il primato sull’economia, la quale persegue solo interessi particolari, pur legittimi. Indipendentemente dalle critiche che si possano fare alla politica, l’affermazione del suo primato deve rimanere valida, a maggior ragione dopo che la crisi del mondo finanziario ha evidenziato dove può condurre una società governata solo da interessi particolari. In conclusione, una delle urgenze della nostra società consiste nel recuperare il significato autentico della politica.
Il concetto d’impresa
Il secondo documento (PCGP 2013) non ha per oggetto la crisi, anche se non mancano riflessioni utili per affrontarla. Si tratta peraltro di un testo innovativo: è infatti la prima volta che il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace si occupa direttamente del mondo imprenditoriale.
Alle sue radici vi è l’interesse suscitato in alcuni centri di ricerca nordamericani dalla CV e dalla sua insistenza sul fatto che la carità deve essere praticata da tutti i credenti, ciascuno in base alla propria vocazione e al posto che occupa nella società. La sua origine è invece il seminario «
Caritas in veritate: la logica del dono e il significato dell’impresa», organizzato nel febbraio 2011 dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace in collaborazione con il John A. Ryan Institute for Catholic Social Thought del Center for Catholic Studies presso l’University of St. Thomas di Minneapolis (USA) e la Fondazione Ecophilos. La fase successiva fu la redazione di una sorta di vademecum destinato agli imprenditori, che potesse essere utilizzato anche per la formazione dei docenti e l’insegnamento in scuole e università.
Quanto all’accoglienza favorevole che ha ricevuto, risulta significativo il confronto con PCGP 2011 a opera di Samuel Gregg, dell’Acton Institute, il quale si rallegra che questo nuovo documento eviti le grandi teorie e le assurde posizioni di sinistra sostenute nel precedente per concentrarsi sui leader di impresa, basandosi sulla dottrina sociale della Chiesa e sulla legge naturale, seguendo la linea di Benedetto XVI e la sua idea di sviluppo umano integrale.
Il testo non tratta direttamente la crisi, che comunque è lo sfondo di molte sue riflessioni. Essa infatti appare già nella prima parte, dove si presentano le quattro sfide che affronta l’impresa oggi: la globalizzazione, le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la finanziarizzazione dell’economia e i cambiamenti culturali. Merita attenzione la riflessione sulla finanziarizzazione dell’economia. Senza negare i benefici derivanti dallo sviluppo del settore finanziario, se ne denunciano due conseguenze negative: la mercificazione, che dà un prezzo a ogni iniziativa umana, e l’interesse a breve termine (cfr n. 23). Entrambe hanno inciso non solo sulle prassi, ma anche sulla idea stessa di impresa.
Per questo motivo, il documento dedica abbastanza spazio al modo corretto di intendere l’impresa, partendo dalla critica alla concezione che la ritiene unicamente capitale finanziario. In termini positivi, identifica tre funzioni od obiettivi dell’impresa, il cui esame occupa gran parte del testo: la fornitura di beni e servizi, l’organizzazione di un lavoro equo e produttivo e la creazione e distribuzione equa della ricchezza
(cfr n. 72).
Sulla base di questi presupposti, il profitto non ha senso in quanto fine ultimo, ma nella misura in cui è vincolato alla funzione sociale che l’impresa svolge, come parte della sua responsabilità sociale (cfr n. 78).
Il profitto è un cattivo padrone
Se da un lato la redditività è un indicatore della salute dell’organizzazione, non rappresenta né l’unico né il più importante parametro con il quale giudicare l’impresa. [...] Il profitto è come il cibo. Ogni organismo deve cibarsi, tuttavia questo non è lo scopo principale della sua esistenza. Il profitto è un buon servo, ma un cattivo padrone (PCGP 2013, n. 53).
Queste riflessioni portano a considerare l’azienda come comunità di persone (nn. 57-59), non solo come capitale finanziario: il suo obiettivo non è solo massimizzare la ricchezza dell’azionista, né il valore delle azioni può essere l’unico criterio per misurare il valore del leader d’impresa (cfr n. 23): «Considerando un’attività imprenditoriale alla stregua di una comunità di persone, diventa chiaro che i legami che le uniscono non sono semplici contratti giuridici o interessi reciproci, bensì impegni verso beni reali, condivisi con gli altri al servizio del mondo. È pericoloso ed errato limitarsi a considerare un’impresa come una “società di partecipazioni”, dove l’interesse personale, i contratti, l’utilità e la massimizzazione del profitto finanziario ne esauriscono il significato» (n. 58).
I testi citati sono sufficienti per affermare che la concezione dell’impresa è un fattore cruciale di un’autentica etica imprenditoriale, perché questa non può sorgere da qualsiasi modalità di intendere l’organizzazione produttiva. Questa resta una delle principali ambiguità di quelle impostazioni di etica d’impresa come la
business ethics, che generano tanto entusiasmo in alcuni settori.
La concezione dell’impresa e della sua funzione produttiva ha chiaramente a che fare con la considerazione del lavoro umano, altro punto su cui il testo si focalizza. Qui si intuisce l’eco del concetto di «uomo-soggetto del lavoro» dell’enciclica
Laborem exercens: il lavoratore è sempre una persona umana, al cui servizio deve essere il lavoro. I lavoratori non sono mere “risorse umane” o “capitale umano”. Sono persone che attraverso il lavoro realizzano il proprio sviluppo. Dobbiamo assumere tutte le conseguenze che ne derivano: concretamente, bisogna riconoscere che lo sviluppo degli esseri umani implica il miglior uso possibile della loro intelligenza e libertà (cfr n. 47). Non basta, allora, che il lavoratore produca di più, né che sia retribuito meglio. Se non gli si offre l’opportunità di mettere in gioco intelligenza e libertà, ciò che è proprio dell’essere umano, non potremo parlare di un “lavoro buono”.
Un’applicazione significativa di questa impostazione è l’esigenza di tenere conto del principio di sussidiarietà (cfr nn. 47-59). A quanto ci consta, è la prima volta che questo principio si applica all’impresa, dal momento che la dottrina sociale della Chiesa lo aveva sempre riferito all’organizzazione della società e dello Stato. Il testo non lascia dubbi: «In altre parole, quanto più partecipativo è il luogo di lavoro, tanto maggiori saranno le possibilità di sviluppo di ogni lavoratore. I collaboratori devono aver voce su quanto attiene al proprio lavoro, soprattutto nelle attività quotidiane. Questo promuove iniziativa, innovazione, creatività e un senso di responsabilità condivisa» (n. 48).
Queste citazioni bastano a riconoscere che il documento sul leader d’impresa presenta anche elementi utili per una riflessione etica e cristiana sulla crisi, non tanto per le proposte concrete che offre per uscirne, quanto perché ci conduce a ragionare sulle sue radici più profonde.
RISORSE
PCGP 2013 = PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE (2013), La vocazione del leader d’impresa. Una riflessione, Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – UCID – Centro di Ateneo per la Dottrina sociale della Chiesa dell’Università Cattolica, Roma – Milano, in <
www.iustitiaetpax.va>.
PCGP 2011 = PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE (2011), Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale, in <
www.iustitiaetpax.va>.
CV = BENEDETTO XVI, enciclica Caritas in veritate, 2009.
LE = GIOVANNI PAOLO II, enciclica Laborem exercens, 1981.
PT = GIOVANNI XXIII, enciclica Pacem in terris, 1963.
CAMACHO LARAÑA I. (2015), «
La crisi economica alla luce della caritas in veritate», in Aggiornamenti Sociali, 06-07, 520-524.
FOGLIZZO P. (2012), «
Nuovi orizzonti per la finanza internazionale. Le proposte del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace», in Aggiornamenti Sociali, 2, 117-125.
Il presente contributo è un adattamento, a cura dell’A., di parte della materia trattata più diffusamente in CAMACHO LARAÑA I., «Propuestas históricas del Pensamiento Social Cristiano en tiempos de crisis económica», in
Revista de Fomento Social, 273-274 (gennaio-giugno 2014) 37-63. Traduzione dall’originale spagnolo di Simone Pagliara.