ArticoloEditoriali

Quale responsabilità di fronte alle larghe intese?

La paralisi nella politica italiana sopraggiunta all’indomani delle elezioni politiche, che ha portato al secondo mandato del presidente Giorgio Napolitano e alla nomina del Governo Letta, esorta tanto la maggioranza quanto l’opposizione ad andare oltre le prese di posizione e ad assumere la propria responsabilità di fronte ai problemi del Paese
Fascicolo: giugno-luglio 2013
Dopo il lungo periodo di incertezza seguito alle elezioni politiche dello scorso febbraio, la formazione del Governo guidato da Enrico Letta ha suscitato reazioni diverse: sollievo, sconforto, rabbia, ribellione. Secondo recenti sondaggi, quasi il 53% degli elettori lo apprezza, con un consenso che viene da una larga maggioranza di sostenitori di PD, PdL, Scelta Civica e, con qualche perplessità, Lega Nord. L’insoddisfazione appare invece ampia nella base di SEL e, soprattutto, del M5S. Ma gli stessi dati lasciano intravedere sentimenti molto più contrastanti: il 56% degli elettori ritiene che il nuovo Governo non durerà a lungo e oltre il 48% (il 51% tra gli elettori del PD) pensa che i partiti della maggioranza non riusciranno a governare insieme a causa delle differenze profonde che li separano.

L’approdo rappresentato dall’attuale Esecutivo ha un profilo ben diverso dagli slogan della campagna elettorale e dalle aspettative degli elettori: «Mai con Berlusconi» dicevano le forze di centrosinistra; «Mai con la sinistra» rispondevano quelle di destra; «Tutti a casa» urlava Beppe Grillo. Lo sconforto per il quadro politico è andato crescendo dopo le elezioni e ha raggiunto il culmine al momento dell’elezione del Presidente della Repubblica, e non certo a causa di Giorgio Napolitano; è stato quanto meno sconcertante assistere alle ovazioni dei parlamentari per le parole con cui il Presidente appena rieletto li sferzava, quasi riguardassero dei non meglio definiti “altri”. Né si può trovare conforto nella posizione di chi si trincera dietro lo sdegno e l’opposizione, altra maniera per non fare autocritica e non riconoscere di essere corresponsabili dello scempio, in quanto presenti nelle istituzioni.

Così c’è chi vede nel Governo Letta l’unica via di uscita per il Paese (Governo di servizio, o di larghe intese) e chi invece vi riconosce l’ultimo atto della decadenza del sistema italiano (definendolo un “inciucio”). In queste pagine ci proponiamo però l’esercizio di affrontare la situazione politica italiana uscendo dalla “modalità Facebook”, quella per cui di fronte a qualsiasi evento – dall’esibizione canora di un collega trovata in Internet alla formazione di un nuovo Governo – si reagisce in chiave binaria, sentenziando “mi piace” o “non mi piace”, “pollice in su” oppure “pollice in giù”, “Mi piace Letta”, “Non mi piace Grillo”, o viceversa. Questo è un simulacro della partecipazione: con l’impressione di dire la propria, si resta tuttavia spettatori esterni che assistono a uno spettacolo, come facevano gli imperatori e la plebe di Roma guardando i gladiatori nell’arena. Invece, quando è in gioco il bene comune, anche chi non è direttamente impegnato nella gestione della cosa pubblica non può chiamarsi fuori, ma ha la responsabilità di comprendere ciò che accade nel miglior modo possibile e di dare un contributo costruttivo.

Le larghe intese sul filo del rasoio
L’esito delle urne è stato inequivocabile: occorre innanzi tutto prendere atto che nessuno schieramento, complice anche la legge elettorale, ha ottenuto consensi che gli permettessero di avere la maggioranza in entrambe le Camere, come ha autorevolmente affermato il presidente Napolitano nel suo discorso d’insediamento: «Qualunque patto si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un Governo oggi in Italia».

Un Governo di larghe intese, che vede fianco a fianco i due schieramenti che si sono avversati negli ultimi 20 anni, è ben più che una sorpresa nel panorama della politica come della società italiana: una vera e propria “rivoluzione copernicana” con cui tutti, cittadini, media e gli stessi membri dell’Esecutivo, devono ancora imparare a fare i conti. Questa è una prima, grande fragilità, acuita dal fatto che veniamo da due decenni di contrapposizione radicale (quella tra berlusconiani e antiberlusconiani), di bipolarismo urlato, fondato sulla personalizzazione all’eccesso dello scontro politico e sulla sua mediatizzazione: una mentalità ormai inveterata da cui si fa comprensibilmente fatica a uscire. Per quanto sostenuto sostanzialmente dalle stesse forze che hanno votato la fiducia a Letta, il Governo Monti, con il suo profilo tecnico e senza il coinvolgimento diretto dei partiti, era altra cosa (cfr COSTA G., «Dov’è il nostro coraggio?», in Aggiornamenti Sociali, 1 [2013] 5-13).

Invece, fin dai bilanciamenti richiesti nella sua composizione (ad esempio il “colore” dei sottosegretari rispetto a quello dei ministri), il Governo Letta rimette al centro della scena la pratica della mediazione, che ha segnato, nel bene e purtroppo anche nel male, una lunga stagione della Prima Repubblica, e rispetto alla quale i guasti di quella stagione hanno provocato nella società forme di allergia anche acuta. Il Paese non ha certamente bisogno di un ritorno alle pratiche deteriori di mediazione: il rischio che le decisioni comincino a “slittare” da una riunione all’altra sino a scomparire sotto una fitta coltre di aggiustamenti e compromessi mal decifrabili è reale, così come quello che il Governo Letta diventi l’Esecutivo del negoziato perpetuo, dei continui rinvii e delle soluzioni parziali, in un infinito tiro alla fune in cui ciascuno continua ad affermare le proprie posizioni, a cercare di accrescere il proprio potere, a fare campagna elettorale anche a elezioni finite.

La mediazione però ha anche un altro significato, più nobile: quello in cui ciascuno, non potendo assolutizzare la propria posizione in forza di un successo elettorale inequivocabile, riscopre la propria parzialità costitutiva. È soprattutto questo ciò che la presente situazione politica ci forza a riapprendere, è l’opportunità per il Paese di riscoprire alcuni “fondamentali”. Il senso delle istituzioni della democrazia rappresentativa è permettere di trovare accordi, al di là delle fratture tra interessi contrastanti come tra differenti visioni del mondo che dividono le nostre società, sempre più plurali e parcellizzate. Come cittadini, ai nostri rappresentanti chiediamo innanzi tutto di trovare un accordo, anche fra posizioni per noi inconciliabili, e non per buonismo o per amore di quieto vivere, ma perché di questo accordo, magari minimo, c’è bisogno affinché siano prese le decisioni che riguardano il bene di tutti e di ognuno, che vanno cioè oltre le preferenze di ciascuna parte. In particolare, più la società si frammenta, più è necessario trovare luoghi non di conciliazione ma di negoziazione, che permettano alle differenze di continuare a esistere, ma di articolarsi senza portare alla paralisi. Altrimenti tanto varrebbe lasciar esplodere i conflitti che percorrono le viscere della società senza nemmeno farsi carico dei costi della politica.

La dinamica della rappresentanza su cui si fonda il nostro modello di democrazia prevede che i partiti da una parte intercettino e ascoltino i “sentimenti” della base, dall’altra li rappresentino nell’arena politica (il Parlamento), dove, nell’interazione con i rappresentanti di altre sensibilità, si possono scoprire parte di un tutto, coprotagonisti di una pièce che non è un monologo: anche se oggi questo discorso risulta quasi incomprensibile alla mentalità comune, è in questa dinamica che si radica la libertà degli eletti rispetto a una piattaforma programmatica che, in quanto parziale, è anche irrealizzabile nella propria integralità. Questo non legittima qualunque trasformismo, ma obbliga ciascuno a una fedeltà creativa che permette di approfondire in modo realistico le proprie posizioni, vincolandolo peraltro a restituire agli elettori le ragioni profonde del suo comportamento. Il che permette anche alla società di crescere nella direzione della coesione.

Se invece le singole parti – che per questo si chiamano “partiti”, a prescindere dalla presenza del termine nella denominazione – continuano ad assolutizzare le proprie pretese e chiudono gli occhi sul fatto di essere solo una “parte”, si precludono la possibilità di vedere quel bene comune che può essere raggiunto solo grazie alla mediazione. Continui sono i moniti del presidente Napolitano in questo senso, consapevole che il Governo Letta non si può nutrire solo di buone intenzioni e buon senso. Entrambi sono necessari, ma è anche indispensabile che la mediazione parlamentare su cui l’Esecutivo si regge sia sufficientemente solida da permettere di andare oltre l’ordinaria amministrazione: la sfida è infatti straordinaria, e non è certo solo quella di decidere se l’IMU può essere restituita o qual è il reddito massimo per ottenere l’esenzione.

Rovine o macerie
Non ci si può accontentare di pronunciare “mi piace” o “non mi piace” neppure di fronte a coloro che si oppongono al Governo Letta e sottolineano piuttosto la crisi irreversibile della politica quale la si è intesa fino a questo momento, a coloro che sono convinti che la via di uscita non possa che essere fare piazza pulita e vanno ripetendo che i partiti hanno occupato le istituzioni, che i costi della politica succhiano il nostro sangue, che la carica politica è intesa come professione e non come servizio disinteressato, che la giustizia non garantisce la certezza della pena, i poteri criminali dominano e la corruzione è la normalità, che quanti governano i processi finanziari godono di libertà indiscussa, che la stampa è spesso poco indipendente e trasparente e quindi poco credibile.

Si tratta di un’istanza che il “grillismo” ha rappresentato e continua a rappresentare nella scena politica e che costituisce una delle anime del M5S (ma non l’unica). Ne danno la misura alcune affermazioni di Beppe Grillo: «Li stiamo mandando a casa. Ci avviciniamo al momento della resa dei conti. E noi abbiamo tutto segnato» (tweet di commento all’annuncio delle dimissioni di Pierluigi Bersani da segretario del PD); oppure sul blog, parodiando Agatha Christie: «Dieci piccoli indiani uniti dall’inciucio sin dalla nascita stanno uscendo di scena [...] Otto dei dieci personaggi hanno terminato il loro lungo viaggio nella Seconda Repubblica nata dalle macerie degli anni di Sangue ’92/’94»; o ancora «I giovani chiedono il conto. Ne hanno diritto. Lo sfascio non è colpa loro. Vedono sfilare nei palchi delle autorità i responsabili del disastro, strafottenti, protetti dalle forze dell’ordine, da ragazzi in divisa che, anch’essi, non ne possono più. In mancanza di un patto tra generazioni non ci saranno sommersi e salvati, ma solo sommersi».

Seppure con forme, intensità, modalità assai diverse, istanze analoghe sono presenti anche all’interno del PD, ad esempio nel filone della “rottamazione” inaugurato dal sindaco di Firenze, Matteo Renzi, al momento delle primarie del suo partito: una rottamazione della classe dirigente del centrosinistra non legata a ragioni anagrafiche, ma politiche, in quanto ad essa è ascritta la responsabilità dei disastri politici degli ultimi vent’anni. Se Renzi sta andando Oltre la rottamazione – dal titolo del libro che ha annunziato di prossima pubblicazione – perché non c’è più niente da rottamare, altre correnti tra i militanti del partito stanno reagendo in maniera decisamente negativa, contestando l’accordo con il PdL e denunciando allo stesso tempo l’immobilismo esasperato dei loro dirigenti.

Resa dei conti, sfascio, rottamazione: tutto ciò è stato paragonato a un terremoto nel nostro panorama politico. Che fare di ciò che rimane dopo le scosse? L’antropologo francese Marc Augé (Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004) aiuta a distinguere le rovine dalle macerie: contrariamente all’uso comune, infatti, i due termini non sono sinonimi. Il termine “rovina” indica sia un evento o un processo distruttivo, sia il suo esito. In quanto processo, rimanda al cedimento o alla distruzione di una realtà strutturata, a una disintegrazione che può essere più o meno rapida, e avere cause esogene o endogene. Ma il termine indica anche il risultato della distruzione, gli esiti della disintegrazione, quello che resta: le rovine dei fori sono l’esito della rovina dell’Impero romano.
Per Marc Augé l’interesse per le rovine nasce dall’esigenza di fare i conti con quel che c’è stato, con il passato prima della rovina, nella speranza che, rileggendolo, si riesca a prendere possesso del proprio presente, facendo emergere tendenze reali di evoluzione e linee feconde di progettualità. Solo ripensando con cura il passato, assumendolo come proprio, accollandosene responsabilmente il peso – oltre che servendosi delle risorse che ancora offre –, si possono aprire nuovi orizzonti. Soltanto elaborando il lutto per le rovine si possono alimentare nuove speranze. Le rovine possono parlare a chi le considera non come un’eredità oppressiva e paralizzante, ma un fattore capace di conferire al presente quella ricchezza di senso e quello spessore di significato in grado di stimolare una consapevole e feconda proiezione nei tempi a venire. A queste condizioni, ciò che resta costituisce una rovina: altrimenti è maceria, materiale informe che non rivela nulla, fastidioso ingombro, inutilizzabili frantumi da asportare. Le macerie, a differenza delle rovine, non hanno nessun interesse. Occupano solo uno spazio, talvolta non solo fisico ma anche mentale, impedendo di passare oltre.

Occorre dunque essere prudenti nel mandare in frantumi l’intera architettura istituzionale e politica italiana, affrettandosi a ridurre tutto in macerie da sgomberare, in quanto non se ne può più ricavare nulla: come spesso capita, questa appare la soluzione più rapida, ma non è necessariamente anche la più utile ed efficace, se non altro perché, finché c’è memoria, il passato continua a ritornare e non è possibile eliminarlo. È indubitabile che la politica e la democrazia italiana siano rovinate, nel senso che hanno subito un lungo processo di rovina, ma siamo sicuri che tutto ciò che resta siano solo macerie? Ha davvero senso mandare in discarica una tradizione democratica che ha dato alla luce una delle Costituzioni più evolute del mondo, frutto tra l’altro di un processo di mediazione nel suo senso più alto, che ci ricorda che trovare accordi non è sempre sinonimo di “fare inciuci”? Anziché disfarcene, è un patrimonio di cui ricordare il senso, così da farne materiale pregiato per una nuova costruzione.

La prospettiva di Davide o la forza della debolezza
Si tratta di una prospettiva che indubbiamente non può che risuonare ostica e indigeribile alla “pancia” del Paese e dell’elettorato, ancor più di quella di un Governo di larghe intese, che è sempre possibile presentare come una medicina amara imposta dalla durezza delle circostanze. Il vaglio del passato, della Prima e della Seconda Repubblica, è un’operazione squisitamente politica, ma è anche l’unica da cui possono scaturire riforme istituzionali che diano davvero risposta ai problemi del Paese. Imbarcarsi in questa operazione richiede un atteggiamento che “profeticamente” – forse con una profondità ben maggiore della consapevolezza del momento – il presidente Letta ha enunciato chiudendo il discorso con cui ha chiesto la fiducia alla Camera: «In questi giorni ho pensato al personaggio biblico di Davide. Come lui, con lui, siamo nella valle di Elah, in attesa di affrontare Golia. […] Come Davide in quella valle, dobbiamo spogliarci della spada e dell’armatura che in questi anni abbiamo indossato e che ora ci appesantirebbero. […] di Davide ci servono il coraggio e la fiducia. Il coraggio di mettere da parte quella “prudenza politica” che spinge a evitare il confronto con le nostre paure, a rimanere nella valle e, se proprio decidiamo di muoverci, a farlo con indosso l’armatura. Il coraggio di affrontare la sfida liberandoci dell’armatura, forse lo abbiamo trovato. La fiducia è quella che chiediamo al Parlamento e agli italiani» (<www.governo.it>).

Nel racconto biblico, Golia è la figura simbolica che, già nelle dimensioni gigantesche, incarna la potenza del male che paralizza di terrore l’esercito e tutto il popolo di Israele (cfr BITTASI S., «Sconfiggere Golia», in Aggiornamenti Sociali, 5 [2013] 420-423). È del tutto evidente che da tempo l’Italia si sta avvitando in una spirale di paralisi, di cui lo stallo che ha costretto i partiti a supplicare il presidente Napolitano di accettare la rielezione è la rappresentazione icastica. La recessione, che segue lunghi anni di crescita debolissima, è il sintomo di un sistema economico bloccato, incapace di innovarsi a difesa della propria competitività; le infinite proposte di riforme mai realizzate – quella della legge elettorale è solo il caso più drammaticamente eclatante – segnalano una paralisi istituzionale; il bipolarismo sprofondato nella personalizzazione e andato in tilt con l’apparire sulla scena del M5S sono invece la spia della paralisi del sistema politico. La complessità della situazione è tale che qualunque via di uscita appare impraticabile.
Il racconto del duello tra Davide e Golia ci dice invece che è possibile superare questa situazione cambiando logica. Davide sconfigge Golia perché rinuncia al confronto sul piano della forza e, consapevole dei propri limiti, sceglie strumenti apparentemente deboli, ma adatti alla situazione. Dopo anni di crisi, le analisi delle cause si sprecano e collegano ciascuno dei blocchi che paralizzano il Paese alla paura di perdere sicurezze acquisite: dalle rendite di posizione di alcune categorie sociali ed economiche alle dinamiche consolidate di rapporto fra gli schieramenti politici. Questo significa uscire dalla logica di difesa delle sicurezze di parte, che ci ha condotti quasi a tagliare il ramo su cui tutti siamo seduti. Non è una bacchetta magica né la garanzia di riuscire a risolvere tutti i problemi – e certamente questo spaventa – ma è l’unico modo per aprire uno spazio in cui la speranza possa mettere radici. Sulla scia di Davide, è necessario del coraggio.

Essere coraggiosi significa in primo luogo “deporre” le armi, “spogliarsi” di un’armatura; fuor di metafora, vuol dire abbandonare alcune prese di posizione con cui fino a qualche settimana fa si esprimeva un’identità politica (ad esempio il rifiuto di allearsi con il nemico), rinunciare all’espressione della propria ideologia trovando il modo per non tradirla. È la fatica che sono obbligati a fare i partiti che sostengono il Governo Letta e che rende ragione delle incertezze in cui esso sembra agitarsi ogni giorno su ogni questione. Per certi versi è fisiologico: non è automatico rimettersi a saltare subito dopo aver deposto un’armatura indossata per anni; probabilmente serve del tempo per ritrovare l’elasticità di alcuni movimenti. È bene che tutti se ne ricordino, per scongiurare che eventuali incidenti di percorso abbiano esiti catastrofici. Al tempo stesso è di grande importanza che possano entrare in una simile dinamica anche i partiti di opposizione, che in una democrazia sana hanno un ruolo fondamentale di interazione con la maggioranza.
Di conseguenza, essere coraggiosi porta anche a rinunciare ad apparire forti a tutti i costi. Una incarnazione efficace dell’immagine di Golia sono i giganti del wrestling, ammassi di muscoli che digrignano i denti e affrontano minacciosamente gli avversari, ma i cui incontri si reggono su quello che possiamo definire l’archetipo dell’“inciucio”: l’ostentazione dei muscoli fa parte di uno spettacolo destinato a intrattenere il pubblico, i combattimenti sono eseguiti in modo da ridurre al minimo le possibilità di farsi male e gli esiti degli incontri sono predeterminati. Riproporre questo schema attraverso pretese e ultimatum inderogabili al solo scopo di mostrare quanto si è forti, nel Governo o nell’opposizione, sarebbe un errore fatale per tutto il Paese. Si tocca qui l’esigenza, per i partiti e per tutto il popolo italiano, di accettare che la politica non sia solo una prova di forza per conquistare o mantenere il potere, ma anche un paziente lavoro per la costruzione di politiche pubbliche a servizio dei cittadini.

Occorre infine ancora un altro tipo di coraggio, che potremmo chiamare quello della verità, dell’onestà: nell’episodio di Golia e in altri racconti successivi, ciò che caratterizza Davide è la capacità di mostrarsi al popolo così com’è, nei successi come nei rovesci e negli errori. La crisi è tutt’altro che finita e l’emergenza investe il lavoro e il tenore di vita di milioni di famiglie. Nessuno, nemmeno il Governo delle larghe intese, potrà fare miracoli, ma soprattutto nessuno dovrà dire che è possibile farli. Il primo compito di questo Governo, anche nelle delicate questioni economiche, deve essere restituire consapevolezza agli italiani: il tempo delle larghe intese sia il tempo delle intese magari limitate, puntuali, ad tempus, ma trasparenti, oneste nei confronti dei cittadini. Non un discorso che renda “simpatici” o consenta balzi di popolarità a breve termine, ma un passaggio obbligato per tornare a interrogarci onestamente, a partire dai limiti della nostra situazione, su che cosa vogliamo per noi come società e non ciascuno per sé e il proprio tornaconto, per tornare a confrontarci su quel bene che è costitutivamente nostro.
Ultimo numero
Leggi anche...

Rivista

Visualizza

Annate

Sito

Visualizza