Quale responsabilità di fronte alle larghe intese?
La paralisi nella politica italiana sopraggiunta all’indomani delle elezioni politiche, che ha portato al secondo mandato del presidente Giorgio Napolitano e alla nomina del Governo Letta, esorta tanto la maggioranza quanto l’opposizione ad andare oltre le prese di posizione e ad assumere la propria responsabilità di fronte ai problemi del Paese
Dopo il lungo periodo di incertezza seguito alle elezioni politiche dello scorso febbraio, la formazione del
Governo guidato da Enrico Letta ha suscitato reazioni diverse: sollievo, sconforto, rabbia, ribellione.
Secondo recenti sondaggi, quasi il 53% degli elettori lo apprezza, con un consenso che viene da una larga
maggioranza di sostenitori di PD, PdL, Scelta Civica e, con qualche perplessità, Lega Nord.
L’insoddisfazione appare invece ampia nella base di SEL e, soprattutto, del M5S. Ma gli stessi dati lasciano
intravedere sentimenti molto più contrastanti: il 56% degli elettori ritiene che il nuovo Governo non durerà a
lungo e oltre il 48% (il 51% tra gli elettori del PD) pensa che i partiti della maggioranza non riusciranno a
governare insieme a causa delle differenze profonde che li separano.
L’approdo rappresentato dall’attuale Esecutivo ha un profilo ben diverso dagli slogan della campagna
elettorale e dalle aspettative degli elettori: «Mai con Berlusconi» dicevano le forze di centrosinistra; «Mai
con la sinistra» rispondevano quelle di destra; «Tutti a casa» urlava Beppe Grillo. Lo sconforto per il
quadro politico è andato crescendo dopo le elezioni e ha raggiunto il culmine al momento dell’elezione
del Presidente della Repubblica, e non certo a causa di Giorgio Napolitano; è stato quanto meno
sconcertante assistere alle ovazioni dei parlamentari per le parole con cui il Presidente appena rieletto li
sferzava, quasi riguardassero dei non meglio definiti “altri”. Né si può trovare conforto nella posizione di chi
si trincera dietro lo sdegno e l’opposizione, altra maniera per non fare autocritica e non riconoscere di essere
corresponsabili dello scempio, in quanto presenti nelle istituzioni.
Così c’è chi vede nel Governo Letta l’unica via di uscita per il Paese (Governo di servizio, o di larghe
intese) e chi invece vi riconosce l’ultimo atto della decadenza del sistema italiano (definendolo un
“inciucio”). In queste pagine ci proponiamo però l’esercizio di affrontare la situazione politica italiana
uscendo dalla “modalità Facebook”, quella per cui di fronte a qualsiasi evento – dall’esibizione canora di
un collega trovata in Internet alla formazione di un nuovo Governo – si reagisce in chiave binaria,
sentenziando “mi piace” o “non mi piace”, “pollice in su” oppure “pollice in giù”, “Mi piace Letta”, “Non
mi piace Grillo”, o viceversa. Questo è un simulacro della partecipazione: con l’impressione di dire la
propria, si resta tuttavia spettatori esterni che assistono a uno spettacolo, come facevano gli imperatori e la
plebe di Roma guardando i gladiatori nell’arena. Invece, quando è in gioco il bene comune, anche chi non è
direttamente impegnato nella gestione della cosa pubblica non può chiamarsi fuori, ma ha la responsabilità
di comprendere ciò che accade nel miglior modo possibile e di dare un contributo costruttivo.
Le larghe intese sul filo del rasoio
L’esito delle urne è stato inequivocabile: occorre innanzi tutto prendere atto che nessuno schieramento,
complice anche la legge elettorale, ha ottenuto consensi che gli permettessero di avere la maggioranza in
entrambe le Camere, come ha autorevolmente affermato il presidente Napolitano nel suo discorso
d’insediamento: «Qualunque patto si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con
i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse
per far nascere e per far vivere un Governo oggi in Italia».
Un Governo di larghe intese, che vede fianco a fianco i due schieramenti che si sono avversati negli
ultimi 20 anni, è ben più che una sorpresa nel panorama della politica come della società italiana: una vera e
propria “rivoluzione copernicana” con cui tutti, cittadini, media e gli stessi membri dell’Esecutivo, devono
ancora imparare a fare i conti. Questa è una prima, grande fragilità, acuita dal fatto che veniamo da due
decenni di contrapposizione radicale (quella tra berlusconiani e antiberlusconiani), di bipolarismo urlato,
fondato sulla personalizzazione all’eccesso dello scontro politico e sulla sua mediatizzazione: una mentalità
ormai inveterata da cui si fa comprensibilmente fatica a uscire. Per quanto sostenuto sostanzialmente dalle
stesse forze che hanno votato la fiducia a Letta, il Governo Monti, con il suo profilo tecnico e senza il
coinvolgimento diretto dei partiti, era altra cosa (cfr COSTA G., «Dov’è il nostro coraggio?», in
Aggiornamenti Sociali, 1 [2013] 5-13).
Invece, fin dai bilanciamenti richiesti nella sua composizione (ad esempio il “colore” dei sottosegretari
rispetto a quello dei ministri), il Governo Letta rimette al centro della scena la pratica della mediazione,
che ha segnato, nel bene e purtroppo anche nel male, una lunga stagione della Prima Repubblica, e rispetto
alla quale i guasti di quella stagione hanno provocato nella società forme di allergia anche acuta. Il Paese
non ha certamente bisogno di un ritorno alle pratiche deteriori di mediazione: il rischio che le decisioni
comincino a “slittare” da una riunione all’altra sino a scomparire sotto una fitta coltre di aggiustamenti e
compromessi mal decifrabili è reale, così come quello che il Governo Letta diventi l’Esecutivo del negoziato
perpetuo, dei continui rinvii e delle soluzioni parziali, in un infinito tiro alla fune in cui ciascuno continua ad
affermare le proprie posizioni, a cercare di accrescere il proprio potere, a fare campagna elettorale anche a
elezioni finite.
La mediazione però ha anche un altro significato, più nobile: quello in cui ciascuno, non potendo
assolutizzare la propria posizione in forza di un successo elettorale inequivocabile, riscopre la propria
parzialità costitutiva. È soprattutto questo ciò che la presente situazione politica ci forza a riapprendere, è
l’opportunità per il Paese di riscoprire alcuni “fondamentali”. Il senso delle istituzioni della democrazia
rappresentativa è permettere di trovare accordi, al di là delle fratture tra interessi contrastanti come
tra differenti visioni del mondo che dividono le nostre società, sempre più plurali e parcellizzate. Come
cittadini, ai nostri rappresentanti chiediamo innanzi tutto di trovare un accordo, anche fra posizioni per noi
inconciliabili, e non per buonismo o per amore di quieto vivere, ma perché di questo accordo, magari
minimo, c’è bisogno affinché siano prese le decisioni che riguardano il bene di tutti e di ognuno, che vanno
cioè oltre le preferenze di ciascuna parte. In particolare, più la società si frammenta, più è necessario trovare
luoghi non di conciliazione ma di negoziazione, che permettano alle differenze di continuare a esistere, ma
di articolarsi senza portare alla paralisi. Altrimenti tanto varrebbe lasciar esplodere i conflitti che percorrono
le viscere della società senza nemmeno farsi carico dei costi della politica.
La dinamica della rappresentanza su cui si fonda il nostro modello di democrazia prevede che i partiti da
una parte intercettino e ascoltino i “sentimenti” della base, dall’altra li rappresentino nell’arena politica (il
Parlamento), dove, nell’interazione con i rappresentanti di altre sensibilità, si possono scoprire parte di un
tutto, coprotagonisti di una pièce che non è un monologo: anche se oggi questo discorso risulta quasi
incomprensibile alla mentalità comune, è in questa dinamica che si radica la libertà degli eletti rispetto a una
piattaforma programmatica che, in quanto parziale, è anche irrealizzabile nella propria integralità. Questo
non legittima qualunque trasformismo, ma obbliga ciascuno a una fedeltà creativa che permette di
approfondire in modo realistico le proprie posizioni, vincolandolo peraltro a restituire agli elettori le ragioni
profonde del suo comportamento. Il che permette anche alla società di crescere nella direzione della
coesione.
Se invece le singole parti – che per questo si chiamano “partiti”, a prescindere dalla presenza del termine
nella denominazione – continuano ad assolutizzare le proprie pretese e chiudono gli occhi sul fatto di essere
solo una “parte”, si precludono la possibilità di vedere quel bene comune che può essere raggiunto solo
grazie alla mediazione. Continui sono i moniti del presidente Napolitano in questo senso, consapevole che
il Governo Letta non si può nutrire solo di buone intenzioni e buon senso. Entrambi sono necessari, ma è
anche indispensabile che la mediazione parlamentare su cui l’Esecutivo si regge sia sufficientemente solida
da permettere di andare oltre l’ordinaria amministrazione: la sfida è infatti straordinaria, e non è certo solo
quella di decidere se l’IMU può essere restituita o qual è il reddito massimo per ottenere l’esenzione.
Rovine o macerie
Non ci si può accontentare di pronunciare “mi piace” o “non mi piace” neppure di fronte a coloro che si
oppongono al Governo Letta e sottolineano piuttosto la crisi irreversibile della politica quale la si è intesa
fino a questo momento, a coloro che sono convinti che la via di uscita non possa che essere fare piazza
pulita e vanno ripetendo che i partiti hanno occupato le istituzioni, che i costi della politica succhiano il
nostro sangue, che la carica politica è intesa come professione e non come servizio disinteressato, che la
giustizia non garantisce la certezza della pena, i poteri criminali dominano e la corruzione è la normalità, che
quanti governano i processi finanziari godono di libertà indiscussa, che la stampa è spesso poco
indipendente e trasparente e quindi poco credibile.
Si tratta di un’istanza che il “grillismo” ha rappresentato e continua a rappresentare nella scena politica e
che costituisce una delle anime del M5S (ma non l’unica). Ne danno la misura alcune affermazioni di
Beppe Grillo: «Li stiamo mandando a casa. Ci avviciniamo al momento della resa dei conti. E noi abbiamo
tutto segnato» (tweet di commento all’annuncio delle dimissioni di Pierluigi Bersani da segretario del PD);
oppure sul blog, parodiando Agatha Christie: «Dieci piccoli indiani uniti dall’inciucio sin dalla nascita
stanno uscendo di scena [...] Otto dei dieci personaggi hanno terminato il loro lungo viaggio nella Seconda
Repubblica nata dalle macerie degli anni di Sangue ’92/’94»; o ancora «I giovani chiedono il conto. Ne
hanno diritto. Lo sfascio non è colpa loro. Vedono sfilare nei palchi delle autorità i responsabili del disastro,
strafottenti, protetti dalle forze dell’ordine, da ragazzi in divisa che, anch’essi, non ne possono più. In
mancanza di un patto tra generazioni non ci saranno sommersi e salvati, ma solo sommersi».
Seppure con forme, intensità, modalità assai diverse, istanze analoghe sono presenti anche all’interno
del PD, ad esempio nel filone della “rottamazione” inaugurato dal sindaco di Firenze, Matteo Renzi, al
momento delle primarie del suo partito: una rottamazione della classe dirigente del centrosinistra non legata
a ragioni anagrafiche, ma politiche, in quanto ad essa è ascritta la responsabilità dei disastri politici degli
ultimi vent’anni. Se Renzi sta andando Oltre la rottamazione – dal titolo del libro che ha annunziato di
prossima pubblicazione – perché non c’è più niente da rottamare, altre correnti tra i militanti del partito
stanno reagendo in maniera decisamente negativa, contestando l’accordo con il PdL e denunciando allo
stesso tempo l’immobilismo esasperato dei loro dirigenti.
Resa dei conti, sfascio, rottamazione: tutto ciò è stato paragonato a un terremoto nel nostro panorama
politico. Che fare di ciò che rimane dopo le scosse? L’antropologo francese Marc Augé (Rovine e macerie.
Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004) aiuta a distinguere le rovine dalle macerie:
contrariamente all’uso comune, infatti, i due termini non sono sinonimi. Il termine “rovina” indica sia un
evento o un processo distruttivo, sia il suo esito. In quanto processo, rimanda al cedimento o alla distruzione
di una realtà strutturata, a una disintegrazione che può essere più o meno rapida, e avere cause esogene o
endogene. Ma il termine indica anche il risultato della distruzione, gli esiti della disintegrazione, quello che
resta: le rovine dei fori sono l’esito della rovina dell’Impero romano.
Per Marc Augé l’interesse per le rovine nasce dall’esigenza di fare i conti con quel che c’è stato, con il
passato prima della rovina, nella speranza che, rileggendolo, si riesca a prendere possesso del proprio
presente, facendo emergere tendenze reali di evoluzione e linee feconde di progettualità. Solo ripensando
con cura il passato, assumendolo come proprio, accollandosene responsabilmente il peso – oltre che
servendosi delle risorse che ancora offre –, si possono aprire nuovi orizzonti. Soltanto elaborando il
lutto per le rovine si possono alimentare nuove speranze. Le rovine possono parlare a chi le considera non
come un’eredità oppressiva e paralizzante, ma un fattore capace di conferire al presente quella ricchezza di
senso e quello spessore di significato in grado di stimolare una consapevole e feconda proiezione nei tempi a
venire. A queste condizioni, ciò che resta costituisce una rovina: altrimenti è maceria, materiale informe che
non rivela nulla, fastidioso ingombro, inutilizzabili frantumi da asportare. Le macerie, a differenza delle
rovine, non hanno nessun interesse. Occupano solo uno spazio, talvolta non solo fisico ma anche mentale,
impedendo di passare oltre.
Occorre dunque essere prudenti nel mandare in frantumi l’intera architettura istituzionale e politica
italiana, affrettandosi a ridurre tutto in macerie da sgomberare, in quanto non se ne può più ricavare nulla:
come spesso capita, questa appare la soluzione più rapida, ma non è necessariamente anche la più utile ed
efficace, se non altro perché, finché c’è memoria, il passato continua a ritornare e non è possibile eliminarlo.
È indubitabile che la politica e la democrazia italiana siano rovinate, nel senso che hanno subito un
lungo processo di rovina, ma siamo sicuri che tutto ciò che resta siano solo macerie? Ha davvero senso
mandare in discarica una tradizione democratica che ha dato alla luce una delle Costituzioni più evolute del
mondo, frutto tra l’altro di un processo di mediazione nel suo senso più alto, che ci ricorda che trovare
accordi non è sempre sinonimo di “fare inciuci”? Anziché disfarcene, è un patrimonio di cui ricordare il
senso, così da farne materiale pregiato per una nuova costruzione.
La prospettiva di Davide o la forza della debolezza
Si tratta di una prospettiva che indubbiamente non può che risuonare ostica e indigeribile alla “pancia”
del Paese e dell’elettorato, ancor più di quella di un Governo di larghe intese, che è sempre possibile
presentare come una medicina amara imposta dalla durezza delle circostanze. Il vaglio del passato, della
Prima e della Seconda Repubblica, è un’operazione squisitamente politica, ma è anche l’unica da cui
possono scaturire riforme istituzionali che diano davvero risposta ai problemi del Paese. Imbarcarsi in
questa operazione richiede un atteggiamento che “profeticamente” – forse con una profondità ben maggiore
della consapevolezza del momento – il presidente Letta ha enunciato chiudendo il discorso con cui ha
chiesto la fiducia alla Camera: «In questi giorni ho pensato al personaggio biblico di Davide. Come lui, con
lui, siamo nella valle di Elah, in attesa di affrontare Golia. […] Come Davide in quella valle, dobbiamo
spogliarci della spada e dell’armatura che in questi anni abbiamo indossato e che ora ci appesantirebbero.
[…] di Davide ci servono il coraggio e la fiducia. Il coraggio di mettere da parte quella “prudenza politica”
che spinge a evitare il confronto con le nostre paure, a rimanere nella valle e, se proprio decidiamo di
muoverci, a farlo con indosso l’armatura. Il coraggio di affrontare la sfida liberandoci dell’armatura, forse lo
abbiamo trovato. La fiducia è quella che chiediamo al Parlamento e agli italiani» (<www.governo.it>).
Nel racconto biblico, Golia è la figura simbolica che, già nelle dimensioni gigantesche, incarna la potenza
del male che paralizza di terrore l’esercito e tutto il popolo di Israele (cfr BITTASI S., «Sconfiggere Golia»,
in Aggiornamenti Sociali, 5 [2013] 420-423). È del tutto evidente che da tempo l’Italia si sta avvitando
in una spirale di paralisi, di cui lo stallo che ha costretto i partiti a supplicare il presidente Napolitano di
accettare la rielezione è la rappresentazione icastica. La recessione, che segue lunghi anni di crescita
debolissima, è il sintomo di un sistema economico bloccato, incapace di innovarsi a difesa della propria
competitività; le infinite proposte di riforme mai realizzate – quella della legge elettorale è solo il caso più
drammaticamente eclatante – segnalano una paralisi istituzionale; il bipolarismo sprofondato nella
personalizzazione e andato in tilt con l’apparire sulla scena del M5S sono invece la spia della paralisi del
sistema politico. La complessità della situazione è tale che qualunque via di uscita appare impraticabile.
Il racconto del duello tra Davide e Golia ci dice invece che è possibile superare questa situazione
cambiando logica. Davide sconfigge Golia perché rinuncia al confronto sul piano della forza e, consapevole
dei propri limiti, sceglie strumenti apparentemente deboli, ma adatti alla situazione. Dopo anni di crisi, le
analisi delle cause si sprecano e collegano ciascuno dei blocchi che paralizzano il Paese alla paura di perdere
sicurezze acquisite: dalle rendite di posizione di alcune categorie sociali ed economiche alle dinamiche
consolidate di rapporto fra gli schieramenti politici. Questo significa uscire dalla logica di difesa delle
sicurezze di parte, che ci ha condotti quasi a tagliare il ramo su cui tutti siamo seduti. Non è una bacchetta
magica né la garanzia di riuscire a risolvere tutti i problemi – e certamente questo spaventa – ma è l’unico
modo per aprire uno spazio in cui la speranza possa mettere radici. Sulla scia di Davide, è necessario del
coraggio.
Essere coraggiosi significa in primo luogo “deporre” le armi, “spogliarsi” di un’armatura; fuor di
metafora, vuol dire abbandonare alcune prese di posizione con cui fino a qualche settimana fa si
esprimeva un’identità politica (ad esempio il rifiuto di allearsi con il nemico), rinunciare all’espressione
della propria ideologia trovando il modo per non tradirla. È la fatica che sono obbligati a fare i partiti che
sostengono il Governo Letta e che rende ragione delle incertezze in cui esso sembra agitarsi ogni giorno su
ogni questione. Per certi versi è fisiologico: non è automatico rimettersi a saltare subito dopo aver deposto
un’armatura indossata per anni; probabilmente serve del tempo per ritrovare l’elasticità di alcuni movimenti.
È bene che tutti se ne ricordino, per scongiurare che eventuali incidenti di percorso abbiano esiti catastrofici.
Al tempo stesso è di grande importanza che possano entrare in una simile dinamica anche i partiti di
opposizione, che in una democrazia sana hanno un ruolo fondamentale di interazione con la maggioranza.
Di conseguenza, essere coraggiosi porta anche a rinunciare ad apparire forti a tutti i costi. Una
incarnazione efficace dell’immagine di Golia sono i giganti del wrestling, ammassi di muscoli che
digrignano i denti e affrontano minacciosamente gli avversari, ma i cui incontri si reggono su quello che
possiamo definire l’archetipo dell’“inciucio”: l’ostentazione dei muscoli fa parte di uno spettacolo destinato
a intrattenere il pubblico, i combattimenti sono eseguiti in modo da ridurre al minimo le possibilità di farsi
male e gli esiti degli incontri sono predeterminati. Riproporre questo schema attraverso pretese e ultimatum
inderogabili al solo scopo di mostrare quanto si è forti, nel Governo o nell’opposizione, sarebbe un errore
fatale per tutto il Paese. Si tocca qui l’esigenza, per i partiti e per tutto il popolo italiano, di accettare che la
politica non sia solo una prova di forza per conquistare o mantenere il potere, ma anche un paziente
lavoro per la costruzione di politiche pubbliche a servizio dei cittadini.
Occorre infine ancora un altro tipo di coraggio, che potremmo chiamare quello della verità, dell’onestà:
nell’episodio di Golia e in altri racconti successivi, ciò che caratterizza Davide è la capacità di mostrarsi al
popolo così com’è, nei successi come nei rovesci e negli errori. La crisi è tutt’altro che finita e l’emergenza
investe il lavoro e il tenore di vita di milioni di famiglie. Nessuno, nemmeno il Governo delle larghe
intese, potrà fare miracoli, ma soprattutto nessuno dovrà dire che è possibile farli. Il primo compito di
questo Governo, anche nelle delicate questioni economiche, deve essere restituire consapevolezza agli
italiani: il tempo delle larghe intese sia il tempo delle intese magari limitate, puntuali, ad tempus, ma
trasparenti, oneste nei confronti dei cittadini. Non un discorso che renda “simpatici” o consenta balzi di
popolarità a breve termine, ma un passaggio obbligato per tornare a interrogarci onestamente, a partire dai
limiti della nostra situazione, su che cosa vogliamo per noi come società e non ciascuno per sé e il proprio
tornaconto, per tornare a confrontarci su quel bene che è costitutivamente nostro.
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