ArticoloEditoriali

Periferie alla ribalta

Fascicolo: gennaio 2015
Nelle ultime settimane le periferie italiane sono tornate alla ribalta in seguito ad alcuni episodi di cronaca che lasciano intravedere una situazione potenzialmente esplosiva: la crisi morde da troppo tempo e con maggiore forza coloro che già vivono ai margini e nella precarietà, sempre meno protetti da un sistema di welfare dotato di fondi in continua diminuzione e di risorse umane e infrastrutturali sempre più fragili e in affanno di fronte a bisogni crescenti. Il risultato sono scoppi di violenza, che vedono opporsi gruppi di emarginati in una triste guerra tra i poveri che assume sempre più spesso una base etnica o razziale, o che vede sfogare contro le forze dell’ordine la rabbia per l’abbandono da parte delle “istituzioni”.

Passiamo in rassegna alcuni di questi episodi, che si sono verificati in tutto il Paese. A Tor Sapienza, periferia est di Roma, a fine novembre le proteste dei residenti per il degrado del quartiere si coagulano contro un centro di prima accoglienza per immigrati e rifugiati, anche minori, che le autorità sono costrette a trasferire dopo una notte di scontri con la polizia. Negli stessi giorni a Napoli il presidente dell’Ottava Municipalità minaccia lo sciopero fiscale contro il pagamento della tassa rifiuti fino a che le autorità non interverranno per «liberare e bonificare l’area del campo abusivo rom di Scampia», risolvendo così «i gravissimi pericoli per la pubblica incolumità e la salute derivanti da anni di totale immobilismo». Il 12 novembre in Borgo Vittoria, popolosa semiperiferia di Torino, negozianti e clienti protestano e aggrediscono i vigili che stanno multando auto parcheggiate in doppia fila: «Quando vi chiamiamo per le rapine non venite, siete capaci di fare solo le multe». I vigili finiscono in ospedale. A Milano, nelle stesse date, in più occasioni gli sgomberi di appartamenti e stabili occupati degenerano in guerriglia urbana, che coinvolge forze dell’ordine e militanti dei centri sociali, mettendo in scena il conflitto tra assegnatari legittimi e occupanti di case popolari, spesso accomunati da situazioni di disagio sociale sostanzialmente identiche.

A questo quadro si aggiunge il malaffare, dall’alto come dal basso. Le occupazioni, non solo a Milano, sono sempre più spesso gestite da gang criminali a cui le persone versano somme consistenti per entrare negli appartamenti. A Roma l’inchiesta Mafia Capitale fa emergere una serie di pratiche di corruzione che interessano proprio la gestione delle periferie e delle loro emergenze. Il clamore mediatico sottolinea come la corruzione, in quanto furto di risorse pubbliche, ci renda tutti più poveri: questo vale due volte per gli abitanti delle periferie, derubati non solo come cittadini e contribuenti ma anche come destinatari di servizi erogati in modo funzionale alle tasche dei corrotti e non ai bisogni dei fruitori.

Non va dimenticato, infine, il peso della vischiosità e della lentezza che affliggono la gestione di beni e risorse pubbliche, come nel caso dell’assegnazione di case popolari che rimangono troppo a lungo vuote, o dell’incapacità di spendere i fondi.

Nessuna, o meglio tante sorprese

Chi segue più da vicino le vicende delle periferie italiane e dei loro abitanti ha ben poco da stupirsi di fronte a queste notizie. Le voci di chi vive da anni in queste realtà ci aiutano però a situarle in una prospettiva storica e in un contesto più articolato, socialmente vivace e umanamente ricco. Dalla ricchissima varietà di possibili esempi ne presentiamo due particolarmente emblematici.

L’Associazione “21 luglio”, organizzazione non profit impegnata nella promozione dei diritti delle comunità rom e sinte in Italia, nel mese di giugno aveva pubblicato il rapporto Campi nomadi s.p.a., che analizza i costi sostenuti a Roma nel 2013 per la gestione del sistema dei campi nomadi e l’indotto che esso genera: oltre 24 milioni di euro complessivamente e oltre 300mila euro per ciascuna delle famiglie insediate nel “villaggio della solidarietà” di Castel Romano, somme ingenti che in realtà producono un risultato opposto ai dichiarati intenti dell’amministrazione comunale di attuare la Strategia nazionale di inclusione dei rom: esclusione sociale, discriminazione e violazioni dei diritti. Si tratta dunque di una politica di cui il Comune – e quindi la cittadinanza – sopporta il costo esorbitante, mentre le famiglie e le comunità rom pagano un prezzo altissimo. Questo risultato non desta sorpresa quando si apprende che solo lo 0,4% delle risorse sono destinate a progetti di inclusione sociale.

Un profondo conoscitore della periferia, il sociologo gesuita Domenico Pizzuti, che vive da molti anni a Scampia (Napoli), osserva come sia giunto il momento di aggiornare l’immagine del quartiere napoletano superando stereotipi massmediatici di degrado e criminalità che non rendono ragione di una realtà stratificata e complessa. «Dalla mia finestra vedo il campo rom, da cui spesso si alzano i fumi dei roghi tossici; scorgo i camion della monnezza uscire dall’isola ecologica; incontro al mattino le donne (anche rom) con colorati zainetti in spalla mentre portano i figli a scuola, pensionati che si affollano i primi del mese davanti alle Poste per ritirare la pensione». Un quartiere che, famoso per il degrado urbanistico e sociale e per il radicamento di gruppi della criminalità organizzata, si è in realtà stabilizzato in una condizione di «ordinaria emarginazione urbana». Un quartiere che propone un microcosmo sociale ampiamente stratificato, ma che «non è fuori dal mondo. Non è fuori dalla globalizzazione, dalle tendenze del consumo, dalle suggestioni dei media. Questa periferia è pienamente dentro ai grandi processi comunicativi, consumistici, culturali e politici» (cfr PIZZUTI D., Ri-partire dalle periferie. Un ottantenne e un ventenne in dialogo tra politica, Chiesa e vita, a cura di D’ALESSANDRO G., Linkomunicazione, Napoli 2014).

La periferia dal paternalismo allo stigma mediatico

Basta dunque poco per rendersi conto che dietro agli episodi di cronaca e all’allarme che generano c’è uno spessore storico che vale la pena esplorare per comprendere la situazione e mettere a fuoco soluzioni innovative, giacché quelle consolidate nel tempo mostrano ormai la corda.

Dal punto di vista strettamente della storia dell’urbanistica, la “periferia” è, almeno nel nostro Paese, una costruzione del passato, legata alla vicenda della modernizzazione industriale, con la conseguente urbanizzazione di massa: è il caso dello ZEN di Palermo e delle Vele di Scampia, due esempi tra i molti possibili. Nella versione “ideale” di architetti anche rinomati, questa periferia era intesa come una metafora virtuosa del progresso: un luogo ideale di abitazione per una vita “moderna” e autenticamente “umana e relazionale”, in cui le classi più povere o gli immigrati potevano cominciare il loro cammino di integrazione nel tessuto sociale cittadino; nella versione più critica, gli spazi pianificati delle periferie sono organizzati su base paternalistica, secondo concetti innestati dall’alto e non vissuti dal resto della città, con il tentativo più o meno dichiarato di “formattare” l’alterità degli abitanti della periferia in modo da renderla tollerabile o, perlomeno, da contenerla (come nel caso del muro di via Anelli a Padova).

Lo scarso successo sociale di quei tentativi, la riduzione delle risorse pubbliche e la conseguente fine dei programmi di edilizia popolare a larga scala, l’impossibilità di controllare modalità e crescita degli insediamenti, il passaggio alla società post-industriale sono tutti elementi che hanno segnato la fine di qualsiasi interpretazione progressiva delle periferie.

Dal punto di vista urbanistico la periferia è esplosa in mille realtà che formano una mappa complessa e contraddittoria, fatta di vecchi quartieri popolari, di porzioni degradate dei centri storici (basta pensare a Genova, Napoli e Palermo), di zone dimenticate dalla pianificazione e di centri suburbani meta dei flussi di immigrazione. Periferico è divenuto qualunque luogo non ritenuto interessante dal punto di vista dei processi economici, o addirittura deputato a raccoglierne scarti: dai rifiuti tossici delle discariche abusive (problema che riguarda molte Regioni) alle fasce di popolazione espulse – scartate, direbbe papa Francesco – dai circuiti produttivi e sempre più abbandonate a se stesse: anziani, giovani poco qualificati, stranieri.

In questa declinazione, anche come risultato del lavoro simbolico operato dai mass media e fatto proprio persino dai suoi stessi abitanti, la periferia diventa sinonimo di emarginazione ed esclusione. Da concetto spaziale o territoriale, la periferia diventa da un lato esistenziale (legata, quindi, non alla localizzazione, ma a una modalità di vita) e dall’altro culturale, fissata nell’immaginario (mentale e mediatico) di disagio e violenza: in una parola, degrado. È questo lo sfondo con cui, dal centro, si capisce e si giudica nelle periferie anche l’attuale degradazione del conflitto in violenza e la fissazione di frontiere non più semplicemente spaziali, ma simboliche, che hanno alla base l’idea di cultura e le appartenenze etniche o religiose.

Il modello partecipativo e i suoi rischi

Come questo breve excursus ci ha dato modo di vedere, un approccio dall’esterno e dall’alto rende di fatto inevitabile cadere in generalizzazioni, astrazioni e stereotipi. Dalla convinzione che gli abitanti della periferia sono incapaci o delinquenti possono derivare azioni tanto politiche quanto culturali o religiose, per proporre salvezza o per reprimere con maggior forza. La visione stigmatizzante finisce spesso per sfociare in un ulteriore atteggiamento rischioso quale l’intervento d’urgenza, che tuttavia offre solo soluzioni palliative e superficiali, quando non si limita a “delocalizzare” il problema (è il caso del centro di prima accoglienza di Tor Sapienza, ma anche di una certa gestione dei campi rom). In realtà, l’intervento d’urgenza sembra caratterizzarsi piuttosto come strategia di consolidamento e manutenzione del consenso politico, in particolare in una società in cui è preponderante una comunicazione pubblica occasionale, centrata sugli annunci.

Per sfuggire a questi rischi e aumentare l’efficacia degli interventi, il nuovo “mantra” è che il buon esito delle politiche dipende dal grado di apertura dei processi decisionali, o, in altre parole, dal grado di effettiva partecipazione di un buon numero di stakeholder direttamente interessati all’ideazione e poi all’attuazione degli interventi. Questo approccio partecipativo supera quelle impostazioni che, semplificando un po’, consideravano i cittadini solo come destinatari o beneficiari, per sottolinearne invece il protagonismo: il loro coinvolgimento e l’uso delle loro risorse e conoscenze sono essenziali per migliorare l’efficacia degli interventi. Il sapere “professionale” delle élite (tecniche, amministrative, politiche) da solo non è sufficiente, perché la complessità dei problemi e la velocità dei cambiamenti sociali rendono impossibile la formulazione di risposte adeguate e rapide alle esigenze da parte dei soli attori tradizionali, in particolare di una pubblica amministrazione inerte e afflitta da scarsità di risorse. Si tratta, in fin dei conti, di una declinazione specifica in ambito urbano di una impostazione imperniata sui processi di autosviluppo e di empowerment: le competenze tecniche non sono più pensate come il propulsore dei processi, ma sono al servizio dell’attivazione delle risorse delle persone coinvolte.

Concretamente l’approccio partecipativo può basarsi su una pluralità di prospettive sulla società (cfr LAINO G., Dalla partecipazione all’apertura dei processi decisionali alla mobilitazione sociale: tradizioni e filoni di ricerca, <www.giovannilaino.it>). Ne indichiamo rapidamente due, a titolo di esempio. La prima, forse un po’ romantica, ipotizza che nei quartieri esistano, magari solo in forma embrionale o latente, delle comunità locali in possesso di un punto di vista significativo in merito alla trasformazione del territorio, più attendibile delle idee degli esperti esterni, che queste comunità sono interessate a esprimere ogni volta che ne hanno la possibilità. Il processo partecipativo deve dunque creare le condizioni perché questo avvenga, eventualmente andando a “scovare” la voce di queste comunità quando non riesce a manifestarsi da sola. Una seconda prospettiva sottolinea con più forza la frantumazione sociale – una pluralità che è sia ricchezza sia radice di conflitti – e la complessità del governo urbano che ne consegue, in particolare con le sole procedure della democrazia rappresentativa. La chiave diventa allora facilitare il dialogo urbano, attivando processi comunicativi tra i diversi attori riconosciuti nella loro pluralità e diversità di interessi, che possono anche essere conflittuali. In questa prospettiva, sono cruciali adeguate regole di confronto e tecnici che sappiano maneggiarle: l’efficacia dei metodi partecipativi dipende infatti dall’investimento nel dialogo e nella comunicazione.

Le diverse prospettive della partecipazione contengono sicuramente intuizioni fondamentali, preziose, irrinunciabili sulla dignità e sulle competenze degli abitanti delle periferie, ma allo stesso tempo scontano il limite di una elevata macchinosità, e sono esposte alla deriva di essere ridotte a tecniche o di riprodurre l’approccio paternalistico tipico del ’900. Il rischio è imporre ai quartieri a forte problematicità, ancora una volta dall’alto e dall’esterno, schemi di quella che si pensa essere una “buona socialità”; di proporre, sempre a partire da un centro, un percorso etico-pedagogico di salvezza a chi è periferico. In un contesto con minori risorse economiche, i processi partecipativi possono diventare la reincarnazione degli interventi di edilizia popolare illuminata. Perché chi è in periferia dovrebbe diventare “attento ai problemi del proprio quartiere” e “disponibile ad aiutare l’amministrazione nella cura dei beni comuni locali” prima e più degli abitanti di altre zone della città?

Una rivoluzione copernicana

Di fronte a questi rischi, ma soprattutto di fronte alla trasformazione della periferia in esperienza esistenziale da una parte e in rappresentazione mediatica e culturale dall’altra, sorge la domanda se il primo e fondamentale cambiamento non sia il più radicale abbandono dello schema “centro-periferia”, con il connesso immaginario salvifico, esplicito o più spesso implicito, religioso o secolarizzato, di coloro che al centro sono depositari del sapere, della cultura e della salvezza e hanno la missione di illuminare le oscurità della periferia, come il sole fa nei confronti dei pianeti.

Andare oltre questa visione, tuttavia, richiede il coraggio di spogliarsi di molte certezze acquisite: non esiste più chi sa e chi non sa, ma tutti abbiamo bisogno di imparare. Non esiste più chi vive una situazione (il centro) che diventa il paradigma per il cambiamento degli altri, la meta a cui tendere: cambiare diventa un imperativo per tutti. Per molti versi si tratta di una consapevolezza che una corretta sensibilità ecologica globale già ci ha fatto acquisire: non è pensabile che la meta dei processi di sviluppo sia che tutti gli abitanti del pianeta pratichino lo stile di vita delle attuali élite, semplicemente perché le risorse del pianeta non lo consentono. La ricerca di alternative, dunque, riguarda tutti: anche il centro deve cambiare e non solo le periferie.

L’abbandono di un paradigma gerarchico del rapporto centro-periferia – una rivoluzione copernicana in senso proprio – consente di assumere uno sguardo d’insieme sulle realtà urbane, che fornisce interessanti chiavi di lettura. La periferia perde la connotazione di rimorchio al traino e alla rincorsa del centro, per diventare il luogo in cui con più evidenza si manifestano tensioni e contraddizioni sistemiche. L’esempio romano da cui siamo partiti ci aiuta a comprendere che cosa questo significa: a Tor Sapienza sono ubicati quattro centri di accoglienza per stranieri, mentre non ve ne sono nei quartieri centrali e benestanti, dove sono magari presenti numerose caserme in disuso che potrebbero essere utilizzate a tale scopo. Anche i campi rom, quasi per definizione, sono collocati in periferia. Ma l’accoglienza a migranti e rifugiati o la soluzione del problema abitativo dei nomadi è questione che riguarda la città e la società nel suo complesso, che la gestione del territorio pensata dal centro scarica sulle periferie (confermandone così il ruolo di discarica). Visti in questa prospettiva, il rifiuto o la chiusura all’accoglienza della diversità non sono una caratteristica della periferia, come la cronaca sembra suggerire, ma della città nel suo insieme.

La rivoluzione copernicana non impatta solo sulla percezione dei problemi: uno sguardo libero dal paradigma centripeto dominante potrà pervenire al riconoscimento del mondo periferico come potenziale formidabile di produzione degli apparati concettuali e delle risorse economiche del futuro, in forza della consapevolezza che la creatività e la novità si originano nei laboratori urbani dove si confrontano, si scontrano e si contaminano modelli di vita e visioni del mondo differenti: oggi questo accade nelle periferie. È questa la ragione – lo indicavamo nell’editoriale dello scorso numero – per cui papa Francesco addita le periferie come «luogo preferenziale di salvezza», in senso anche sociale e non solo spirituale o religioso.

Procedere in questa direzione richiede la fiducia che la novità è possibile, che le soluzioni possono scaturire anche da dove non ce lo si aspetterebbe, anche se il successo non è garantito a priori. Da questa fiducia si può allora provare a impostare delle politiche: quali prospettive potrebbe aprire un intervento per dare un riconoscimento pubblico a quelle forme di welfare “spontaneo” (ad esempio nella gestione dei minori) basate sui rapporti di vicinato, che non rientrano nei canoni consolidati del mercato (anche del lavoro), in quanto si imperniano su forme di reciprocità che non prevedono corrispettivi monetari? È possibile riformulare la mole di standard che regolano tutti gli aspetti della nostra vita, ad esempio in materia di commistione tra usi abitativi e produttivi dello spazio domestico, per favorire le esigenze di attività economiche (artigianato, catering, ecc.) in molti sensi periferiche? Cambiare paradigma è come apprendere una lingua straniera: non accade da sé, né solo a seguito di uno sforzo più o meno volontaristico e teorico. Richiede un accompagnamento da parte di persone e istanze capaci di svolgere una insostituibile opera di mediazione, di facilitare l’incontro e il confronto, di gestire lo scontro e il conflitto quando si manifestano, ma soprattutto di rendere la novità accessibile a chi non ha gli strumenti per coglierla appieno. Questo ruolo di interpretariato sociale richiede di aver vissuto sulla propria pelle (di singolo o di gruppo) l’esperienza di abitare la differenza, di appartenere a mondi diversi, così da poter comunicare con tutti. Non è probabilmente illusorio pensare che una società liquida e in costante cambiamento sia più ricca di figure di questo genere di una più statica e consolidata: si tratta di un capitale umano e sociale che abbiamo bisogno di imparare a valorizzare e che probabilmente è più abbondante proprio nelle periferie, e che diventa evidente quando si smette di considerarle spazi informi in attesa di un intervento, riconoscendone invece le pratiche di auto-organizzazione. Su questa base – lo dimostra l’articolo immediatamente seguente – diventano possibili l’incontro e la sintesi anche tra quelli che uno sguardo superficiale conduce a ritenere pianeti diversi.
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