Improvviso e orribile è stato l’attacco sferrato da Hamas nel sud di Israele in un tranquillo sabato mattina di ottobre, che ha causato la morte di centinaia di civili e soldati, mentre decine di persone di diverse nazionalità sono state prese in ostaggio. Attesa e dura è stata la violenta reazione di Israele, che ha iniziato a bombardare la striscia di Gaza, roccaforte di Hamas, sottoponendola a un vero e proprio assedio, senza acqua, elettricità e carburante per giorni. La sorpresa iniziale di fronte a quanto è accaduto il 7 ottobre 2023, tanto in Israele (a partire delle forze armate e dei servizi di sicurezza israeliani che non avevano avuto sentore di quanto si stava preparando) quanto nel mondo, ha subito lasciato il campo allo smarrimento e alla preoccupazione perché – come ha dichiarato Tor Wennesland, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente – «Siamo sull’orlo di un abisso profondo e pericoloso. […] Il rischio dell’espansione di questo conflitto è molto reale ed estremamente pericoloso». Di fronte a una prospettiva così drammatica è importante richiamare alcuni elementi, che possono essere di aiuto per conservare la lucidità in un frangente dove le reazioni emotive, l’incertezza e la confusione prevalgono.
Un conflitto che va al di là della dimensione regionale
Indipendentemente dalla loro durata o dalla violenza, dal numero di militari e civili uccisi e feriti nel corpo e non solo, sradicati dalle loro case e privati dei loro affetti, dagli sconquassi economici che ne derivano, dalle distruzioni causate nelle città o dai danni arrecati all’ambiente, tutte le guerre rappresentano un punto morto nella storia dei popoli coinvolti e una sconfitta per l’umanità intera. Se smarriamo questa consapevolezza corriamo concretamente il rischio di assuefarci all’idea della “normalità” della guerra – o della sua inevitabilità – come via per risolvere i conflitti tra i popoli. La constatazione che sono numerose le guerre in corso nel mondo non smentisce l’importanza dell’affermazione di principio, ma dà la misura del lavoro che le istituzioni internazionali, gli Stati e la società civile sono chiamate a svolgere.
Non tutte le guerre o i conflitti all’interno di un Paese hanno però lo stesso impatto sulla politica internazionale o la stessa risonanza presso l’opinione pubblica a livello mondiale. È così ad esempio per le poche informazioni che sono circolate su quanto accaduto, ad esempio, negli ultimi dieci anni in Africa (cfr Mateos alle pp. 611-618) La maggiore o minore attenzione non dipende tanto dai “numeri” del singolo conflitto, che potrebbero anche essere gravi (e in ogni caso anche una vittima sola sarebbe già una di troppo), ma da altri fattori, come il “peso” internazionale degli Stati coinvolti, la storia che ha preceduto e molte volte preparato le violenze di oggi, le conseguenze che si determinano nello scacchiere globale.
Di sicuro il conflitto arabo-israeliano travalica i confini della rilevanza regionale, per investire tutto il mondo, così come è stato per l’invasione russa in Ucraina, che per le ripercussioni politiche, economiche e diplomatiche che ne sono derivate non è solo un evento europeo. Per questo motivo, da quando sono giunte le prime notizie dell’attacco di Hamas, l’attenzione generale è massima e il coinvolgimento emotivo enorme, dovuto non solo alle vicende delle ultime settimane, ma a una storia di violenze e tentativi di pace lunga più di settant’anni. Nel corso di questi decenni gli Stati, e al loro interno il mondo politico e l’opinione pubblica, hanno preso posizione, sostenendo e difendendo le richieste di una delle parti coinvolte contro l’altra. E tutto questo lo percepiamo chiaramente nel modo in cui in Italia si discute sulle notizie di guerra che arrivano.
La ricerca del colpevole
Di fronte a eventi violenti, si è scossi in modo profondo e scatta quasi naturalmente la ricerca del colpevole perché sia fatta giustizia, soprattutto quando le vittime sono persone innocenti. Questo avviene evidentemente nei popoli colpiti, ma lo percepiamo anche nell’opinione pubblica internazionale, e si traduce nella necessità di dare un nome al responsabile e a chiamarlo in causa per quanto ha compiuto.
Si tratta di un’esigenza legittima che però si scontra con la constatazione che individuare le responsabilità tanto materiali quanto morali è un’operazione tutt’altro che semplice. Può essere facile farlo per un singolo episodio, come ad esempio per l’offensiva realizzata da Hamas che è all’origine della crisi attuale, ma non è una regola che vale sempre. Non lo è, ad esempio, per il bombardamento dell’ospedale al-Alhi a Gaza City (almeno fino al momento in cui va in stampa questo testo), del quale nessuno finora si assume la responsabilità e vi sono più interpretazioni possibili.
A rendere ancora più complessa questa ricerca sul piano dell’opinione pubblica è la propaganda inevitabile delle parti in conflitto in tempo di guerra, a cui oggigiorno si aggiunge l’estrema facilità di far circolare in modo virale fake news tramite video, foto, messaggi grazie a un click attraverso i social media.
Soprattutto, non è di sicuro facile individuare le responsabilità quando si tratta di un conflitto che dura da 70 anni, come nel caso di Israele e Palestina. Nel corso di questi decenni si è stratificata una storia scandita da ingiustizie e atti di violenza perpetrati e subiti da un lato e dall’altro, che sono stati di volta in volta ora vittime ora carnefici.
La trappola delle semplificazioni
In questo momento è molto concreto il rischio di cadere nella trappola delle semplificazioni e delle polarizzazioni che da decenni si sono cristallizzate nel contesto internazionale e nei vari Paesi rispetto alle vicende di questo pezzo di Medio Oriente. La prima fra tutte è quella binaria, che pone l’alternativa secca tra “stare con il Governo israeliano o con Hamas”, dimenticando ad esempio che i soggetti coinvolti sono ben più numerosi, basti pensare all’Autorità nazionale palestinese, o identificando in modo indebito tutti i palestinesi con le scelte violente fatte da Hamas o tutti gli israeliani con le decisioni del loro Governo.
D’altronde, molto spesso le polarizzazioni presenti all’interno di un Paese a proposito della vicenda arabo-israeliana sono lo specchio di tensioni e divisioni che esistono nella realtà politica e sociale locale, più che esprimere un punto di vista che prende le mosse dalla considerazione attenta di quanto è accaduto nel corso degli anni in Israele e Palestina. Per questo sarebbe interessante chiedersi: perché quella parte politica, quella realtà della società civile, ha più empatia per una parte o per l’altra? Si sostengono gli israeliani perché sono ritenuti più vicini a noi sul piano culturale? Perché nella storia sono stati ghettizzati e vittime di razzismo? Si è dalla parte dei palestinesi perché sono tra i popoli più poveri al mondo? Oppure perché il loro anelito ad avere una terra non trova una risposta concreta? Cercare le risposte a queste domande può gettare una luce sulle posizioni che di volta in volta vengono sostenute, e così facendo aiutare a prendere coscienza delle proprie convinzioni. Non sarà un esercizio che aiuterà direttamente a superare l’attuale crisi tra Israele e Palestina, ma consentirà di essere più consapevoli e lucidi in questo frangente storico, così come in altri contesti che ci sono più vicini e nei quali rischiamo di scivolare nelle polarizzazioni. In questo modo, si possono smontare quelle dinamiche che alimentano le visioni pregiudiziali e ideologiche che ostacolano i processi di dialogo necessari per costruire la convivenza e la pace.
I danni collaterali
In questa guerra, che secondo Benjamin Netanyahu sarà «lunga e difficile», pare che tutte le parti abbiano accettato che i civili siano “sacrificabili”. Sono i danni collaterali di una violenza bellica che infrange di fatto uno dei principi di base del diritto umanitario internazionale, elaborato negli ultimi cento anni per proteggere la popolazione inerme ed evitare innumerevoli morti. L’altro caposaldo è il criterio della “proporzionalità”, secondo cui anche le azioni rivolte contro obiettivi militari non possono danneggiare i civili in maniera eccessiva o in maniera sproporzionata rispetto alla finalità militare perseguita.
Nell’attuale conflitto tra Israele e Hamas, così come in tante altre guerre nel mondo, la domanda è allora quella del limite che non si può superare dal punto di vista politico, giuridico ed etico. Questa domanda si pone per i popoli in lotta, ma vale anche per la comunità internazionale: qual è il limite che non si può oltrepassare perché la risposta a un attacco sofferto non si trasformi in qualcosa di ben diverso? La risposta dipende anche da come viene definito il destinatario delle proprie azioni. Un giornalista del New York Times vent’anni fa chiese a una donna palestinese la cui casa era stata distrutta in un attacco se voleva che un’altra madre soffrisse la stessa cosa. La sua risposta fu: «Naturalmente no, spero che Dio non faccia provare a nessun altro la nostra sofferenza». Quando siamo dentro un conflitto il tentativo di disumanizzare il nemico costituisce una vecchia tattica conosciuta, che nessuna convenzione o accordo internazionale è riuscita a scalfire, al pari di quella di generalizzare e spersonalizzare la responsabilità, al punto che anche i minori diventano colpevoli e meritevoli di essere puniti. Tutto ciò finisce con alimentare la spirale di odio, aumentando la scia di dolore e incomprensione e allontanando la pace. Per questo è anche nostra responsabilità cercare di smascherare queste narrazioni ogni volta che ce le ritroviamo davanti, che si tratti della guerra arabo-israeliana o di conflitti più domestici, per costruire una cultura che sappia guardare di volta in volta all’avversario, all’interlocutore, al vicino, riconoscendo e abbracciando tutte le sfumature della sua persona, quelle positive come quelle negative, senza sfigurarlo o trasformarlo in un personaggio anonimo.
Note