L’identità negata dei rohingya
Il Myanmar è uno Stato multietnico dove la minoranza musulmana sunnita dei rohingya non riesce a trovare spazio per vivere, tanto da essere privata della cittadinanza ed essere perseguitata dalle istituzioni.
Dall’agosto del 2017 il mondo ha assistito a una nuova crisi umanitaria lungo la frontiera birmano-bengalese che coinvolge i rohingya, da alcuni definiti come la minoranza più perseguitata al mondo. La loro è la storia di una ferita non sanata, che porta con sé una serie di problemi inevasi che affondano le proprie radici nel passato coloniale del Myanmar – già Birmania – e che sono indissolubilmente legati al lento e faticoso percorso di transizione democratica che il Paese sta provando a intraprendere.
Sino al 24 agosto 2017 si stimava che in Myanmar risiedesse circa un milione di rohingya; quel giorno vennero pubblicate le raccomandazioni della Commissione ad hoc sullo Stato di Rakhine, istituita dal Governo birmano e presieduta dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan (cfr <www.rakhinecommission.org>). Non erano trascorse 24 ore, che miliziani del locale gruppo estremista noto come ARSA (Esercito Arakan per la Salvezza dei Rohingya) attaccarono postazioni dell’esercito birmano e della locale polizia, uccidendo una decina di membri delle forze di sicurezza birmane. La reazione dell’esercito si è tradotta in quello che, sin dai primi giorni del settembre 2017, è stato definito da Zeid Ra’ad Al Hussein, Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU (UNHCR), un esempio “da manuale” di pulizia etnica (cfr anche Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite 2017). Nei primi 60 giorni, circa 600mila rohingya si sono riversati nel vicino Bangladesh, una fuga che secondo Al Hussein costituiva la crisi di rifugiati con il più rapido livello di sviluppo al mondo. L’esodo è proseguito anche all’inizio del 2018, sebbene con tassi più bassi. Gli ultimi rapporti pubblicati dall’Inter Sector Coordination Group, stabilito in Bangladesh e guidato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), stimano che sono arrivati in Bangladesh a partire dal 25 agosto 2017 quasi 800mila rohingya, di cui la metà minori (<https://data.humdata.org/organization/inter-sector-coordination-group>).
Le parole di chi è riuscito a varcare il confine bengalese raccontano di stupri, uccisioni e violenze indiscriminate. Le immagini satellitari mostrano interi villaggi dati alle fiamme. Medici senza frontiere stima che nelle operazioni di rastrellamento siano rimasti uccisi almeno 6.700 civili, di cui 730 bambini sotto i cinque anni. I rohingya giunti in Bangladesh a seguito di questa ultima crisi si aggiungono ai 200mila che già vi si trovavano: oggi si contano quasi un milione di persone ammassate in campi di sfollati e insediamenti spontanei in uno dei Paesi più poveri e popolosi del continente asiatico.
Questa cronaca parla di un odio sedimentato nei confronti di persone che sino a pochi mesi fa rappresentavano più del 2% della popolazione nazionale e il 40% di quella dello Stato di Rakhine, ma a cui da cinquant’anni non è riconosciuto il diritto alla cittadinanza. Per capirne le ragioni, va ripercorsa la storia della regione e precisato il valore semantico della parola rohingya, termine differentemente compreso a seconda dei contesti di utilizzo.
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