Se c’è qualcosa che a Renzi riesce indubbiamente benissimo è suscitare quelli che in inglese si chiamano
mixed feelings (sentimenti contrastanti). La storia si ripete a ogni uscita, che si tratti dei discorsi al Parlamento, delle conferenze stampa, delle visite alle scuole o delle apparizioni televisive. Ciò a cui ci riferiamo non è tanto l’ordinaria spaccatura tra favorevoli e contrari: Renzi appare capace di suscitare sentimenti contrastanti nel proprio partito (i contorcimenti del PD rispetto al suo segretario sono più che evidenti), in quelli avversari e, in fin dei conti, all’interno della medesima persona.
È impossibile non cogliere la novità del suo stile rispetto alla situazione precedente, che spesso abbiamo descritto come una “palude”, e non esserne attratti; è altrettanto inevitabile riconoscere una estrema personalizzazione del suo modo di porsi e un discorso politico che pare costantemente rasentare la semplificazione: a questo riguardo non si possono non nutrire dubbi e anche paure, che smorzano gli entusiasmi. A questa inedita combinazione di sentimenti facciamo riferimento parlando di “vertigine”.
In questi anni abbiamo ripetuto che l’alternativa tra populisti e democratici aveva probabilmente rimpiazzato quella tra destra e sinistra come polarità strutturante e chiave interpretativa della politica italiana (e probabilmente non solo). Ora
Matteo Renzi, segretario del Partito democratico e Presidente del Consiglio, si presenta con un mix di caratteristiche dell’una e dell’altra parte, come una sorta di “pop(liberal)democratico”. Ci troviamo di fronte a quella che potremmo definire, in senso tecnico, una chimera politica, essendo la chimera il “mostro” mitologico con parti del corpo di animali diversi. Questo spiega bene il senso di vertigine e anche le domande che immediatamente suscita: siamo di fronte ai primi passi di una visione politica lungimirante, capace di operare una sintesi innovativa delle molte e contraddittorie spinte che inequivocabilmente agitano la nostra società? O piuttosto a un ennesimo tentativo di sedurci con l’insidioso fascino della semplificazione? O le due cose insieme? E ancora: possono convivere uno stile comunicativo che relativizza le mediazioni e punta sulla figura del leader e un metodo autenticamente democratico, che valorizza l’apporto di tutti e il confronto fra le posizioni?
Vale la pena sostare un attimo su queste domande, interrogando l’immediatezza delle reazioni emotive per far emergere i diversi elementi che esse colgono a sostegno dell’una o dell’altra possibile risposta. Solo questo ci permetterà di superare lo smarrimento, assumendo una posizione corroborata da un discernimento, e di identificare gli atteggiamenti da tenere e le azioni da compiere. Al di là di quanto può apparire dai titoli dei giornali e anche da alcune dichiarazioni dello stesso Renzi, infatti, l’esito della sua scommessa non dipende solo da lui, ma anche dal modo in cui tutti gli attori sociali agiranno e reagiranno: sindacati, Confindustria, partiti di maggioranza e di opposizione, movimenti e associazioni della società civile, ecc. Quello che il Presidente del Consiglio riuscirà a compiere per far uscire il Paese dalla crisi, sarà il frutto delle dinamiche sociali e delle riflessioni politiche che si attiveranno – anche criticamente ma costruttivamente – nei confronti dalla sua proposta.
Il successo o l’insuccesso di Renzi, quindi, non potranno che essere un risultato collettivo.
Proveremo a procedere in questo discernimento della “vertigine Renzi” sulla base del dittico formato dai discorsi pronunciati il 24 febbraio al Senato e il 25 febbraio alla Camera per ottenerne la fiducia. Oltre all’indubbio rilievo istituzionale dell’occasione, come spesso accade in un film la prima sequenza contiene in nuce lo svolgimento successivo, o meglio gli elementi per interpretarlo. A quei discorsi pare legittimo riferirsi anche di fronte alle molte successive “sorprese”, comprese quelle che non mancheranno nel tempo che intercorre tra la stesura di queste pagine e la loro lettura a rivista stampata.
Un discorso bifronte
I due interventi al Parlamento, che, pur con le loro differenze, costituiscono una unità di senso, non sono certo stati estemporanei o casuali, anche se non tutti i dettagli saranno stati programmati a tavolino. Ogni discorso politico – e tanto più quello con cui si chiede la fiducia – è costruito utilizzando strategie comunicative e procedimenti retorico-argomentativi per portare l’uditore a condividere il punto di vista di chi parla. Cruciale è dunque la capacità di accreditarsi come narratore credibile: molto chiaramente è questo il cuore di quei discorsi e della strategia politica che esprimono, a cui Renzi ha sacrificato lo scopo tradizionale di rendere conto dettagliatamente delle politiche che il suo Governo avrebbe messo in pratica.
Per rimanere al passo con i tempi, proveremo ora a “condensare” in tre tweet i discorsi programmatici di Renzi: questo ci consentirà di cogliere al meglio le peculiarità del quadro comunicativo utilizzato, indubbiamente diverso da quello del suo predecessore a Palazzo Chigi, che nell’analoga occasione aveva scelto di elencare tutto ciò che bisognava o si doveva fare.
a) Il rapporto diretto con gli “italiani veri”
Il primo tweet potrebbe essere:
«Mi rivolgo a voi, ai cittadini comuni, e non ai politici». L’identificazione di chi parla con il proprio uditorio, che viene così incluso nel suo progetto, ha luogo di solito attraverso un gioco di indicazioni pronominali (io – voi – noi). È interessante notare che Renzi non utilizza mai il “noi” in riferimento all’uditorio a cui si sta effettivamente rivolgendo, cioè senatori e deputati, anzi, si riferisce al Parlamento per così dire “in terza persona”, come se stesse parlando altrove: «Noi vogliamo sfidare il Parlamento; non consideriamo il Parlamento un inutile orpello». In entrambe le Camere si pone come un “esterno”, quasi un “intruso”, facendo attenzione a distinguersi dai politici presenti, con un misto di deferenza e ingenuità che rasenta l’ironia.
Il “noi” viene utilizzato in riferimento alla persona che parla, in taluni casi, alla compagine governativa e al PD, ma soprattutto ai cittadini «che seguono da casa». Non è tanto la consapevolezza di essere in diretta o narcisismo da primo attore mediatico, ma una scelta precisa:
la fiducia che a Renzi preme ottenere è quella della gente comune. Per questo, più che ad analisi o argomentazioni, il discorso ricorre a narrazioni personali che esaltano la sua vicinanza alla vita ordinaria e la sua identificazione con uno qualunque (!) dei cittadini: «Una signora, scherzando fino ad un certo punto (forse voleva farmi un complimento), ieri uscendo dalla messa mi ha detto: “Certo, se fai il Presidente del Consiglio tu, lo può fare veramente chiunque”».
Sta in questo atteggiamento – da cui derivano probabilmente le mani in tasca o la citazione di Gigliola Cinquetti – l’elemento “pop” che è stato riconosciuto nei discorsi di Renzi. “Pop” fa riferimento innanzitutto a uno stile di comunicazione, ma non per questo è politicamente neutro. Verso dove conduce?
Da una parte
sembra richiamare il populismo, che consiste precisamente nel privilegiare il rapporto diretto con il popolo, anziché con le istituzioni, senza adottare le regole di mediazione politica proprie della democrazia rappresentativa, con i rischi che ciò comporta. Non per niente Renzi riesce a stabilire un dialogo – magari irritualmente fatto di provocazioni e bigliettini che finiscono su Internet – anche con i parlamentari del Movimento 5 Stelle, e soprattutto si accredita come un interlocutore possibile della loro base, alla quale non appare come un “marziano”: anzi, essa si può ritrovare nel suo linguaggio e nei suoi atteggiamenti, come accade anche per almeno una parte dei militanti di Forza Italia.
Ma “pop”
può fare riferimento anche a una versione attualizzata del popolarismo: fa parte della migliore tradizione popolare e democratica – lo abbiamo ripetuto anche su queste pagine – l’invito ai politici a tenere i piedi per terra, partendo dal basso, dall’ascolto diretto di ciò che vivono le persone; e a farsi capire, senza perdersi in ragionamenti tanto arzigogolati quanto astratti. L’esperienza di gestione di realtà locali (come un Comune o una Provincia) è preziosa per l’ex sindaco fiorentino ed è importante che la metta a frutto.
La moneta sta ancora girando in aria: se cadrà sulla faccia populista o su quella democratico-popolare ce lo dirà il modo concreto con cui si realizzeranno i tanti annunci di queste settimane. L’attenzione preferenziale a chi fa fatica, alle famiglie che non arrivano alla fine del mese può concretizzarsi in chiave populista, ad esempio tramite la concessione assistenzialista di qualche sgravio fiscale, o in chiave autenticamente popolare, costruendo, anche tramite gli sgravi fiscali (ma non solo), un contesto in cui le persone possono attivare e mettere a frutto le proprie risorse e capacità, a vantaggio della propria famiglia e del bene comune.
Va detto poi che gli approcci populisti tendono a privilegiare la costruzione di un “noi” identitario ed escludente, che per sostenersi ha bisogno di un “loro” da identificare come nemico: pensiamo al ruolo della retorica della sicurezza contro gli immigrati, ma anche a un certo modo di presentare gli avversari politici; finora il “noi” proposto da Renzi appare chiaramente inclusivo, tanto che egli afferma esplicitamente che identità e integrazione non sono opposte.
b) Una politica “semplice” e “veloce”
Il secondo immaginario tweet del nuovo Presidente del Consiglio potrebbe essere:
«Non identificatemi con il vecchio modo di fare politica», distanziandosi dalla percezione diffusa della politica e dei politici. Ormai non ha più nessuno da rottamare, ma vuole mostrare di non meritare, in poco tempo, lo stesso trattamento.
Il messaggio passa innanzitutto attraverso mimiche, gesti, sguardi, postura e tutti i tratti extralinguistici che da sempre compongono la comunicazione politica, ma interpretati in maniera irrituale, come nel caso delle ormai famose mani in tasca. Inoltre, il discorso di Renzi rivista i
topoi letterari della “novità” e del “coraggio”, ma anche della “rapidità”, in maniera degna di un manifesto futurista. In questa operazione, non teme di ricorrere a espressioni a effetto che sembrano riproporre i temi più cavalcati dell’antipolitica, come la critica a «una politica nella quale la dilazione è costante; una politica nella quale si può anche rinviare al giorno dopo, si può allungare il tempo della decisione senza fine, si può rimandare l’urgenza dei provvedimenti». E così «deve finire infatti il tempo in cui chi va nei palazzi del potere, poi, tutte le volte trova una scusa. Non ci sono più alibi per nessuno e primo per me».
Renzi usa tutta la sua retorica contro un modo lento e burocratico di fare politica per creare un largo consenso tra il pubblico. E vuole usare questo consenso per aggirare le trappole e l’opposizione della politica tradizionale.
Anche sul piano dei contenuti alcune proposte riecheggiano temi cari al “grande pubblico”, come la riforma della burocrazia, la semplificazione amministrativa, la riduzione del carico fiscale. Rispetto all’Europa, se si smarca – radicalmente – dalle posizioni euroscettiche, lo fa sottolineando di voler portare avanti una posizione non succube di una certa ortodossia: «Un’Europa in cui l’Italia non va a prendere la linea, non va a farsi spiegare cosa c’è da fare, in cui l’Italia dà un contributo fondamentale». Prima che alla testa, queste espressioni parlano “alla pancia” (o ai desideri?), e comunque sono presentate con uno stile che può suscitare perplessità e resistenze in chi proviene da una certa tradizione democratica (intendendo l’aggettivo in senso ampio e non partitico).
Allo stesso tempo,
Renzi rompe nettamente con i canoni del populismo quando riporta all’attenzione la necessità che le decisioni vengano prese dopo un dibattito a cui partecipino tutti, anche quelli che fanno parte della minoranza. «Oggi una mia amica mi ha scritto: “Se devi approvare una forma di unioni civili che non sia quella che vogliamo noi, allora non approvarla”. No, non è così: sui diritti si fa lo sforzo di ascoltarsi, di trovare un punto di sintesi. Questo è un cambio di metodo profondo. Sui diritti si fa lo sforzo di trovare un compromesso anche quando questo compromesso non ci soddisfa del tutto». Poche cose appartengono alla tradizione squisitamente democratica (e del cattolicesimo democratico) quanto il metodo della mediazione, o l’interpretazione della politica come servizio al bene comune: «Perché, tutto sommato, noi, quale che sia la tradizione politica e l’esperienza culturale dalla quale proveniamo, siamo abituati a pensare che la politica sia davvero la forma più straordinaria di servizio alla nostra comunità. La politica è servizio alla comunità», e ha poi aggiunto che la politica è dialogo, confronto anche duro, nel tentativo di uscire insieme dai problemi; ed è anche democrazia interna.
Certo su questi punti non è difficile fare proclami e il rischio di scivolare dalla mediazione al compromesso al ribasso è sempre dietro l’angolo. A questo riguardo, l’inclusione dell’avversario (“l’odiato nemico-amico” della sinistra) nella riforma elettorale non è perfettamente limpido. Va peraltro riconosciuto che storicamente in Italia esiste un problema nel gestire la tensione tra l’esigenza del confronto (che tende ad allungarsi all’infinito) e quella della rapidità ed efficacia dei processi decisionali: abbiamo quindi bisogno di sperimentare pratiche nuove che migliorino la performance del sistema.
Infine, parlare “alla pancia” è un modo efficace per suscitare entusiasmo e mobilitare risorse che altrimenti restano inerti. In un orizzonte di medio-lungo periodo, la pratica politica non ha bisogno solamente di persone esperte nell’uso delle risorse che la democrazia mette a disposizione per la costruzione di una società più giusta, ma necessita anche di testimoni che sappiano convincere, con le parole e con l’impegno, che vale la pena partecipare attivamente al dibattito democratico.
Tornare ad appassionare al bene comune è probabilmente la sfida più profonda per la politica italiana. Affrontarla richiede di mettersi sotto i riflettori, con i rischi che questo comporta.
c) La (sua) Persona al centro
È questo l’ambito del terzo tweet:
«Abbiate fiducia in me!». Il discorso di Renzi, nel quale la sua storia personale emerge a ogni dove, è in larga parte una presentazione di se stesso: chi parla intende guadagnarsi la fiducia di chi ascolta presentando il proprio modo di fare, il proprio “ethos”, soprattutto quando aleggiano i dubbi su di lui. In casi come questo la credibilità dipende proprio dall’immagine. In questo modo Renzi mette in un certo senso da parte il proprio partito, che peraltro lo ricambia seguendolo “in cagnesco” e comunque strutturalmente non può trasformarsi in un partito personale, di cui Renzi (a differenza di Berlusconi e Grillo) è privo: nel lungo periodo ciò potrebbe rappresentare una salvaguardia contro derive troppo personalistiche.
Un altro
topos appare con decisione nel discorso del neo Presidente del Consiglio: quello del coraggio, del farsi avanti in prima persona, dell’assumere il rischio, del «metterci la faccia». È diventato un ritornello. Una delle frasi che hanno suscitato più commenti il 24 febbraio è quella in cui ha messo in gioco la sua reputazione: «Se perderemo questa sfida, la colpa sarà soltanto mia». Renzi centra la conclusione del suo discorso proprio sul tema del coraggio, marcando in modo lampante la differenza con l’atteggiamento di Enrico Letta, che, nell’analoga occasione del primo voto di fiducia, disse: «Confessandovi che avverto fortissimi in questo momento la consapevolezza dei miei limiti e il peso della mia personale responsabilità, ma impegnandomi a fare di tutto affinché le mie spalle siano larghe e solide al punto da reggere, nelle vesti di Presidente del Consiglio di un Governo che richiede, qui e oggi, la fiducia del Parlamento». Anche questo è un
topos frequente, soprattutto in ambito cattolico, ma di segno diverso: quello dell’uomo maturo e responsabile che si sente indegno dell’incarico e, conscio della difficoltà dell’impresa, con spirito di sacrificio se ne assume il peso.
L’appello a una fiducia riposta in una persona (anziché in un’idea, in un progetto, in un programma, in un’ideologia, in una competenza, ecc.) ci riporta nell’alveo di un modello carismatico di leadership. Non necessariamente però questo è un indizio inequivocabile di populismo. Il ventennio del bipolarismo esacerbato ha probabilmente impoverito la nostra cultura della leadership e del pluralismo di forme in cui essa si declina, anche a partire dall’originalità delle caratteristiche personali. Assumere ed esercitare il potere è parte ineliminabile dell’azione politica, così come costruire il consenso alla base della propria legittimazione.
La questione decisiva rispetto alla qualità democratica di una leadership è piuttosto capire se essa mira al controllo, al congelamento delle dinamiche innovative a vantaggio di chi è al potere e del suo gruppo di riferimento, oppure se essa è in grado, anche con stile carismatico, di aprire processi di autonomia e libertà per le persone e i gruppi sociali. Da questo punto di vista è troppo presto per poter esprimere un giudizio definitivo sull’operato di Renzi. Anche in questo caso, solo le realizzazioni concrete ci permetteranno di chiarirci le idee: l’esperienza dell’ultimo ventennio ci dice che a riguardo sarà cruciale il modo di rapportarsi alle regole e soprattutto il non cadere nella tentazione di alterarle a proprio vantaggio. In un Paese stanco e sfiduciato, percorso da una preoccupante caduta del desiderio, una leadership carismatica o persino visionaria può rappresentare una opportunità di attingere a riserve di entusiasmo ed energie nascoste.
Di fronte alla vertigine, prendere posizione
Vertigine o meno, il Governo Renzi è la realtà dell’Italia di oggi. La perplessità di fronte alla sua proposta politica è legittima, altrimenti non sarebbe così diffusa; anch’essa fa parte della realtà, ma non può trasformarsi in un alibi per rimanere a guardare che cosa succede. È questo il rischio implicito nel “sostegno trattenuto”, come se il Paese fosse seduto in tribuna a guardare se il nuovo premier riuscirà a fare quello che tutti dicono che deve fare, cioè vincere la partita, per sé e soprattutto per noi. È questa la deriva a cui rischiano di spingerci le resistenze che Renzi certamente suscita, se decidiamo di non chiederci a che cosa sono dovute e che cosa ci rivelano della qualità della nostra vita politica.
Restare a guardare è una tentazione forte nel nostro Paese, abitato da tempo da una concezione messianica della politica, e teso ad aspettare il salvatore di turno che risolva d’incanto tutti i problemi. Salvo poi constatare, con noia e fastidio, che ancora una volta non è cambiato nulla, o non abbastanza. È un vizio ben più antico dell’ascesa politica di Renzi, che oggi può giocare a suo e nostro sfavore. Si tratta anche del rischio implicito in un entusiasmo senza radici e quindi pronto a scomparire alle prime difficoltà.
Di fronte alla realtà politica, sociale ed economica, nessuno può rimanere seduto a guardare, in particolare chi riveste ruoli di responsabilità (a ogni livello) nelle diverse realtà che strutturano la vita sociale (imprese, sindacati, partiti, movimenti, associazioni, amministrazioni locali, ecc.): occorre farci i conti, maneggiarla, prendere una posizione. Meglio se a partire da un discernimento dei diversi stimoli ed elementi che essa ci offre: è quello che abbiamo cercato di fare in queste pagine rispetto agli inizi del nuovo Governo. Da questo punto di vista, quella di Renzi è quanto meno una provocazione politica sana e salutare, sia per chi ne è entusiasta, sia per chi è dubbioso: entrambi hanno il dovere di chiedersi perché e di riuscire a spiegarlo. In questa operazione ciascuno metterà meglio a fuoco la propria posizione, contribuendo così al dibattito pubblico e, soprattutto, all’individuazione delle azioni da intraprendere.
Da buon “lupetto”, Renzi – glielo e ce lo auguriamo – «farà del suo meglio», ma da solo non combinerà niente. Agire sulla base della provocazione che la sua proposta rappresenta significa impegnarsi nella costruzione del Paese, ritrovare la capacità di guardare al domani e abbandonare l’atteggiamento di difesa a tutti i costi delle posizioni acquisite;
la disponibilità condivisa a giocarsi in prima persona per il bene comune è il migliore indicatore dello stato di salute di una democrazia e, al tempo stesso, la sua più solida difesa, come ci ricorda la folla ucraina che ha trovato la forza per cambiare il corso della storia del proprio Paese (cfr il
contributo di David Nazar alle pp. 318-326 di questo numero). Dai frutti non riconosceremo solo Renzi; anzi, poiché quei frutti non saranno suoi ma di tutti, riconosceremo soprattutto noi stessi e la qualità democratica del nostro Paese.