Alcuni termini sono diventati di uso comune nel dibattito sulla pandemia da COVID-19 e sul modo di affrontarla. Strutture amministrative, sistemi di distribuzione, catene di fornitura, gestione della crisi e responsabilità dell’organizzazione fanno parte delle nostre preoccupazioni quando monitoriamo la capacità del National Health Service [NHS, l’equivalente britannico nel nostro Servizio sanitario nazionale, N.d.T.] di far fronte al problema. L’apertura di ospedali di emergenza con migliaia di posti letto spuntati dal nulla nelle principali città del Paese, con la fornitura di tutte le apparecchiature necessarie, stupisce e impressiona il cittadino per le capacità logistiche dispiegate nell’operazione.
Il lessico della logistica, delle strutture e dei sistemi suona estremamente astratto, ma la pandemia ci sta facendo rendere conto della dimensione concreta di questi termini. Ci viene costantemente ricordato che lo slogan «Proteggete il NHS» si riferisce al personale che vi lavora e rende possibile l’erogazione dei suoi servizi [nel Regno Unito la campagna di contrasto alla pandemia è imperniata su un triplice slogan: «Stay at home, protect the NHS, save lives»: «State a casa, proteggete il NHS, salvate delle vite», N.d.T.]. Si tratta di persone con nomi, famiglie e storie, molte delle quali sono finite sui giornali perché sono state contagiate, o sono morte a causa dell’infezione, o rischiano la vita ogni giorno a causa dell’insufficienza dei dispositivi di protezione. Vediamo la pressione a cui sono sottoposte, la dedizione che le motiva, anche di fronte a notevoli rischi personali, la loro stanchezza e la loro frustrazione. Il nostro sistema sanitario non è una struttura astratta, un oggetto di gestione organizzativa; è una collettività di persone – interessante come quanti ne fanno parte ne parlino spontaneamente come di una famiglia – che entrano in relazione e collaborano svolgendo ruoli diversi, guidate da aspettative reciproche condivise e da una comprensione comune di ciò che sperano di dare a chi ha bisogno di loro.
Il NHS è un sistema, o meglio un sistema di sistemi, ma in primo luogo è una collettività di persone. In passato, quando il dibattito politico si è concentrato sulla questione del suo finanziamento e sulle ipotesi di privatizzazione e di passaggio a una gestione ispirata a criteri di mercato, e tutto questo è entrato nei programmi dei partiti, l’attenzione si è focalizzata sugli aspetti organizzativi: costi e benefici, obiettivi e tempi di attesa. La pandemia ha cambiato la nostra prospettiva, aiutandoci a vedere le persone al centro del sistema e a renderci conto che a erogare il servizio sono le loro risorse personali di dedizione, coraggio, competenza e carattere. La “S” in NHS non sta per “sistema” ma per “servizio”, e questo servizio è fornito da persone competenti e premurose che si danno da fare per soddisfare i bisogni degli altri e della comunità. Questo spostamento di attenzione e di prospettiva illustra molto bene un tema centrale della dottrina sociale della Chiesa che di solito, quando viene menzionato, suscita cenni di approvazione, ma senza che l’attenzione vi si concentri: il primato del lavoro sul capitale.
L’economia al servizio della libertà umana integrale
Si tratta del nodo al centro della questione sociale fin dall’enciclica Rerum novarum di Leone XIII del 1891. Per tutto il secolo successivo alla sua pubblicazione, la Chiesa ha preso le distanze tanto dall’ideologia del comunismo quanto da quella del capitalismo sfrenato. Rispetto alla prima, ha insistito sull’identità e la dignità del singolo lavoratore e ha contrastato l’enfasi sull’interesse di classe e sulla sua realizzazione politica attraverso il conflitto. In opposizione alle forme di capitalismo sfrenato, la Chiesa ha denunciato i contratti di lavoro che non riconoscono ai lavoratori un salario sufficiente a garantire una vita dignitosa alle loro famiglie. Non ci si può fare scudo di valori come la libertà per giustificare rapporti di sfruttamento. E quando, quasi un secolo dopo la pubblicazione dell’enciclica, il sistema del socialismo reale è crollato, Giovanni Paolo II ha dovuto mettere in guardia contro ogni ingenuo trionfalismo da parte dei sostenitori del capitalismo, rifiutando di lasciar intendere che la Chiesa si era schierata all’interno di una controversia ideologica o aveva concesso un’approvazione incondizionata al capitalismo liberale.
Nell’enciclica Centesimus annus del 1991, in cui commemorava il centenario della Rerum novarum, Giovanni Paolo II ha espressamente sollevato la questione se il capitalismo sia il modello da sostenere e proporre alle economie in via di sviluppo. «La risposta è ovviamente complessa – afferma al n. 42 –. Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa”, o di “economia di mercato”, o semplicemente di “economia libera”. Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa».
A prima vista la risposta pare molto astratta, ma vale la pena fermarsi ad analizzarla. Il sistema economico richiede un «solido contesto giuridico» per garantire che raggiunga il proprio scopo, che non è la libertà del mercato, ma la «libertà umana integrale», che ne comprende la dimensione etica e religiosa.
Il primato del lavoro sul capitale
Dieci anni prima, in occasione del novantesimo anniversario della Rerum novarum, Giovanni Paolo II aveva pubblicato l’enciclica Laborem exercens sul lavoro umano. È innegabile che il suo contesto immediato sia costituito dalla protesta dei lavoratori polacchi a Danzica e in altre città, e dalla visibilità ottenuta dalla loro organizzazione, Solidarność, che chiedeva il rispetto dei diritti dei lavoratori. Per ironia della sorte o della storia, toccava al Papa ammonire uno Stato comunista e i suoi sostenitori sovietici a mantenere l’impegno per la causa dei lavoratori. In fin dei conti è il Manifesto del Partito comunista che si chiude con la chiamata ai lavoratori di tutto il mondo a unirsi.
Sebbene il testo dell’enciclica sembri spesso superare Marx nel prendere le parti dei lavoratori, il Papa non parla di proletariato o di classe operaia, ma di persone impegnate nel lavoro. Tuttavia, in molti punti in cui paiono riecheggiare espressioni di Marx, egli riconosce il bisogno della solidarietà dei lavoratori che nasce dall’esperienza reale dell’alienazione e dello sfruttamento. «L’appello alla solidarietà [… era] la reazione contro la degradazione dell’uomo come soggetto del lavoro, e contro l’inaudito, concomitante sfruttamento nel campo dei guadagni, delle condizioni di lavoro e di previdenza per la persona del lavoratore. Tale reazione ha riunito il mondo operaio in una comunità caratterizzata da una grande solidarietà» (LE, n. 8).
L’accento è posto sulla persona che lavora, capace di agire razionalmente e liberamente, e orientata alla realizzazione di sé (cfr LE, n. 6). Con questa consapevolezza della realtà personale e soggettiva del lavoratore, il Papa resiste a tutte le forme di analisi che trattano i lavoratori come meri strumenti di produzione o forza produttiva, come nel caso dell’espressione “forza lavoro” (cfr LE, n. 7). Tali astrazioni negano la realtà essenziale della persona al lavoro che liberamente apporta al processo produttivo la propria intelligenza, competenza e responsabilità. Scrive Giovanni Paolo II: «il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non [è] prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva» (LE, n. 6).
Successivamente, Giovanni Paolo II formula il principio del primato del lavoro sul capitale, in cui riconosce una costante nella dottrina sociale della Chiesa: «questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il “capitale”, essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale» (LE, n. 12). Il Papa elabora questo principio e lo utilizza come fondamento di un’approfondita riflessione sui diritti dei lavoratori. L’intuizione centrale è che il lavoratore, in quanto persona, cerca molto di più della retribuzione come contropartita del lavoro: le condizioni di lavoro e la qualità dei rapporti sul luogo di lavoro dovrebbero riflettere il riconoscimento del diritto di ciascuno a cercare la propria realizzazione attraverso l’attività lavorativa. Questo riconoscimento fonda la consapevolezza della propria dignità. «Questa consapevolezza viene spenta in lui nel sistema di un’eccessiva centralizzazione burocratica, nella quale il lavoratore si sente un ingranaggio di un grande meccanismo mosso dall’alto e – a più di un titolo – un semplice strumento di produzione piuttosto che un vero soggetto di lavoro, dotato di propria iniziativa. L’insegnamento della Chiesa ha sempre espresso la ferma e profonda convinzione che il lavoro umano non riguarda soltanto l’economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali. Il sistema economico stesso e il processo di produzione traggono vantaggio proprio quando questi valori personali sono pienamente rispettati» (LE, n. 15).
Riusciamo a reimparare questa lezione, mentre le nostre società affrontano la sfida della pandemia? I nostri operatori sanitari non dovrebbero sentirsi come semplici ingranaggi in un’enorme macchina burocratica centralizzata; dovrebbero invece sentirsi riconosciuti e percepire che il loro benessere e la loro realizzazione come persone sono un elemento essenziale della loro attività.
Il lavoro di cura come servizio dell’amore per il prossimo
Giovanni Paolo II seguiva la costituzione pastorale del Concilio Vaticano II, Gaudium et spes (1965) quando, nel discutere le questioni economiche, metteva al centro la personalità del lavoratore. Sia nella Gaudium et spes, sia nel magistero di Giovanni Paolo II, si considera l’intero spettro delle attività lavorative. Invece il suo successore, Benedetto XVI, si è concentrato sul lavoro di cura nella sua prima enciclica, Deus caritas est, pubblicata nel 2005, dedicata al tema della carità: Dio è amore, e la missione e la sfida per i cristiani è amare. Le due cose non sono separabili, poiché è l’amore dato dal creatore che anima ogni amore umano, ed è l’amore mostrato dal redentore che offre il modello dell’amore fino al sacrificio di sé e ne conferma il valore definitivo.
Benedetto XVI si concentra sui ministeri cristiani della cura, compresa la sanità, e riflette sulla testimonianza specifica data da coloro che si mettono al servizio degli altri. Sottolinea la differenza qualitativa del servizio reso quando è animato dall’amore, incoraggia i cristiani a trarre forza e ispirazione dalla loro fede nel compimento del loro servizio e indica che tra le responsabilità della Chiesa vi è il sostegno ai propri operatori, offrendo le risorse necessarie per farsi carico della dimensione della donazione di sé nel loro lavoro: «per quanto riguarda il servizio che le persone svolgono per i sofferenti, occorre innanzitutto la competenza professionale: i soccorritori devono essere formati in modo da saper fare la cosa giusta nel modo giusto, assumendo poi l’impegno del proseguimento della cura. La competenza professionale è una prima fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore» (DCE, n. 31).
Il termine che indica il servizio nella tradizione cristiana, cioè diakonia, rimanda alla qualifica data ai sette diaconi scelti nella Chiesa primitiva per fornire cure concrete e materiali alla comunità. Eppure, nel presentarli come esempi di servizio, Benedetto sottolinea che il loro lavoro era un «ufficio spirituale [...] dell’amore ben ordinato per il prossimo» (DCE, n. 21). Qualsiasi organizzazione dedicata a fornire servizi di cura che trascurasse queste dimensioni personali del servizio rischierebbe di diventare una burocrazia e finirebbe per svuotare la propria ragion d’essere. Dal punto di vista sia della società sia dello Stato, queste dimensioni personali di amore e dedizione nel lavoro di cura devono apparire come doni che non possono essere comprati o manipolati, ed essere riconosciuti e accettati come tali con gratitudine. Le nostre comunità nazionali dovrebbero avere cura di sostenere e incoraggiare tutte quelle fonti di ispirazione e di motivazione alle quali le persone attingono per sostenere il proprio impegno, come le comunità di fede e le Chiese (cfr DCE, n. 28).
I medici e gli operatori sanitari che sono morti al servizio degli altri, i molti che rientrano volontariamente al lavoro dopo essere andati in pensione, le migliaia che mettono a rischio salute e vita lavorando in circostanze pericolose, sono tutti testimoni dell’amore capace di sacrificarsi che caratterizza le professioni di cura. Non dobbiamo sorprenderci di incontrare l’azione della grazia di Dio e l’imitazione del dono di Cristo oltre i confini delle comunità di fede.
Non c’è un lato positivo della pandemia, ma la nostra situazione attuale ci riporta con forza alla verità di alcuni principi della dottrina sociale della Chiesa che potrebbero essere stati dati per scontati. Il principio del primato del lavoro sul capitale può essere riformulato ora come priorità dell’operatore, dell’infermiera o del medico sul sistema. Questo principio è radicato nel fatto che il lavoratore è una persona che dona liberamente se stessa e il cui sviluppo è in gioco nel suo lavoro. Nell’eroismo del personale sanitario si manifesta ora il fatto che la cura è sempre un atto umano che, al di là dell’adempimento oggettivo di determinate operazioni, coinvolge dimensioni di motivazione e impegno personale, oltre che di competenza. Questo principio del primato delle persone sui sistemi dovrebbe rimanere fondamentale per tutto il mondo del lavoro quando l’emergenza COVID-19 sarà passata.
RN = Leone XIII, lettera enciclica Rerum novarum, 1891.
LE = Giovanni Paolo II, lettera enciclica Laborem exercens, 1981.
CA = Giovanni Paolo II, lettera enciclica Centesimus annus, 1991
DCE = Benedetto XVI, lettera enciclica Deus caritas est, 2009.
Titolo originale «Self-sacrificing love in the workplace», pubblicato su Thinking faith, <www.thinkinfaith.org>, 20 aprile 2020. Traduzione e adattamento a cura della nostra Redazione.