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La parola ai giovani

Fascicolo: gennaio 2023

I primi mesi di attività di un Governo sono solitamente febbrili, per la necessità di mostrare agli elettori lo sforzo di tradurre i programmi elettorali in provvedimenti concreti. Una conferma, se mai fosse stata necessaria, viene dalle prime decisioni dell’Esecutivo guidato da Giorgia Meloni: i diversi passi fin qui compiuti esprimono le priorità per il Paese individuate dalle forze che lo sostengono e ne rivelano la visione di società sottostante. Questo vale per tutti gli ambiti attualmente oggetto di dibattito: dalle scelte di politica fiscale a quelle in materia di sanità, dalla gestione dei movimenti migratori al reddito di cittadinanza.

Tra i tanti temi che sarebbe possibile esaminare in questa prospettiva, scegliamo di soffermarci sulle iniziative annunciate o adottate dal Governo e sulle prese di posizione di esponenti della maggioranza che riguardano il mondo giovanile, che non hanno mancato di suscitare forti polemiche. Le richiameremo qui brevemente nella loro formulazione “originaria”, senza considerare le successive evoluzioni o i passi indietro. Quello che ci interessa non è entrare nel merito, ma usarle come cartina di tornasole per mettere a fuoco il modo in cui le dinamiche giovanili sono colte e interpretate dall’attuale maggioranza, che potrebbero rispecchiare un punto di vista diffuso nel mondo degli adulti.

Di quale merito parliamo?

Al momento dell’insediamento del nuovo Governo, a suscitare curiosità non sono stati solo i nomi dei ministri, ma anche la decisione di cambiare la denominazione di alcuni ministeri, con l’introduzione, tra gli altri, del “Ministero dell’Istruzione e del merito”. Il merito richiama il riconoscimento pubblico dei risultati raggiunti, l’attribuzione di un incarico o di un premio in virtù del lavoro svolto e non di altre motivazioni, più o meno limpide e legittime. Pure la nostra Costituzione afferma che «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34 Cost.), espressione del diritto all’istruzione riconosciuto a tutti in modo sostanziale e non solo formale.

Dietro l’enfasi sul merito si annida però un rischio: la concentrazione sul raggiungimento dei risultati, a prescindere da ogni altra considerazione, risulta discriminatoria nei confronti di coloro che non dispongono delle risorse per conseguirli, per ragioni indipendenti dalla loro volontà o dal loro impegno. Senza uno sforzo per offrire a tutti pari condizioni di partenza, l’enfasi sul merito premia una seconda volta coloro che già hanno vinto “la lotteria della vita”, nascendo in buona salute, in una famiglia agiata, ecc., a scapito di coloro che sono più fragili per le loro capacità individuali o per il contesto familiare, sociale ed economico da cui provengono. Pensando al mondo della scuola, non dovrebbero essere proprio i bambini e gli adolescenti più fragili, tanto italiani quanto di origine straniera, al centro dell’attenzione del Ministero? Non dovrebbe essere prioritario lo sforzo di garantire loro strumenti e risorse che ne favoriscano la crescita, colmando il divario che li separa dai più fortunati? Purtroppo, su questo fronte, non si registrano molte novità sul piano degli stanziamenti previsti nella legge di bilancio in discussione nel momento in cui scriviamo, malgrado le tante iniziative positive realizzate sul territorio dalle istituzioni scolastiche e da realtà del Terzo settore che potrebbero essere prese come modello.

A che cosa porta l’umiliazione?

Restando sempre nel mondo della scuola, hanno suscitato profonda impressione le dichiarazioni del ministro Valditara a proposito degli episodi di violenza nelle classi. Commentando la decisione di un dirigente scolastico di sospendere uno studente per aver compiuto atti di bullismo, il Ministro ha suggerito di destinarlo ai lavori socialmente utili per evitare che «vada poi a fare fuori dalla scuola altri atti di teppismo, o magari addirittura si dia allo spaccio o magari si dia alla microcriminalità». Inoltre, ha fatto l’elogio dell’umiliazione come strumento pedagogico, come «fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità».

L’immaginario che sta dietro queste parole è chiaro: quello studente è una “mela marcia” che “non merita”, va separato dagli altri e messo in condizione di non nuocere ulteriormente. Ma soprattutto emerge l’idea di una educazione fondata sulla repressione e sulla punizione, che fa cioè leva sulla paura della sanzione, legale o sociale, e non sull’appropriazione personale del senso delle norme del vivere sociale e del male che genera la loro trasgressione. Ma questo pare più simile a un percorso di addestramento che a un cammino di costruzione di una personalità capace di compiere il bene per convinzione e non per paura. Se ci si limita a questo, basterà che venga meno lo spauracchio perché le persone tornino a dare la stura ai peggiori istinti, che non avranno imparato a integrare, ma solo a reprimere.

Quale aiuto può venire dall’umiliazione come risposta alla violenza, quando ciò che serve in primo luogo è approntare un percorso di rilettura delle proprie azioni che consenta di crescere nell’esercizio autonomo della responsabilità? Ma questo richiede di strutturare forme di accompagnamento che meritano di essere qualificate come educative. Del resto, è questo anche l’unico possibile senso educativo di misure come i lavori socialmente utili, che vogliono fornire una esperienza alla cui luce rileggere le azioni compiute e comprenderne gli errori, e non possono essere presentati come l’equivalente contemporaneo della condanna ai lavori forzati.

Hanno la nostra fiducia?

In occasione della legge di bilancio, è stato presentato da tre esponenti della maggioranza un emendamento per abolire il “bonus cultura”, cioè l’erogazione di 500 euro ai neodiciottenni che ne fanno richiesta, da usare per l’acquisto di libri, di biglietti per spettacoli o abbonamenti a giornali e riviste, destinando le risorse così risparmiate, pari a 230 milioni di euro, a finanziare altre iniziative legate al mondo della cultura e dello spettacolo. Di sicuro, ci sono luci e ombre nel modo in cui funziona la 18App; e si può ragionare se sia opportuno assegnare il bonus a tutti i diciottenni, a prescindere dalle condizioni economiche della famiglia, oppure su come limitare le possibilità di truffe. Tuttavia, le analisi a disposizione mostrano che questa misura è servita a far crescere la fruizione dei prodotti culturali presso i più giovani, oltre che a sostenere gli operatori del settore.

Ma vi è un senso del bonus cultura che va oltre la dimensione economica: affidare ai neodiciottenni una somma di denaro da spendere come meglio credano, pur all’interno del perimetro dei prodotti culturali, equivale a compiere un atto di fiducia nei loro confronti. La proposta di abrogarlo va a mettere implicitamente in discussione proprio il riconoscimento sociale della loro autonomia e la fiducia che la società dichiara di porre nella loro capacità di scegliere responsabilmente.

È il momento del dialogo

Gli episodi evocati rinviano così a interrogativi di fondo: quale immagine dei giovani ha la società degli adulti? Sono un “oggetto” sconosciuto e potenzialmente pericoloso? Sono soggetti di seconda classe, incapaci di prendere decisioni? O, detto con maggiore onestà, sono semplicemente non disponibili a prendere le decisioni che noi adulti ci aspettiamo? I giovani sono tutti “sdraiati” o “bamboccioni”, giusto per citare alcune espressioni divenute celebri negli ultimi anni? E allora perché a volte risultano fastidiosi, ad esempio quando fanno i “gretini” sui temi ambientali?

Indagini e studi sul mondo giovanile abbondano, e ci restituiscono uno spaccato delle sue fragilità, come l’elevato numero di NEET o l’incidenza crescente di varie forme di disagio giovanile, degli ostacoli che spingono molti giovani, spesso brillanti, a emigrare, ma anche della capacità di impegno su alcune tematiche, come l’ambiente. Eppure tutte queste risorse, preziose e insostituibili, non bastano se non sappiamo come usarle: sono una fotografia in cui sono a fuoco i dettagli (le analisi, i dati…), mentre a essere sfocati sono i protagonisti, i giovani.

Spesso si ripete che senza giovani non c’è futuro. Anzi, i più lungimiranti aggiungono che i giovani sono soprattutto il presente delle nostre società. Ma troppo spesso ne parliamo come se non esistessero davvero, come se fossero assenti, o spariti. In realtà, sono lì, al nostro fianco, ma come adulti non ne siamo sempre consapevoli, così come non sempre siamo in grado e disponibili ad ascoltarli, soprattutto quando si rivolgono a noi attraverso forme che giudichiamo sbagliate e da reprimere prima di interrogarci seriamente sul loro significato, e sulle contraddizioni che evidenziano. Tanto per fare un esempio: i disturbi alimentari come anoressia e bulimia sono patologie individuali o la spia di disfunzioni e contraddizioni sistemiche della società di cui tutti facciamo parte, ma il cui peso si scarica solo su alcuni? E come leggere in questo senso le tante forme di trasgressione, senza rubricarle frettolosamente a problemi di ordine pubblico su cui intervenire solo in via repressiva? Conta solo la differenza con altre forme da tempo istituzionalizzate e quindi tollerate, come certe derive del tifo calcistico? O magari conta la connotazione politica delle une piuttosto che delle altre?

Se i giovani sono essenziali per il futuro, lo siamo anche noi adulti, così come lo è la capacità di dialogare tra le generazioni, frenata molte volte dalla povertà di ascolto che accomuna tutti, giovani e meno giovani, e dalla paura di un cambiamento, che è più radicata presso noi adulti. Tra tanti dubbi, c’è qualche elemento solido da cui ripartire, qualche atteggiamento che l’esperienza ha provato essere sbagliato e infecondo. Non è certo con il paternalismo o la condiscendenza che si pongono le basi del dialogo, né possono presentarsi come interlocutori credibili pallide figure di adulti assenti o in fuga dalle loro responsabilità. La sfida di fare in modo che l’apporto originale e creativo dei giovani possa emergere e rinnovare di continuo la società tocca le istituzioni pubbliche, che di sicuro faticano a riconoscere i giovani e a essere da loro riconosciute, ma anche il mondo associativo e quello ecclesiale. Pensare a politiche giovanili senza un dialogo con i giovani poteva essere forse immaginabile un tempo, all’interno di società diverse dalla nostra e in evoluzione assai meno rapida. Oggi sarebbe solo una pericolosa illusione.

 

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