«Il primo dovere a Brancaccio è rimboccarsi le maniche. E i primi obiettivi sono i bambini e gli adolescenti: con loro siamo ancora in tempo, l'azione pedagogica può essere efficace». Queste parole esprimono in modo forte l’amore che padre Pino Puglisi nutriva per il quartiere palermitano di Brancaccio dove era nato, dove è stato parroco nella chiesa di San Gaetano e dove è stato ucciso la sera del 15 settembre 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. Fanno emergere anche la grande attenzione che aveva verso i più giovani e la loro formazione, un impegno costante da quando era stato ordinato prete nel 1960 e che riteneva essenziale, avendo sempre ben presente la realtà in cui era chiamato ad operare.
A Brancaccio, così come negli altri luoghi in cui aveva svolto la sua missione, padre Puglisi ha mostrato in modo concreto come incarnare il Vangelo per liberare le persone dall’influenza della mentalità mafiosa. Il primo passo consiste nel comprendere a fondo che cosa è la mafia, che per padre Pino non si può ridurre solo alla criminalità, ma è un sistema di potere che intende imporre il proprio “ordine”, sostituendosi a quello dello Stato, di cui spesso risulta più efficace e veloce, capace di adattarsi meglio ai cambiamenti, sapendo approfittare delle situazioni incerte, e finendo con apparire agli occhi delle persone un punto di riferimento per fare e farsi giustizia.
Ma la mafia non è solo potere, anche economico, sul territorio. Essa è soprattutto una mentalità, un’ideologia che calpesta la dignità dell’essere umano. Per queste ragioni, padre Pino aveva ben chiaro che la lotta alla mafia doveva essere portata avanti anche sul piano dell’educazione e della cultura, oltre che su quello della risposta da parte delle istituzioni pubbliche. Da qui la sua insistenza a ritrovare e promuovere la dimensione etica tanto nella politica quanto nella vita civile e a dare spazio a iniziative formative rivolte soprattutto ai giovani e ai bambini, per iniziare a sottrarli fin dalla più tenera età alla mentalità mafiosa, offrendo una visione alternativa di sé e del mondo.
In questa prospettiva si colloca la nascita del Centro di accoglienza Padre Nostro, inaugurato il 29 gennaio 1993, pochi mesi prima dell’uccisione di padre Pino, che organizzava varie attività per i ragazzi di Brancaccio. Alla base vi era la convinzione che le risposte più incisive ai problemi di tante aree in difficoltà del nostro Meridione non sarebbero arrivate da politiche assistenzialistiche, ma dal rendere le persone capaci di sognare e progettare il proprio futuro.
Diverse realtà che sono nate dopo la morte di padre Puglisi hanno confermato la forza della sua intuizione, come «Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie» (<www.libera.it>), fondata nel 1995 da don Luigi Ciotti, o il «Comitato Addiopizzo» (<www.addiopizzo.org>), che in Sicilia dal 2004 combatte il racket delle estorsioni. Accanto a queste realtà che hanno una dimensione nazionale ve ne sono molte altre che a livello locale sono attive nel combattere la diffusione di qualunque forma di criminalità organizzata.
Risvegliare le coscienze, a partire da quelle dei giovani, creare le condizioni perché persone diverse potessero collaborare, accrescere la consapevolezza dei tanti aspetti legati al fenomeno mafioso sono alcuni degli elementi che hanno caratterizzato l’opera di padre Puglisi. Il suo martirio, riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa dieci anni fa con la beatificazione a Palermo, ha un tratto comune con altri martiri dei nostri giorni, che sono stati uccisi per come hanno amato in concreto, sapendo portare il messaggio del Vangelo nella realtà dove vivevano. Non a caso, in questi giorni è stato reso noto che la notizia della beatificazione di padre Pino aveva mandato su tutte le furie il boss Matteo Messina Denaro, che rifiutava l’idea di una Chiesa che sta a fianco delle persone e aiuta i giovani e i meno giovani a pensare un futuro diverso da quello imposto dalla criminalità.