Una delle principali caratteristiche della Bibbia è di iniziare con la creazione del mondo e non di Israele. Vi è una continua insistenza sul fatto che Dio è il Signore di tutta l’umanità. È vero che Dio ha stretto un’alleanza speciale con Abramo e i suoi discendenti dopo di lui, ma questa relazione è a servizio del suo legame con tutte le nazioni, che nei versetti della vocazione di Abramo sono chiamate famiglie: In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (Genesi 12,3b). Il particolarismo dell’elezione e l’universalismo della salvezza si richiamano a vicenda, senza che il secondo ponga fine al primo.
Il cristianesimo deriva il suo nome da christòs, che significa “unto”, e quindi dall’attesa della figura di un redentore che ha ricevuto un’unzione come quella dei re messia di Israele. Si fonda sulla fede che Gesù di Nazareth è il messia atteso e si ricongiunge con le profezie, in particolare di Isaia, che annunciano un salvatore nel futuro. Il tempo della salvezza è arrivato. Ma è arrivato per tutti. Va oltre i confini di Israele, come alcuni profeti biblici hanno predetto. La battaglia combattuta da Paolo di Tarso durante tutta la sua vita di apostolo è stata quella di essere il messaggero della buona novella fino ai confini della terra, rivolgendosi al mondo greco e latino. Allo stesso tempo, ha combattuto per convincere le comunità più antiche che tutti i battezzati partecipano agli stessi beni escatologici, innanzi tutto lo Spirito Santo, e che tutti possono ormai entrare nell’alleanza senza dover diventare ebrei. È questa rivoluzione il tratto distintivo del messianismo cristiano. Per i cristiani, il giorno tanto atteso è arrivato quando, nella pienezza dei tempi (Galati 4,4), Dio ha aperto il suo progetto salvifico a tutti i popoli. Sottolineiamo che questo non rende obsoleta l’elezione di Israele: la comunità ebraica è destinata a durare fino alla fine dei tempi, quando tutto Israele sarà salvato (Romani 11,26a).
Il termine si riferisce a tutta la comunità nella sua doppia e indissolubile dimensione di popolo (in senso genealogico) e di comunità confessante (sul piano religioso). Notiamo di passaggio che, nella coppia biblica Israele-nazione dell’Antico Testamento, il termine “nazione” è un anacronismo, tanto è legato oggi alla storia politica europea: si riferisce alla forma particolare che può assumere l’esistenza di una (o più) comunità umane, il più delle volte unite da una lingua e da tradizioni comuni (gli egiziani, i persiani, i ciprioti, ecc.).
Questa universalità della salvezza basata su un solo Dio è legata a una teologia della creazione: Dio ha creato tutti i popoli e, al pari del resto della creazione, la prima caratteristica da menzionare al loro riguardo è quella della bontà. La tradizione, sia ebraica sia cristiana, riconosce nelle diverse organizzazioni politiche dei popoli una realtà anzitutto buona. Quanto detto per la cultura vale anche per l’autorità, che ha in definitiva la sua fonte in Dio. Così Paolo scrive ai romani: non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio (Romani 13,1). La prima lettera di Pietro riprenderà questo tema: Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re (1Pietro 2,17).
La svolta del Concilio Vaticano II
Questo approccio non deve far dimenticare la necessità di uno sguardo profetico critico, espresso con forza in particolare dall’Apocalisse, che non focalizza in prima battuta la bontà dell’autorità, ma il demone del profitto e dell’imperialismo all’opera nel mondo, denunciando un impero romano basato sulla schiavitù e la conquista: Perché i suoi peccati si sono accumulati fino al cielo e Dio si è ricordato delle sue iniquità […]. Anche i mercanti della terra piangono e si lamentano su di essa, perché nessuno compera più le loro merci [...] cavalli, carri, schiavi e vite umane (Apocalisse 18,5.11.13).
I cristiani vissero per più di tre secoli nella scomoda condizione di dover al contempo riconoscere la legittimità che l’impero pagano riceveva dalla teologia della creazione e rimanere profeticamente critici a proposito delle ingiustizie del mondo: Comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri (1Pietro 1,17b). La preoccupazione era di tenere insieme la lealtà civica e l’affermazione di una comunità basata su valori diversi da quelli del mondo. Dopo la rinuncia della Chiesa, avvenuta con il Vaticano II, a occupare posizioni di autorità nelle società un tempo prevalentemente cristiane, i cattolici non si ritrovano di nuovo in questa condizione, senza dubbio difficile, ma evangelica? Un atteggiamento che riecheggia in una citazione dell’apostolo Pietro, spesso richiamata dopo l’ultimo Concilio: siate pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto [verso gli uomini], con una retta coscienza [verso Dio] (1Pietro 3,15-16a).
«Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale. […] Il volto dell’Europa non si distingue nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure».
Papa Francesco, Discorso per il premio Carlo Magno, 6 maggio 2016
È innegabile che dalla fine dell’epoca imperiale, nell’Alto Medioevo, la Chiesa si sia legata sempre di più ai regni che si formavano in quel periodo, subentrando agli imperi multinazionali, in Spagna, Inghilterra, Francia, ecc. A questi regni, la Chiesa offriva una cornice religiosa e contemporaneamente si inseriva in modo profondo nel tessuto culturale di popoli diversi. Questa simbiosi è stata all’origine di un immenso patrimonio culturale e spirituale. Ed è bene riconoscerlo, in un momento in cui questa eredità sta svanendo e l’attaccamento religioso dei membri di questi vecchi popoli europei diviene appannaggio di una piccola minoranza.
Una delle maggiori difficoltà dell’Europa è che i flussi migratori avvengono in un continente che sta vivendo un crollo demografico (approssimativamente, vi sarà un dimezzamento della popolazione nel giro di tre generazioni) e una profonda incertezza esistenziale. È difficile accogliere l’altro quando si dubita di se stessi. Come Giovanni Paolo II, papa Francesco insiste sia sull’importanza di essere radicati nella propria tradizione sia sull’accoglienza degli stranieri. Papa Bergoglio lo sa meglio di chiunque altro, essendo così radicato nel suo popolo argentino, che è una realtà nuova, fiera e originale, nata da una moltitudine di migranti (cfr Fratelli tutti, n. 135).
La sua posizione fa eco alla tradizione biblica: Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto (Levitico 19,34). Inoltre, sottolinea: «Non mi incontro con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico. È possibile accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto originale solo se sono saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura. Ciascuno ama e cura con speciale responsabilità la propria terra e si preoccupa per il proprio Paese» (Fratelli tutti, n. 143). In sostanza, egli invita l’Europa a riscoprire il senso della sua storia. Rivolgendosi al Vecchio Continente, egli parla a una “famiglia di popoli”, la maggior parte dei quali ha un substrato nazionale (cfr ad esempio i discorsi pronunciati al Parlamento europeo, il 25 novembre 2014; in occasione del conferimento del premio Carlo Magno, il 6 maggio 2016; e della Conferenza “[Re]Thinking Europe”, il 28 ottobre 2017, in <www.vatican.va>).
Uno stravolgimento del discorso
Si sta profilando una doppia evoluzione. Non più presente in modo consistente in Europa, la Chiesa cattolica vive ormai al ritmo delle giovani nazioni, che si trovano spesso in Africa e in Asia. Nella stessa Europa, i nuovi fedeli sono migranti o discendenti di migranti, che portano con sé una parte delle proprie radici culturali, creando una realtà più meticcia e variegata.
Indubbiamente, è duro vedere la graduale scomparsa di antiche tradizioni culturali, che hanno contraddistinto le vecchie nazioni europee per secoli. Il Concilio Vaticano II ha voluto rompere questa identificazione delle nazioni con la Chiesa, porre fine al cattolicesimo nazionalista, all’epoca ancora presente in Spagna e Portogallo, e alla rivendicazione da parte della Chiesa di uno status di eccezione e di privilegio negli Stati moderni. Colpisce che alcuni intellettuali non cattolici, Éric Zemmour e Michel Onfray in particolare, di fronte alla questione della crisi dell’identità nazionale francese vogliano appoggiarsi alla Chiesa e alla sua tradizione per denunciare il crescente meticciato delle società europee. Lo stesso fenomeno si ritrova in altri Paesi europei.
Ma la Chiesa cattolica non sacralizza nessuna identità nazionale. Sa bene che diventare custode delle tradizioni nazionali la condanna a un ruolo di fossile o di reperto archeologico molto lontano dalla fede messianica che è la sua fonte. La Chiesa ritorna pertanto all’atteggiamento che aveva nei primi tre secoli: si confronta in modo sereno con le differenze, se non le possibili persecuzioni, di una società in gran parte non cristiana o addirittura anticristiana, continuando a proporre il Vangelo del Regno a ogni persona, qualunque sia la sua origine etnica e culturale. Difende l’attaccamento dei popoli alla propria lingua, cultura, fede e radici, purché pacifico, e si oppone a un cosmopolitismo vuoto e superficiale, che finisce per favorire una globalizzazione individualista, consumista e insipida: «C’è una falsa apertura all’universale, che deriva dalla vuota superficialità di chi non è capace di penetrare fino in fondo nella propria patria, o di chi porta con sé un risentimento non risolto verso il proprio popolo» (Fratelli tutti, n. 145).
Éric Zemmour e Michel Onfray
Pur essendo poco noti in Italia, Éric Zemmour e Michel Onfray hanno acquisito una crescente importanza nel panorama politico e culturale francese.
Il sessantatreenne Èric Zemmour, di origine ebraico-berbero-algerina, è uno dei candidati alle elezioni presidenziali di aprile 2022, alla testa del partito Reconquête, che ha fondato il 5 dicembre 2021. Per Zemmour, giornalista politico e opinionista, si tratta della prima partecipazione a una competizione elettorale, anche se da tempo è uno dei protagonisti dei dibattiti politici, in cui sostiene posizioni di estrema destra, in particolare sui temi della migrazione, dei rapporti con l’islam, della criminalità. In due occasioni è stato condannato per incitamento alla discriminazione razziale (2011) e all’odio religioso (2018).
Il filosofo Michel Onfray è autore di numerosi testi in cui ha sviluppato una teoria dell’edonismo con risvolti etici e politici. È soprattutto conosciuto per le sue posizioni contrarie al conservatorismo e al dogmatismo religioso. Nel 2020 ha lanciato una nuova rivista chiamata Front populaire, che si presenta come uno spazio in cui portare avanti la battaglia di idee per ritrovare la sovranità.
La Chiesa approva la volontà dei popoli di conservare lingue, costumi e tradizioni, ma continua ad affermare che tutti gli esseri umani creati dallo stesso Creatore hanno diritto a pari dignità e uguale rispetto. Infatti, «ogni persona che nasce in un determinato contesto sa di appartenere a una famiglia più grande, senza la quale non è possibile avere una piena comprensione di sé» (Fratelli tutti, n. 149). La Chiesa, come comunione, non come istituzione, ha ricevuto le promesse di vita eterna. Nessun’altra realtà sociale o politica, comprese le nazioni, per quanto antiche, beneficia delle stesse promesse, né mai lo farà: nessun popolo, nessuna nazione, può ottenere il primato davanti al disegno di Dio, che, in definitiva, riguarda sempre tutta l’umanità.