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Italia generativa: storie, immagini e parole per il futuro

“Salvezza”, “sacrifici”, “equità” sono parole sulla bocca di tutti. Come comprendere questi termini in una chiave “generativa”, che stimoli il nostro impegno ad aprire prospettive di futuro per il Paese?
Fascicolo: febbraio 2012

I primi giorni del Governo Monti stanno trascorrendo tra alti e bassi: seguiamo ogni giorno le evoluzioni del mercato e le mosse dell'esecutivo, nel contesto europeo e globale. Il famigerato "spread" resta elevato, ma è calcolato sui rendimenti dei titoli decennali: è normale che il clima di incertezza penalizzi in particolare il lungo periodo. Il 12 gennaio le aste dei titoli pubblici italiani si sono chiuse con una netta diminuzione del tasso di interesse rispetto al mese precedente: 2,73% contro il 5,95% del mese di dicembre per quelli a scadenza annuale, un segnale certamente positivo. Poi, il giorno dopo, l'agenzia Standard & Poor's ha tagliato il rating del debito pubblico di molti Paesi europei, tra cui l'Italia; ma c'è da chiedersi quanto queste valutazioni riflettano anche le aspettative di un mercato finanziario speculativo attratto dalle opportunità che elevati tassi di interesse sul debito sovrano rappresentano. Nel frattempo il Paese sta affrontando le polemiche e le lotte sul tema delle riforme e delle liberalizzazioni.
Certo non è passato molto tempo da quando Mario Monti è diventato presidente del Consiglio e non è pensabile che si possa risanare un Paese nel giro di pochi giorni. Tuttavia si percepisce un clima di disorientamento, di paura, di sfiducia, peraltro confermato dalle indagini statistiche. La fiducia dei consumatori, già ai minimi da almeno 10 anni nel mese di ottobre e risalita in novembre con l'insediamento del nuovo Governo, secondo l'ISTAT a dicembre ha toccato un nuovo minimo.
Pur nella gravità della situazione, rischiamo oggi di restare prigionieri del pessimismo. A partire dal Governo, attraverso tutti i livelli e le classi sociali, abbiamo sotto gli occhi persone che, anche silenziosamente, si impegnano per il Paese e per coloro che attraversano maggiori difficoltà, ma sembra che non sortiscano alcun effetto sul clima dominante. Siamo spaventati dallo scoprirci sempre più poveri, e divisi dal tentativo di tutelare ciascuno i propri interessi, percepiti come divergenti: persone alla soglia della pensione, proprietari di case, sindacati, taxisti, farmacisti e benzinai, cittadini che inveiscono contro i costi della "casta" dei politici. Considerate singolarmente, sono proteste non prive di fondamento, ma resta il fatto che ci si pone gli uni contro gli altri, in un quadro sempre più frammentato.
A dire il vero non mancano le proposte di soluzione, ma niente sembra smuoversi nel profondo e una vera azione sembra lontana dalla nostra portata. Giunge a proposito la domanda che Benedetto XVI acutamente ha posto il 22 dicembre 2011, durante gli auguri natalizi alla Curia romana: «La conoscenza e la volontà non vanno necessariamente di pari passo. La volontà che difende l'interesse personale oscura la conoscenza e la conoscenza indebolita non è in grado di rinfrancare la volontà. Perciò, da questa crisi emergono domande molto fondamentali: dove è la luce che possa illuminare la nostra conoscenza non soltanto di idee generali, ma di imperativi concreti? Dove è la forza che solleva in alto la nostra volontà?».
Il Santo Padre mostra la necessità di lavorare simultaneamente sui fronti della comprensione e della motivazione. Per capire dove siamo e per trovare stimoli per la nostra creatività e comprensione, in modo da rimetterci in movimento, proviamo ad affrontare idee, immagini e linguaggio che emergono in maniera ricorrente in questo tempo di desolazione, quali "salvezza", "sacrifici" ed "equità". La dimensione simbolica, che ci costituisce profondamente, attraversa infatti tutte le dinamiche sociali.

Speranza e storia

Qual è il nostro immaginario di salvezza? Quale la nostra speranza? Non si tratta certo di prendere i termini in maniera esclusivamente e immediatamente religiosa: non a caso, il primo provvedimento del nuovo Governo è stato ufficialmente chiamato "decreto Salva Italia".
L'impressione è che il Paese riesca a coniugare il verbo "sperare" solo all'imperfetto, che veicola un'azione continuativa, ma nel passato. Questo non solo indica il ripiegamento di chi rimpiange un passato migliore o recrimina per la mancata realizzazione delle proprie attese, ma esprime una disposizione ben più grave: un distacco emotivo dal presente per scongiurare il rischio di nuove delusioni; «noi speravamo», ma ora preferiamo non farlo più. Gli eccessi di false sicurezze - da quelle spacciate dal berlusconismo all'euforica sicumera dei mercati finanziari prima della crisi -, ci hanno resi poco adatti ad affrontare la prova. Come non stupirci allora se il Paese si rinchiude nell'elaborazione di strategie di sopravvivenza, senza osare niente più? O che deleghi passivamente la propria salvezza a un Governo di tecnici, quasi "deus ex machina", con cui prendersela se la situazione non cambia secondo le aspettative?
Rifarsi alla storia passata, però, può avere tutt'altro peso. Non per sprofondare nei rimpianti, ma per ritrovare l'evidenza di alcuni punti di forza, magari fragili ma reali, di cui custodire le energie. Non per nostalgia, ma per fedeltà a ciò che abbiamo sperimentato come capace di portare vita e aprire futuro: storie di cittadini onesti, di imprenditori e banchieri civili, di politici seri e impegnati. Non per forza eroi, sicuramente nostri vicini. Storie che non si possono negare e di cui nulla vieta la possibilità che si ripetano.
Questa conversione della qualità della memoria va operata insieme: se ciascuno affronta i propri disagi ritirandosi in se stesso, non vi è modo di superare la frammentazione. Appare più promettente rischiare interpretazioni e riletture collettive della storia. In questo senso i festeggiamenti del 150º anniversario dell'unità d'Italia, un'ottima occasione per riconoscere il capitale di unità e solidarietà che ci caratterizza, forse non sono stati valorizzati appieno.

I "necessari" sacrifici

Anche se può apparire paradossale, l'immaginario della speranza e della salvezza è legato a quello dei sacrifici, termine diffusosi in modo esponenziale in tutte le riflessioni sul momento che stiamo attraversando. Oltre alle lacrime del ministro Fornero, ricordiamo il messaggio di Capodanno del presidente Napolitano: «Lo sforzo di risanamento del bilancio [...] deve perciò essere portato avanti con rigore. Nessuna illusione possiamo farci a questo riguardo. Ma siamo convinti che i frutti non mancheranno. I sacrifici non risulteranno inutili».
Da tempo sembrava che il termine "sacrifici" fosse stato espunto dal nostro vocabolario, non senza ragione se li si intende come privazione fine a se stessa, slegata dalla possibilità di portare frutti. Se questa fosse la prospettiva, nessuna persona sana di mente vorrebbe sentire parlare di sacrifici, né tanto meno farli.
Limitarsi a considerare i sacrifici come mere rinunce dettate dalla situazione significa ridurne drasticamente il significato. Il senso originario di "sacrificio" in realtà rimanda al gesto di "rendere sacro" qualcosa o qualcuno, sottraendolo all'ordinarietà profana e offrendolo alla divinità per propiziarla o placarla. Progressivamente il termine è passato a indicare un atto personale con cui si offre alla divinità qualcosa di spirituale, di morale. Poi c'è stata la perdita di riferimento al divino: sacrificio come offerta di qualcosa di particolarmente importante per un nobile scopo, per un ideale. Infine, per un ulteriore scivolamento (e banalizzazione), sacrificio è diventato sinonimo di rinuncia o privazione.
Nella nostra cultura, questo percorso semantico è associato anche a una errata ma diffusa comprensione della fede cristiana, che lega la salvezza alla massimizzazione dei tormenti o all'accumulo di sofferenze fisiche o morali per espiare le proprie colpe o compiacere Dio. Nell'ottica cristiana invece il sacrificio non è altro che la «forma assunta dall'amore in un mondo caratterizzato dalla morte e dall'egoismo» (RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1969, 235) e che dà senso all'esistenza.
Attualizzando questa prospettiva, i sacrifici che dobbiamo affrontare otterranno il loro scopo non se ci riporteranno alla situazione in cui eravamo prima che scoppiasse la crisi, ma se ci permetteranno di sperimentare e affermare, a livello personale e collettivo, che un altro mondo, un'altra Italia, un'altra economia sono possibili. La salvezza, almeno nell'immaginario biblico, è qualcosa che sta davanti a noi, non dietro. Per questo, il tempo dei sacrifici è anche quello delle riforme, chiamate a realizzare quel nuovo a cui lo svuotamento del vecchio (il sacrificio) esige di rimandare per non essere fine a se stesso.
Certo, resta vero che gli attuali sacrifici hanno anche un valore strumentale: se non li facciamo e la situazione precipita, saremo tutti in una situazione ben più drammatica. Tuttavia l'ottica fondamentale non è quella di "ripristinare" l'esistente, ma di aprirci a qualcosa di nuovo, altrimenti possiamo dare per scontato il progressivo affievolirsi dell'impegno: senza un fine superiore alla sopravvivenza immediata, non c'è ragione di addossarsi dei sacrifici.
In questo senso i sacrifici sono "necessari", e non perché sono dovuti a dinamiche macroeconomiche che non dipendono da noi. Si tratta piuttosto di una "necessità morale", che non è altro che un sinonimo di libertà: proprio la scoperta di questa "necessaria" sofferenza, di questa libertà di impegnarsi per un progetto, dà la chiave di accesso alla speranza. E i primi da cui ce lo si aspetta sono la Chiesa e i politici. Non per niente entrambi sono sotto osservazione, la prima per il trattamento fiscale dei suoi immobili e i secondi per i mancati tagli alle loro spese: si cerca, anche in maniera piuttosto aggressiva, di mettere alla prova, di saggiare la loro coerenza.

L'equità che crea legami

In modo quasi automatico, nell'Italia di oggi, appena si menzionano i sacrifici, appare immediatamente la questione dell'equità, di solito invocata per farsi giustizia o per chiederla dagli altri. Con un sottinteso: «Tutto va bene, a patto che non sia solo io a compiere sacrifici», quando non, addirittura, «sacrifici sì, ma per gli altri», magari senza preoccuparsi troppo di coloro che sono vittime di ingiustizie ancora maggiori.
Ma che cosa significa equità? La risposta in questo caso è lungi dall'essere condivisa. Diverse sono le prospettive filosofiche a cui richiamarsi: il liberalismo, la visione procedurale, i procedimenti argomentativi. Metodologicamente un riferimento che sembra particolarmente significativo viene dal filosofo ed economista Amartya Sen; egli sottolinea l'importanza di «chiarire in che modo dovremmo procedere nell'affrontare le questioni inerenti alla promozione della giustizia e all'eliminazione dell'ingiustizia, più che offrire la soluzione delle questioni concernenti la natura della perfetta giustizia» (L'idea di giustizia, Mondadori, Milano 2010, 5). Senza negare l'importanza di riflessioni teoriche o cadere nell'efficientismo, Sen sostiene che non si può non mettere al centro il significato pratico di giustizia, peraltro indefinitamente perfettibile.
Che cosa quindi va considerato equo in tempi di crisi, e in base a quali criteri e priorità si adottano le politiche? Come i sacrifici, anche l'equità acquista senso compiuto all'interno di un progetto condiviso. E per quanto siano importanti risanamento del bilancio e discesa dello spread, una vera via di sviluppo ha le sue basi nella valorizzazione delle risorse umane e delle relazioni di cui la collettività nazionale è intessuta. A partire da quelle fondamentali che legano le parti sociali o le diverse generazioni, cristallizzatesi in una serie di istituti rispetto ai quali oggi si ripropone la domanda dell'equità. Non necessariamente andranno aboliti, né conservati: occorre un nuovo discernimento.
Come fa notare l'ultimo Rapporto sulla situazione del Paese del CENSIS: «È nel binomio "più articolazione, più relazione" che la società italiana può riprendere un respiro meno attratto dalle ansie quotidiane e più coerente con l'andamento della lunga durata» (p. XIX). Le relazioni, le alleanze, i legami che caratterizzano il nostro Paese, dalle famiglie alle associazioni, non sono solo una risorsa su cui appoggiarsi per ridurre i costi della gestione pubblica, ma elementi da valorizzare per strutturare nuove forme di un vivere comune sostenibile, articolando in modo nuovo prassi consolidate, ma non più adeguate alla situazione.

Un Paese generativo

In questa luce affrontare la crisi non significa mettersi in difesa, ma confrontarsi con una prospettiva generativa. La generatività, che si contrappone alla stagnazione come «possibilità di compiere un energico salto verso la produttività e la creatività al servizio delle generazioni» (ERIKSON E., I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Armando Editore, Roma 2003, 71), tiene insieme storia, speranza, sacrifici e legami generazionali e può stimolare tanto l'intelligenza quanto l'affettività. Del resto, generare è una dinamica umana intrinseca, non un imperativo estrinseco, e per questo risulta un'avventura affascinante, capace di mobilitare e anche - come sanno tutti coloro che sono, in tanti modi, genitori - di far affrontare sacrifici senza sentirne il peso.
Generare, con tutta la fatica che questo comporta, è insieme un comportamento, un valore (la preoccupazione di offrire e trasmettere ciò che di meglio si produce) e un atteggiamento nei confronti della vita (il riconoscimento di essere un anello all'interno della sequenza generazionale). E implica la fede nel fatto che l'impresa umana valga la pena di essere vissuta, cosa quanto mai fondamentale nel nostro contesto apparentemente sterile e schiacciato sul presente.
L'obiettivo è superare la divaricazione tra le reali possibilità del Paese e la sterilità delle dinamiche politiche e istituzionali, per costruire relazioni e trarre ispirazioni, così da elaborare, in modo processuale e cooperativo, un sapere comune, capace di immaginare pratiche e delineare politiche su basi concrete e non ideologiche. La sfida è connettere e ricomporre coloro che sono interessati alla "generazione di valore" (economico, istituzionale, relazionale, sociale), mettendo in relazione le iniziative che vengono dal basso, attraverso singoli e gruppi, e superando le contrapposizioni che da tempo bloccano il Paese: tra destra e sinistra, tra pubblico e privato, tra cattolici e laici, tra locale e globale, e così via.
In realtà, ascoltando con attenzione la società italiana, non sono pochi i fermenti in questa direzione, capaci anche di suscitare eventi sorprendenti, come gli esiti delle consultazioni elettorali e referendarie del 2011. Per ascoltare tutto questo, sono interessanti iniziative come quella dell'Istituto Luigi Sturzo di Roma: insieme alle forze più varie, ha messo in piedi un «archivio della generatività italiana» che raccoglie storie di coloro che «lavorano per interpretare e far riemergere lo slancio vitale e la fibra morale dell'Italia» delineando «l'ispirazione, le linee e gli strumenti di una politica generativa» (<www.generativita.it>).
Tutte queste esperienze di generazione che anche oggi sono in corso nel nostro Paese, nonostante la pesantezza del clima, ci ricordano quale può essere la chiave per far uscire l'Italia dal paradosso di avere disperatamente bisogno di un'idea di sviluppo, senza che nessuno paia in grado di dargliela.
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