“Salvezza”, “sacrifici”, “equità” sono parole sulla bocca di tutti. Come comprendere questi termini in una chiave “generativa”, che stimoli il nostro impegno ad aprire prospettive di futuro per il Paese?
I primi giorni del Governo Monti stanno trascorrendo tra alti e
bassi: seguiamo ogni giorno le evoluzioni del mercato e le mosse
dell'esecutivo, nel contesto europeo e globale. Il famigerato "spread"
resta elevato, ma è calcolato sui rendimenti dei titoli decennali: è
normale che il
clima di incertezza penalizzi in particolare il lungo periodo. Il 12
gennaio le aste dei titoli pubblici italiani si sono chiuse con una
netta diminuzione del tasso di interesse
rispetto al mese precedente: 2,73% contro il 5,95% del mese di dicembre
per quelli a scadenza annuale, un segnale certamente positivo. Poi, il
giorno dopo, l'agenzia Standard &
Poor's ha tagliato il rating del debito pubblico di molti Paesi europei,
tra cui l'Italia; ma c'è da chiedersi quanto queste valutazioni
riflettano anche le aspettative di
un mercato finanziario speculativo attratto dalle opportunità che
elevati tassi di interesse sul debito sovrano rappresentano. Nel
frattempo il Paese sta affrontando le polemiche
e le lotte sul tema delle riforme e delle liberalizzazioni.
Certo non è passato molto tempo da quando Mario Monti è diventato presidente del Consiglio e non è
pensabile che si possa risanare un Paese nel giro di pochi giorni. Tuttavia si percepisce un clima di disorientamento, di paura, di sfiducia,
peraltro confermato dalle indagini
statistiche. La fiducia dei consumatori, già ai minimi da almeno 10 anni
nel mese di ottobre e risalita in novembre con l'insediamento del nuovo
Governo, secondo l'ISTAT
a dicembre ha toccato un nuovo minimo.
Pur nella gravità della
situazione, rischiamo oggi di restare prigionieri del pessimismo. A
partire dal Governo, attraverso tutti
i livelli e le classi sociali, abbiamo sotto gli occhi persone che,
anche silenziosamente, si impegnano per il Paese e per coloro che
attraversano maggiori difficoltà, ma
sembra che non sortiscano alcun effetto sul clima dominante. Siamo
spaventati dallo scoprirci sempre più poveri, e divisi dal tentativo di
tutelare ciascuno i propri interessi,
percepiti come divergenti: persone alla soglia della pensione,
proprietari di case, sindacati, taxisti, farmacisti e benzinai,
cittadini che inveiscono contro i costi della "casta"
dei politici. Considerate singolarmente, sono proteste non prive di
fondamento, ma resta il fatto che ci si pone gli uni contro gli altri,
in un quadro sempre più frammentato.
A
dire il vero non mancano le proposte di soluzione, ma niente sembra
smuoversi nel profondo e una vera azione sembra lontana dalla nostra
portata. Giunge a proposito la domanda che
Benedetto XVI acutamente ha posto il 22 dicembre 2011, durante gli
auguri natalizi alla Curia romana: «La conoscenza e la volontà non vanno
necessariamente di pari
passo. La volontà che difende l'interesse personale oscura la conoscenza
e la conoscenza indebolita non è in grado di rinfrancare la volontà.
Perciò,
da questa crisi emergono domande molto fondamentali: dove è la luce che
possa illuminare la nostra conoscenza non soltanto di idee generali, ma
di imperativi concreti? Dove
è la forza che solleva in alto la nostra volontà?».
Il Santo
Padre mostra la necessità di lavorare simultaneamente sui fronti della
comprensione
e della motivazione. Per capire dove siamo e per trovare stimoli per la
nostra creatività e comprensione, in modo da rimetterci in movimento,
proviamo ad affrontare idee,
immagini e linguaggio che emergono in maniera ricorrente in questo tempo
di desolazione, quali "salvezza", "sacrifici" ed "equità". La
dimensione
simbolica, che ci costituisce profondamente, attraversa infatti tutte le
dinamiche sociali.
Speranza e storia
Qual è il nostro immaginario di salvezza? Quale la nostra speranza?
Non si tratta certo di prendere i termini in maniera esclusivamente e
immediatamente religiosa: non
a caso, il primo provvedimento del nuovo Governo è stato ufficialmente
chiamato "decreto Salva Italia".
L'impressione è che il Paese riesca a coniugare
il verbo "sperare" solo all'imperfetto, che veicola un'azione
continuativa, ma nel passato. Questo non solo indica il ripiegamento di
chi rimpiange un passato migliore
o recrimina per la mancata realizzazione delle proprie attese, ma
esprime una disposizione ben più grave: un distacco emotivo dal presente
per scongiurare il rischio di nuove
delusioni; «noi speravamo», ma ora preferiamo non farlo più. Gli eccessi
di false sicurezze - da quelle spacciate dal berlusconismo all'euforica
sicumera dei
mercati finanziari prima della crisi -, ci hanno resi poco adatti ad
affrontare la prova. Come non stupirci allora se il Paese si rinchiude
nell'elaborazione di strategie di sopravvivenza,
senza osare niente più? O che deleghi passivamente la propria salvezza a
un Governo di tecnici, quasi "deus ex machina", con cui prendersela se
la situazione non
cambia secondo le aspettative?
Rifarsi alla storia passata, però, può avere tutt'altro peso. Non per sprofondare nei rimpianti, ma per ritrovare l'evidenza
di alcuni punti di forza, magari fragili ma reali, di cui custodire le energie.
Non per nostalgia, ma per fedeltà a ciò che abbiamo sperimentato come
capace di
portare vita e aprire futuro: storie di cittadini onesti, di
imprenditori e banchieri civili, di politici seri e impegnati. Non per
forza eroi, sicuramente nostri vicini. Storie
che non si possono negare e di cui nulla vieta la possibilità che si
ripetano.
Questa conversione della qualità della memoria va operata
insieme: se ciascuno affronta
i propri disagi ritirandosi in se stesso, non vi è modo di superare la
frammentazione. Appare più promettente rischiare interpretazioni e
riletture collettive della
storia. In questo senso i festeggiamenti del 150º anniversario
dell'unità d'Italia, un'ottima occasione per riconoscere il capitale di
unità e solidarietà
che ci caratterizza, forse non sono stati valorizzati appieno.
I "necessari" sacrifici
Anche se può apparire paradossale, l'immaginario della speranza e
della salvezza è legato a quello dei sacrifici, termine diffusosi in
modo esponenziale in tutte
le riflessioni sul momento che stiamo attraversando. Oltre alle lacrime
del ministro Fornero, ricordiamo il messaggio di Capodanno del
presidente Napolitano: «Lo sforzo di
risanamento del bilancio [...] deve perciò essere portato avanti con
rigore. Nessuna illusione possiamo farci a questo riguardo. Ma siamo
convinti che i frutti non mancheranno.
I sacrifici non risulteranno inutili».
Da tempo sembrava che il termine "sacrifici" fosse stato espunto dal nostro vocabolario,
non senza ragione se li
si intende come privazione fine a se stessa, slegata dalla possibilità
di portare frutti. Se questa fosse la prospettiva, nessuna persona sana
di mente vorrebbe sentire parlare
di sacrifici, né tanto meno farli.
Limitarsi a considerare i
sacrifici come mere rinunce dettate dalla situazione significa ridurne
drasticamente il significato. Il senso
originario di "sacrificio" in realtà rimanda al gesto di "rendere sacro"
qualcosa o qualcuno, sottraendolo all'ordinarietà profana e offrendolo
alla divinità per propiziarla o placarla. Progressivamente il termine è
passato a indicare un atto personale con cui si offre alla divinità
qualcosa di spirituale,
di morale. Poi c'è stata la perdita di riferimento al divino: sacrificio
come offerta di qualcosa di particolarmente importante per un nobile
scopo, per un ideale. Infine,
per un ulteriore scivolamento (e banalizzazione), sacrificio è diventato
sinonimo di rinuncia o privazione.
Nella nostra cultura, questo
percorso semantico è associato
anche a una errata ma diffusa comprensione della fede cristiana, che
lega la salvezza alla massimizzazione dei tormenti o all'accumulo di
sofferenze fisiche o morali per espiare
le proprie colpe o compiacere Dio. Nell'ottica cristiana invece il
sacrificio non è altro che la «forma assunta dall'amore in un mondo
caratterizzato dalla morte e
dall'egoismo» (RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1969, 235) e che dà senso all'esistenza.
Attualizzando
questa prospettiva, i sacrifici che dobbiamo affrontare otterranno il
loro scopo non se ci riporteranno alla situazione in cui eravamo prima
che scoppiasse la crisi, ma se ci permetteranno
di sperimentare e affermare, a livello personale e collettivo, che un altro mondo, un'altra Italia, un'altra economia
sono possibili. La salvezza, almeno nell'immaginario
biblico, è qualcosa che sta davanti a noi, non dietro. Per questo, il
tempo dei sacrifici è anche quello delle riforme, chiamate a realizzare
quel nuovo a cui lo svuotamento
del vecchio (il sacrificio) esige di rimandare per non essere fine a se
stesso.
Certo, resta vero che gli attuali sacrifici hanno anche un
valore strumentale: se non li facciamo
e la situazione precipita, saremo tutti in una situazione ben più
drammatica. Tuttavia l'ottica fondamentale non è quella di
"ripristinare" l'esistente,
ma di aprirci a qualcosa di nuovo, altrimenti possiamo dare per scontato
il progressivo affievolirsi dell'impegno: senza un fine superiore alla
sopravvivenza immediata, non c'è
ragione di addossarsi dei sacrifici.
In questo senso i sacrifici sono "necessari", e non perché sono dovuti a dinamiche macroeconomiche che non dipendono da
noi. Si tratta piuttosto di una "necessità morale", che non è altro che un sinonimo di libertà:
proprio la scoperta di questa "necessaria"
sofferenza, di questa libertà di impegnarsi per un progetto, dà la
chiave di accesso alla speranza. E i primi da cui ce lo si aspetta sono
la Chiesa e i politici.
Non per niente entrambi sono sotto osservazione, la prima per il
trattamento fiscale dei suoi immobili e i secondi per i mancati tagli
alle loro spese: si cerca, anche in maniera
piuttosto aggressiva, di mettere alla prova, di saggiare la loro
coerenza.
L'equità che crea legami
In modo quasi automatico, nell'Italia di oggi, appena si menzionano i sacrifici, appare immediatamente la questione dell'equità, di solito invocata per farsi giustizia
o per chiederla dagli altri. Con un sottinteso: «Tutto va bene, a patto che non sia solo io a compiere sacrifici», quando non, addirittura, «sacrifici sì,
ma per gli altri», magari senza preoccuparsi troppo di coloro che sono vittime di ingiustizie ancora maggiori.
Ma
che cosa significa equità? La risposta in questo
caso è lungi dall'essere condivisa. Diverse sono le prospettive
filosofiche a cui richiamarsi: il liberalismo, la visione procedurale, i
procedimenti argomentativi. Metodologicamente
un riferimento che sembra particolarmente significativo viene dal
filosofo ed economista Amartya Sen; egli sottolinea l'importanza di
«chiarire in che modo dovremmo procedere
nell'affrontare le questioni inerenti alla promozione della giustizia e
all'eliminazione dell'ingiustizia, più che offrire la soluzione delle
questioni concernenti la natura
della perfetta giustizia» (L'idea di giustizia, Mondadori, Milano 2010, 5). Senza negare l'importanza di riflessioni teoriche o cadere nell'efficientismo, Sen sostiene
che non si può non mettere al centro il significato pratico di giustizia, peraltro indefinitamente perfettibile.
Che cosa quindi va considerato equo in tempi di crisi,
e in base a quali criteri e priorità si adottano le politiche? Come i sacrifici, anche l'equità acquista senso compiuto all'interno di un progetto condiviso.
E per quanto siano importanti risanamento del bilancio e discesa dello
spread, una vera via di sviluppo ha le sue basi nella valorizzazione
delle risorse umane e delle relazioni
di cui la collettività nazionale è intessuta. A partire da quelle
fondamentali che legano le parti sociali o le diverse generazioni,
cristallizzatesi in una serie
di istituti rispetto ai quali oggi si ripropone la domanda dell'equità.
Non necessariamente andranno aboliti, né conservati: occorre un nuovo
discernimento.
Come
fa notare l'ultimo Rapporto sulla situazione del Paese del CENSIS: «È nel binomio "più articolazione, più relazione"
che la società
italiana può riprendere un respiro meno attratto dalle ansie quotidiane e
più coerente con l'andamento della lunga durata» (p. XIX). Le
relazioni, le alleanze,
i legami che caratterizzano il nostro Paese, dalle famiglie alle
associazioni, non sono solo una risorsa su cui appoggiarsi per ridurre i
costi della gestione pubblica, ma elementi
da valorizzare per strutturare nuove forme di un vivere comune
sostenibile, articolando in modo nuovo prassi consolidate, ma non più
adeguate alla situazione.
Un Paese generativo
In questa luce affrontare la crisi non significa mettersi in difesa,
ma confrontarsi con una prospettiva generativa. La generatività, che si
contrappone alla stagnazione
come «possibilità di compiere un energico salto verso la produttività e
la creatività al servizio delle generazioni» (ERIKSON E.,
I cicli della
vita. Continuità e mutamenti, Armando Editore, Roma 2003, 71), tiene
insieme storia, speranza, sacrifici e legami generazionali e può
stimolare tanto l'intelligenza
quanto l'affettività. Del resto,
generare è una dinamica umana intrinseca,
non un imperativo estrinseco, e per questo risulta un'avventura
affascinante, capace
di mobilitare e anche - come sanno tutti coloro che sono, in tanti modi,
genitori - di far affrontare sacrifici senza sentirne il peso.
Generare,
con tutta la fatica che questo
comporta, è insieme un comportamento, un valore (la preoccupazione di
offrire e trasmettere ciò che di meglio si produce) e un atteggiamento
nei confronti della vita
(il riconoscimento di essere un anello all'interno della sequenza
generazionale). E
implica la fede nel fatto che l'impresa umana valga la pena di essere vissuta, cosa quanto
mai fondamentale nel nostro contesto apparentemente sterile e schiacciato sul presente.
L'obiettivo
è superare la divaricazione tra le reali possibilità del Paese
e la sterilità delle dinamiche politiche e istituzionali, per costruire
relazioni e trarre ispirazioni, così da elaborare, in modo processuale e
cooperativo, un sapere
comune, capace di immaginare pratiche e delineare politiche su basi
concrete e non ideologiche. La sfida è connettere e ricomporre coloro
che sono interessati alla "generazione
di valore" (economico, istituzionale, relazionale, sociale), mettendo in
relazione le iniziative che vengono dal basso, attraverso singoli e
gruppi, e superando le contrapposizioni
che da tempo bloccano il Paese: tra destra e sinistra, tra pubblico e
privato, tra cattolici e laici, tra locale e globale, e così via.
In realtà,
ascoltando
con attenzione la società italiana, non sono pochi i fermenti in questa direzione,
capaci anche di suscitare eventi sorprendenti, come gli esiti delle
consultazioni elettorali
e referendarie del 2011. Per ascoltare tutto questo, sono interessanti
iniziative come quella dell'Istituto Luigi Sturzo di Roma: insieme alle
forze più varie, ha messo in
piedi un «archivio della generatività italiana» che raccoglie storie di
coloro che «lavorano per interpretare e far riemergere lo slancio vitale
e la fibra
morale dell'Italia» delineando «l'ispirazione, le linee e gli strumenti
di una politica generativa» (<
www.generativita.it>).
Tutte
queste esperienze di
generazione che anche oggi sono in corso nel nostro Paese, nonostante la
pesantezza del clima, ci ricordano quale può essere la chiave per far
uscire l'Italia dal paradosso
di avere disperatamente bisogno di un'idea di sviluppo, senza che
nessuno paia in grado di dargliela.