Il variegato mondo dell’immigrazione è stato investito dalla pandemia in molti modi, alcuni più evidenti e riconosciuti, altri rimasti sotto traccia. Vale anzitutto una constatazione generale: il coronavirus e il confinamento hanno colpito più gravemente chi già era fragile, povero, socialmente marginale. A maggior ragione chi non gode neppure di un permesso che lo renda visibile e tutelabile. Il primo e più urgente aspetto, emerso all’evidenza pubblica soprattutto per le pressioni del mondo agricolo, ha riguardato la proposta di regolarizzazione del soggiorno degli immigrati che lavorano in quel settore. Le associazioni di categoria si sono espresse a favore, evento raro nei dibattiti italiani sulle politiche migratorie.
Regolarizzare per proteggere
La proposta sosteneva una scomoda ma inaggirabile verità: quest’anno mancheranno le braccia per raccogliere la frutta e gli ortaggi della nostra agricoltura. I 18mila immigrati stagionali autorizzati negli scorsi anni dai decreti-flussi, anche sotto la gestione Salvini, quest’anno non si vedranno. Per il momento [scriviamo a metà maggio 2020 N.d.R.], gli immigrati disoccupati ma residenti non si possono spostare in una Regione diversa da quella di appartenenza, né probabilmente vorranno farlo, né è opportuno che lo facciano. Gli italiani coperti dal reddito di cittadinanza non sembrano ansiosi di prendere la via dei campi. Non la prendevano prima del 2018, non si vede come spingerli a farlo ora. Quindi dove non sono arrivati gli afflati umanitari, è faticosamente e parzialmente passata la considerazione dei nostri interessi: quei prodotti agricoli vanno raccolti da qualcuno, per remunerare i produttori e per rifornire le nostre tavole. E se i lavoratori avranno un titolo di soggiorno, potranno rivendicare un contratto e i relativi diritti. O almeno si può lavorare per quell’auspicabile obiettivo.
Vari appelli, come quello dell’ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), quello dei sindacati confederali e quello proposto dagli economisti Tito Boeri e Leonardo Becchetti avevano tentato di allargare la prospettiva, proponendo la regolarizzazione non solo dei lavoratori agricoli, ma pure degli altri, anch’essi più che mai esposti di questi tempi a precarietà e sfruttamento. Sono stati inclusi soltanto i lavoratori, principalmente donne, che lavorano presso le famiglie italiane, soprattutto nel settore dell’assistenza agli anziani fragili. Nelle precedenti sanatorie (2002, 2009, 2012) avevano già avuto un ruolo preponderante.
Già questi appelli cercavano di proporre una più ampia visione: in tempi di pandemia, sarebbe saggio estendere l’emersione a tutti gli stranieri che si trovano sul territorio nazionale, in modo da poterne monitorare le condizioni di salute e fornire assistenza in caso di bisogno. Per legge infatti gli immigrati irregolari hanno diritto soltanto alle cure mediche “urgenti e necessarie”.
Questa posizione è stata assunta in modo esplicito dal CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro). Le parti sociali che lo compongono, insieme a esperti e organizzazioni del Terzo settore, hanno convenuto sulla proposta di una misura di emersione universalistica, al fine di tutelare le condizioni di salute dell’intera popolazione, italiana e immigrata. La circolazione di persone non controllate, per definizione indotte a sottrarsi al rapporto con le istituzioni pubbliche, è un rischio da scongiurare.
Qualcuno ha obiettato: si offusca il principio di legalità. Può essere, ma vi sono momenti di emergenza in cui la politica deve decidere tra valori in contrasto, scegliendo quale sia quello da tutelare maggiormente. Mentre osserviamo quanto sia difficile sconfiggere, o anche solo ridurre in modo decisivo l’impatto della COVID-19, salvaguardare la salute di tutti è un obiettivo prioritario.
Un’altra possibile soluzione potrebbe consistere in espulsioni di massa. Ma queste non sono mai riuscite, neppure in tempi più normali: nel 2018, con Salvini alla guida del Ministero degli Interni, non hanno raggiunto le 7.000 unità. È improbabile che si possa attuarne di più ora, con gli aeroporti chiusi e i Paesi di origine, ammesso che si riesca a individuarli, ancora meno disponibili ad accogliere gli immigrati espulsi. Siamo quindi in una situazione in cui la clemenza è la migliore delle soluzioni possibili, nel nostro stesso interesse. Con il Decreto Rilancio, però, la politica ha preferito adottare una misura ristretta e condizionata alla volontà di assumere da parte dei datori di lavoro. Presumibilmente si è lasciata spaventare dall’idea di fornire un facile argomento alla macchina propagandistica xenofoba, oltre a dover pagare un prezzo alle pulsioni anti-immigrati del populismo a cinque stelle.
La componente immigrata dei lavoratori “essenziali”
Un secondo aspetto è invece rimasto sostanzialmente nell’ombra. Anche a motivo della ricorrenza del 1° maggio, in queste settimane sono stati più volte ricordati i lavoratori giustamente definiti “essenziali” che hanno assicurato servizi di vitale importanza per il funzionamento minimo delle città, per la continuità dei loro servizi irrinunciabili, per l’approvvigionamento di cibo e altre merci di prima necessità. Lavoratori spesso umili, malpagati, dall’occupazione precaria se non addirittura irregolare.
I riflettori però non si sono accesi compiutamente sulle origini di questi lavoratori, su quanto cioè tra i lavoratori essenziali incida la componente di origine immigrata. Se complessivamente gli immigrati rappresentano il 10,6% dell’occupazione regolare del nostro Paese (in cifre, 2,45 milioni), il loro lavoro è ancora più determinante proprio nei settori cruciali per la vita quotidiana della società e nei lavori manuali che li sostengono. Abbiamo già richiamato il settore agricolo, dove incidono per il 17,9%, senza contare l’occupazione non dichiarata. La stessa percentuale vale per i servizi alberghieri. Ma il dato s’impenna in quelli che l’ISTAT definisce «servizi collettivi e personali»: 36,6%, in cui rientrano le assistenti familiari, dette riduttivamente badanti, ma anche altre categorie non adeguatamente riconosciute: in molte Regioni, per esempio, gli addetti alle mansioni ausiliarie della sanità e dell’assistenza residenziale. Vengono giustamente ricordati i medici in prima linea (19mila di origine straniera, alcuni dei quali caduti nell’esercizio del loro dovere per la pandemia), spesso gli infermieri (in Lombardia uno su tre è immigrato), ma se gli ospedali e le RSA funzionano è anche grazie al lavoro seminascosto degli operatori di base, che pure si sono esposti al rischio di contagio per attendere ai loro compiti. Pulizie, magazzini, trasporti sono altri settori a elevata incidenza di lavoro immigrato: di tutti stiamo scoprendo la necessità, la scarsa visibilità pubblica, le modeste ricompense. Non sempre scopriamo però l’origine di chi li svolge o, se si vuole, il colore.
Negli Stati Uniti, un rapporto del Center for Migration Studies di New York uscito il 1° maggio ha reso noto che gli immigrati stra- nieri forniscono 19,8 milioni di lavoratori ai settori strutturalmente essenziali, concentrati proprio negli Stati più colpiti dalla pandemia. Sono per esempio il 33% dei lavoratori della sanità nello Stato di New York e il 32% in California: «Nel mezzo della pandemia e nei luoghi in cui sono più necessari, gli immigrati stanno lavorando per fermare la diffusione del COVID-19 e per sostenere i loro concittadini statunitensi, spesso con grande rischio personale – ha dichiarato Donald Kerwin, direttore esecutivo del Centro. Questi stessi lavoratori saranno essenziali per la ripresa economica. Meritano il nostro sostegno e la nostra gratitudine»
La situazione per molti di questi lavoratori è fluida e sospesa nell’incertezza: molte colf e assistenti familiari sono state sospese dal lavoro o licenziate, con effetti che si ripercuotono sulle loro famiglie che, in molti casi, rimaste nei Paesi di origine, attendono l’invio delle rimesse per tirare avanti. Solo nel decreto di fine aprile si è parlato finalmente di una sorta di cassa integrazione (minimale) anche per loro. In altri casi si ha invece avuto notizia di contratti regolari finalmente stipulati, per consentire alle colf di raggiungere le case dove prestano il loro lavoro. In altri casi ancora il confinamento ha fatto esplodere la domanda di lavoro, anche se non sappiamo per quanto: giovani rifugiati e richiedenti asilo stanno trovando qualche opportunità finora negata di occupazione come fattorini, rider, addetti ai magazzini. Persino i più stigmatizzati e malvisti ci stanno dando una mano. Dimostrando ancora una volta che il benessere della società non è in antitesi con un’accoglienza intelligente.