Il Convegno ecclesiale nazionale di Firenze può essere il punto di partenza di processi che, rielaborando le prospettive aperte da papa Francesco, sostengano la Chiesa nel compito di offrire oggi, in modo libero e profetico, il proprio contributo alla società italiana.
«Il tutto è superiore alla parte» è uno dei quattro principi che l’esortazione apostolica
Evangelii gaudium (EG, nn. 234-237) di papa Francesco (2013) propone per rinnovare il modo in cui la Chiesa universale compie la propria missione di evangelizzazione. Che cosa significa per quella italiana? Dal 9 al 13 novembre si riunisce a Firenze
il quinto Convegno ecclesiale nazionale, che potrà rappresentare l’occasione per leggere i segni del nostro tempo e “aggiornare” lo stile e il modo di essere Chiesa in Italia.
Dopo una rapida presentazione dell’appuntamento fiorentino, in particolare della traccia per la sua preparazione, proveremo a far emergere come le prospettive introdotte da papa Francesco – l’immagine della realtà e della società, il rapporto con i poveri e la terra, la direzione in cui si concretizza il ministero profetico – possono rappresentare provocazioni feconde per la Chiesa italiana e la sua presenza all’interno e al servizio della società.
Verso il Convegno: le domande aperte
Il Convegno di Firenze è il quinto di una serie di appuntamenti all’incirca decennali che hanno scandito il percorso di attuazione del Vaticano II nel nostro Paese. L’11 ottobre 2013, non a caso anniversario dell’apertura del Concilio, mons. Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino e presidente del Comitato preparatorio del quinto Convegno ecclesiale nazionale, rivolge alle Diocesi italiane un
Invito al Convegno, annunciando il tema scelto per «orientare la vita della Chiesa in Italia»: «In Gesù Cristo un nuovo umanesimo». L’
Invito sollecita a riflettere su «quel “di più” che rende l’uomo unico tra i viventi» per dare una risposta alla «crisi antropologica» odierna: «un mondo provato da un individualismo che produce solitudine e abbandono, nuove povertà e disuguaglianze, uno sfruttamento cieco del creato» (p. 9). Così, a partire dalla fede, «La speranza è di rintracciare strade che conducano tutti a convergere in Cristo, che è il fulcro del “nuovo umanesimo”» (p. 14), riprendendo la prospettiva cristocentrica del Concilio e in particolare della costituzione pastorale
Gaudium et spes.
L’attenzione, anche sulla scia dello stile di papa Francesco, è rivolta al “concreto”: non si intende sviluppare un dibattito teologico, ma coinvolgere le Chiese locali fin dalla base. In risposta all’
Invito, esse hanno raccolto contributi esperienziali e buone pratiche, a partire da cui è stato elaborato un testo più articolato:
In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Una traccia per il cammino verso il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale (in <
www.firenze2015.it>, d’ora in poi
Traccia, pubblicata a novembre 2014). Il testo è stato rilanciato alle Chiese locali come stimolo a un coinvolgimento diffuso: «Non si tratta, quindi, di disegnare in astratto i termini e i confini di un “nuovo umanesimo”: si sceglie invece di partire dalle testimonianze che sono esperienza vissuta della fede cristiana e che si sono tradotte in spazi di “vita buona del Vangelo” per la società intera» (
Traccia, p. 7).
L’obiettivo è permettere a queste esperienze di «dialogare col mondo e illuminare il buio dello smarrimento antropologico contemporaneo con la loro luce: non si fa esperienza di vita buona solo per se stessi, ma anche per gli altri e per il mondo intero» (
ivi, p. 24). Per questo è necessaria un’analisi del contesto socioculturale del nostro Paese, che evidenzia una «frammentazione ormai insostenibile» (
ivi, p. 52), di fianco a «persistenti tracce di una dignità avvertita come inalienabile» (
ivi, p. 21), a «un enorme bisogno di relazione», percepibile «nella comunicazione permanente e globale della rete, nella frenesia della condivisone immediata degli eventi e nel diffondersi contagioso delle emozioni» (
ivi, p. 27). Da qui la domanda che sembra abitare la
Traccia: «Come sarà possibile rigenerare questi legami costitutivi per dar voce al desiderio di riconoscimento, unità e comunione della famiglia umana?» (
ivi, p. 25).
La ricerca della risposta è il compito affidato al Convegno e alla Chiesa italiana per mezzo di un discernimento comunitario di un corpo non clericale, in cui ogni battezzato, le famiglie e le aggregazioni ecclesiali sono soggetti responsabili e docili all’azione dello Spirito. Questo discernimento è
chiamato a diventare «stile ecclesiale» (
ivi, p. 43).
La
Traccia suggerisce anche cinque vie concrete di umanizzazione, espresse da altrettanti verbi: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. Questi «non si accostano semplicemente l’uno all’altro, ma si intrecciano tra loro e percorrono trasversalmente gli ambienti che quotidianamente abitiamo» (
Traccia, p. 46). “Uscire”, termine chiave del vocabolario di papa Francesco, riceve però una particolare evidenza, poiché «racchiude in qualche modo anche tutti gli altri», come ha rimarcato mons. Nunzio Galantino, segretario generale della CEI, aggiungendo: «L’uscire, perciò, non è una mera strategia, ma è un’esperienza costitutiva dell’esistenza del credente» (
In Gesù Cristo il nuovo umanesimo, senso e percorso, Fiesole, 8 ottobre 2015, <
www.nunziogalantino.it>).
Francesco: un contributo che “aggiorna” il Concilio
Se il titolo del Convegno di Firenze ripropone un tema classico, l’umanesimo, la
Traccia lo articola prestando attenzione ad alcuni stimoli innovativi del magistero di papa Francesco. Si tratta di una intuizione feconda, da assumere però in pienezza nell’impianto oltre che nel lessico, anche tenendo conto che la predisposizione della
Traccia non ha potuto avvalersi dell’enciclica
Laudato si’, pubblicata successivamente. La lettura combinata di
Evangelii gaudium e
Laudato si’ offre spunti molto incisivi anche per riprogettare la presenza della Chiesa nella società italiana. Nel tratteggiarne alcuni, emergerà come la proposta di papa Francesco rappresenti un significativo “aggiornamento” di alcune intuizioni conciliari:
quanto più il tempo passa, tanto più il riferimento vitale al Concilio passa dal piano di contenuti e categorie teologiche a quello di un metodo – il discernimento dei segni dei tempi e l’aggiornamento –, che resta capace, in un contesto ormai significativamente mutato, di condurre a nuove elaborazioni, anche della comprensione di chi è l’uomo e del rapporto tra Chiesa e società.
a) Unità, singolarità e pluralità
A più riprese papa Francesco ha affermato che la figura adatta per rappresentare la realtà in modo fedele alla complessità radicale che essa oggi esibisce è
il poliedro, significativamente opposto alla sfera. Di quest’ultima viene sottolineata l’astrazione omogeneizzante: tra i punti della sua superficie non vi sono differenze, nessuno ha una identità individuabile e sono perfettamente interscambiabili, tanto che la sfera rimane identica da qualunque prospettiva la si guardi. Il poliedro invece «riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» (EG, n. 236):
pur avendo la sua unità, ciascuna delle facce mantiene la concretezza della sua individualità e l’aspetto dell’insieme dipende dal concorso di tutte. A differenza della sfera, il poliedro, specie se irregolare, non può essere colto in modo adeguato da un unico punto di vista e in questo senso possiamo dire che non si presta a una sintesi.
Dobbiamo riconoscere che la nostra cultura, in modo spesso automatico e inconsapevole, ha rappresentato con
l’immagine della sfera la realtà e tutti i suoi ambiti, e spesso continua a farlo. Si
enfatizza così il ruolo del centro, che illumina il solido intero, ne è metro e misura, mentre tutto il resto è inevitabilmente periferico. Questo contribuisce a spiegare tante pagine, spesso dolorose, della nostra storia: dall’eurocentrismo a quell’antropocentrismo deviato che – afferma la
Laudato si’ – ha ridotto la nostra casa comune a un immondezzaio (cfr LS, n. 21), fino alla lunga diatriba su quale sia la disciplina a cui compete fornire la sintesi e la prospettiva unificante: tocca alle scienze esatte, a quelle sociali, all’economia, alla tecnologia, se non alla filosofia o alla teologia?
L’immagine della sfera è connaturale all’idea di cristianità o cattolicità: il riferimento a Dio, fondante per i credenti, porta a mettere l’istituzione ecclesiale al centro – papa, vescovo, parroco o comunità ecclesiale: è questione di scala –, in una posizione da cui può giudicare la struttura anche sociale e politica, o a collocare al centro dell’orizzonte delle scienze il sapere della fede (la teologia). Questa idea è ancora alla radice dell’impianto della
Gaudium et spes, in particolare nell’articolazione tra la prima parte (l’esplicitazione dell’antropologia cristiana) e la seconda, che affronta alcune questioni concrete (famiglia e matrimonio, cultura, vita economico-sociale, politica e comunità internazionale), proponendone una regolazione dottrinale fondata sulla prima parte: il singolare (cultura, popolo, lingua) non è oggetto di attenzione. Siamo in un universo omogeneo e unidimensionale, al cui centro si trova una dottrina antropologica teologicamente fondata.
Risulta evidente la differenza tra questa impostazione e
la logica poliedrica, che punta a rintracciare i legami e i nessi per articolare ciò che è disomogeneo a diversi livelli (dal più locale al più globale) e nei diversi ambiti (dal più materiale al più spirituale). Ad esempio, la
Laudato si’ respinge con forza l’idea che le soluzioni alla crisi socioambientale possano venire «da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà» (LS, n. 63), che è la tecnoscienza: occorre invece ricorrere a tutta la gamma dei saperi umani, comprese arte, spiritualità e saggezza religiosa, senza che nessuno possa pretendere il ruolo che il paradigma tecnocratico dominante affida alla tecnoscienza. Anche il dialogo tra la Chiesa, la filosofia e le scienze produce una pluralità di sintesi (al plurale!), tra le quali immaginare non una gerarchia, ma un’articolazione poliedrica.
Siamo ben lontani dal relativismo: non si rinuncia ai principi, né tanto meno al riferimento teologico e cristologico (cfr LS, cap. II), ma questi raggiungono le singolarità di cui la realtà si compone rispettandone l’originalità secondo la logica tridimensionale del poliedro. Ciascuna delle sue facce, infatti, è abitata da un legame unico e peculiare, più o meno esplicito, con il Creatore e la ricchezza del Vangelo.
b) Il Vangelo dei poveri
Questo cambiamento di prospettiva schiude a una nuova comprensione dell’invito a “uscire” che il Papa continua a rivolgere alla Chiesa, indirizzandola verso le periferie e verso i poveri, tra cui dobbiamo ora includere anche «la nostra oppressa e devastata terra» (LS, n. 2). A differenza della sfera, infatti, ciò che vediamo del poliedro cambia a seconda della prospettiva da cui lo osserviamo. La scelta del punto di vista è dunque cruciale per la comprensione della realtà.
L’invito di papa Francesco è a collocarsi nel posto che Dio ha scelto per stare dentro la storia: dalla parte dei poveri, degli oppressi, degli stranieri, degli orfani e delle vedove. A loro, in modo preferenziale, è diretto il lieto annunzio del Vangelo. È la ineludibile dimensione sociale dell’evangelizzazione (cfr EG, cap. IV), di cui,
aggiornando il Concilio, si esplicita la dinamica bidirezionale: sulle orme di Cristo, la Chiesa si dirige verso i poveri poiché «tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali» (EG, n. 180),
e, facendolo, scopre come sono i poveri a evangelizzarla: «È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze» (EG, n. 198). Va sottolineato che i poveri portano il Vangelo alla Chiesa in quanto poveri, a prescindere dalla fede che eventualmente professano: è l’esperienza della beata Teresa di Calcutta, che riconosceva il volto di Cristo nei poveri che serviva, in larghissima maggioranza nemmeno battezzati.
Per questo il primo passo dell’evangelizzazione non è dell’ordine del fare, ma del ricevere: è l’ascolto dei poveri (EG, n. 187), dei popoli poveri (EG, n. 190) e della terra (LS, n. 2). Per coloro che sono contagiati dalla cultura dello scarto – Chiesa e cristiani compresi – l’antidoto è il Vangelo degli scartati.
c) Compito profetico
In questo quadro si colloca anche l’esercizio del compito profetico della Chiesa e dei cristiani:
oggi è profezia promuovere il confronto e l’articolazione tra ciò che è plurale, prendere con coraggio la parola contro ogni tentativo egemonico, ogni pensiero unico, ogni interpretazione riduttiva e omogeneizzante dell’essere umano, della realtà, dei processi e delle dinamiche sociali. Sono questi i muri e gli ostacoli oltre i quali si leva lo sguardo del profeta per indicare passaggi che il suo occhio scorge là dove gli altri vedono pareti senza aperture. Con chiarezza papa Francesco riconosce che resistere ai riduzionismi «è un modo di agire difficile da portare avanti oggi» (LS, n. 110).
Il compito profetico comprende anche l’elaborazione vissuta di alternative: «uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico» (LS, n. 111). In questa chiave va letta l’insistenza sull’importanza delle pratiche e dei gesti quotidiani: prima che una soluzione a un problema, sono un modo per testimoniare una visione del mondo e consolidare processi che producono significati umani e umanizzanti e li proclamano. Per questo tutti coloro che li mettono in atto, a prescindere dalla loro collocazione ecclesiale, svolgono un ruolo profetico: non a caso papa Francesco definisce profetico il Vertice della Terra svoltosi nel 1992 a Rio de Janeiro (cfr LS, n. 167).
La Chiesa italiana come risorsa
Il Convegno di Firenze può costituire l’occasione provvidenziale in cui
la Chiesa italiana inizia a declinare in un nuovo paradigma il proprio impegno per gli uomini e per le donne, le proprie pratiche di umanità e proposte di umanizzazione, e si cimenta con la sfida di pensare l’Italia come un poliedro irregolare, alla ricerca del suo ruolo come una delle facce che lo compongono. Se prendiamo sul serio il concetto che «Il tempo è superiore allo spazio» (EG, n. 222), ci rendiamo conto che non si tratta di un compito che si può assolvere una volta per tutte, ma di
un impegno dinamico da portare avanti nel tempo, aprendo processi e non occupando spazi: «Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (EG, n. 233).
Entrare in questo nuovo paradigma significa probabilmente
liberarsi dell’affanno della sintesi e della prospettiva unificante a tutti i costi, per cominciare a rivolgere l’attenzione ai legami, ai nessi, agli snodi che tengono insieme una realtà composta da facce tanto disomogenee e percorsa da tante fratture. Ad esempio, a partire dal proprio radicamento diffuso, quale contributo la Chiesa italiana può offrire per tenere unita la prospettiva del Nord e quella del Sud del Paese, che gli esiti della crisi hanno ulteriormente divaricato? Quali risorse può mettere a disposizione, ad esempio in termini di pratiche concrete di welfare di comunità, per coniugare i bisogni dei più fragili con i vincoli del bilancio pubblico? Quali testimonianze profetiche può rendere in materia fiscale per aiutare il Paese a riscoprire il legame tra tassazione e dovere di solidarietà?
Partecipare allo sforzo condiviso di costruire alternative portatrici di un più ricco carico di umanità significa per la Chiesa mostrare «come le convinzioni di fede offrano ai cristiani […] motivazioni alte per prendersi cura della natura e dei fratelli e sorelle più fragili» (LS, n. 64), in altre parole
mettere in gioco i propri talenti e rendere l’ispirazione della fede presente all’interno dei processi sociali. Quanto più queste motivazioni risulteranno convincenti anche per altri, a prescindere dalla loro adesione alla Chiesa, quanto più si riuscirà ad ascoltare insieme il grido dei poveri e della terra, tanto più la società italiana lieviterà nella direzione della costruzione del Regno di Dio.
Offrire percorsi di umanizzazione della società italiana non è certo un compito esclusivo della Chiesa.
Due suggestioni ci possono aiutare a mettere a fuoco quale potrebbe essere lo specifico ecclesiale di questo impegno condiviso per reagire alla «crisi» contemporanea, diagnosticata da
Invito e
Traccia, evitando l’autoreferenzialità.
La prima riguarda l’importanza di uno sguardo contemplativo, con cui la
Laudato si’ si apre e si chiude. La contemplazione fa parte del patrimonio di tutte le spiritualità, non solo di quella cristiana, ma viene abitualmente intesa nella chiave dell’interiorità individuale. Senza volerne sminuire l’importanza, oggi abbiamo bisogno di ricollegare l’interiorità al modo di guardare la società e (ri)costruire pratiche sociali di contemplazione. In quanto affermazione radicale del valore del gratuito,
la contemplazione rappresenta un’occasione per apprezzare il valore delle cose e rispettarle con gratitudine, sfuggendo all’ansia tecnocratica di dominarle e consumarle, e una forma di resistenza, profetica e controculturale, alla logica omogeneizzante della massimizzazione del profitto.
Sarebbe un buon servizio al Paese se al Convegno di Firenze la Chiesa italiana si interrogasse su quali pratiche, tempi e spazi di contemplazione (non necessariamente in chiave confessionale) sente di poter offrire. Un primo asse potrebbe riguardare il tema della bellezza, che ampio spazio trova nella
Traccia, anche a partire dalla ricchezza del patrimonio artistico ecclesiale. Un secondo fronte potrebbe invece mettere a tema la gratuità nell’incontro con i poveri. Per fare un solo esempio tra i molti possibili, pensando alla cronaca degli ultimi mesi, in che modo l’ascolto, prima ancora del servizio, di coloro che fuggono dalla guerra e bussano alla nostra porta può diventare una occasione di umanizzazione sia per chi riceve accoglienza, sia per chi la offre – a partire dalle comunità parrocchiali e dalle istituzioni ecclesiali – e per la società del nostro Paese nel suo insieme?
In un sano esercizio di sussidiarietà, queste pratiche di gratuità e accoglienza potrebbero crescere e collegarsi, formando laboratori in cui formulare proposte di bene comune sempre più ricche e articolate, capaci di rappresentare un’alternativa profetica alle molte visioni individualiste e di chiusura oggi in circolazione. Si tratta di tornare a concepire, praticare e proporre anche la politica – tema che nella
Traccia resta piuttosto in sordina – come luogo di umanità e opportunità di umanizzazione, nelle diverse modalità con cui ogni cittadino è attore e responsabile della cura del bene comune.
La seconda suggestione è quella di contribuire ad avviare e sostenere processi di dialogo, su cui tanto insiste papa Francesco. In una società «connotata da relazioni fragili, conflittuali» (
Traccia, p. 52),
gli spazi di dialogo vanno progettati e costruiti, in modo che la dinamica si mantenga franca, aperta e libera da blocchi ideologici, interessi particolari e pregiudizi. Anche laddove «non dispone di soluzioni per tutte le questioni particolari», la cura per la qualità del dialogo deve essere al cuore delle preoccupazioni della Chiesa (EG, n. 241; cfr anche LS, n. 188). Questo vale a maggior ragione quando essa è uno degli attori del dialogo, pretendendo pari dignità con gli altri e offrendo una disponibilità autentica a mettere in discussione la propria posizione. Una Chiesa del dialogo è una grande risorsa per la nostra società.
Infine, nel leggere le dinamiche sociali del Paese, il Convegno di Firenze potrà mettere meglio a fuoco che la Chiesa italiana stessa è un poliedro, piuttosto irregolare. Per papa Francesco è molto chiaro a livello universale. Non si spiegherebbe altrimenti l’insistenza sulla sinodalità come chiave del suo modo di esercitare il ministero petrino. Sarebbe bello allora che il Convegno di Firenze fosse
l’occasione anche per la Chiesa italiana di immaginare e progettare cammini e pratiche sinodali, in cui far confluire e mettere a frutto, nella valorizzazione della loro originalità, tutte le ricchezze e le bellezze di cui è portatrice.