«Le idee che nella mente degli uomini corrispondono alla parola merito, sono, come tutti sanno, infinitamente diverse: esse cambiano d’oggetto, di grado, di scopo, di misura, non solo tra popoli e popoli, ma anco tra classi e classi nella stessa città». Sono trascorsi più di duecento anni da quando l’economista e filosofo Melchiorre Gioia scrisse questa frase in apertura dell’imponente trattato Del merito e delle ricompense; nel frattempo molti altri volumi sono stati dedicati al tema, ma l’osservazione di fondo conserva tutta la sua attualità. Quando si parla del merito ci si imbatte in una pluralità di riferimenti intellettuali, ancor di più se si considerano le sue varie sfumature, da quelle legate alla sua forma verbale, meritarsi, fino alla meritocrazia come visione degli assetti di una società. Come per altri termini sovraccaricati di significati polarizzati nel dibattito pubblico, al punto di divenire bandiere ideologiche, è utile far emergere in che modo viene generalmente inteso, mettendo in luce – passaggio forse ancor più rilevante – ciò che resta nell’ombra e le implicazioni che ne derivano.
È in gioco solo l’impegno personale?
Quando si approfondisce la questione del merito, l’enfasi è generalmente posta sulla motivazione che conduce al conseguimento di determinati risultati. L’aver meritato una promozione professionale, l’assegnazione di una borsa di studio o una nomina, sottintende che è stato riconosciuto e premiato l’impegno personale e il lavoro svolto. Il merito risiede pertanto nel talento che si è messo in gioco e nello sforzo che si è profuso. Implicitamente, quindi, si ritiene che non abbiano influito altri fattori che possano dare un vantaggio ingiusto, come l’appartenere a una certa classe sociale o il far valere la rete di relazioni personali, né abbiano pesato in negativo alcune comuni ragioni di discriminazione, come il genere, l’appartenenza a una minoranza, un’eventuale disabilità. A questo proposito, il filosofo statunitense Michael J. Sandel ha osservato che sta divenendo sempre più diffusa una fede meritocratica: «A partire dagli anni Novanta e ancora oggi, tra i miei studenti sono sempre più coloro che sembrano attirati dalla convinzione che il loro successo sia dovuto a se stessi, il risultato del proprio sforzo, qualcosa che hanno guadagnato» (Michael J. Sandel, La tirannia del merito, Feltrinelli, Milano 2021, p. 63).
Questa prospettiva coglie di sicuro un aspetto importante e corretto, nel momento in cui dà valore all’impegno di chi si spende per conseguire un determinato traguardo, ma il rischio di uno slittamento verso una visione distorta e centrata sulla dimensione individuale è forte. Per evitarlo sarebbe sufficiente chiedersi in che senso i talenti naturali di una persona, che sono associati al merito, possono essere ascritti esclusivamente all’impegno personale. Non si tratta piuttosto di qualità innate che vanno senz’altro coltivate affinché possano dispiegarsi in modo pieno, ma che si possiedono – o si ricevono se ci collochiamo in una prospettiva che li considera come doni – non certo in ragione di una propria decisione o azione?
Anche una più attenta considerazione dell’elemento dello sforzo individuale mostra che la componente personale non può essere scissa da un riferimento più ampio, ossia il contesto familiare, sociale e istituzionale in cui la persona è inserita e opera: vi sono condizioni che rendono più agevole l’impegno del singolo, in alcuni casi addirittura lo sollecitano. In altri, invece, la situazione diviene un freno, al punto da disincentivare gli sforzi individuali. In entrambi i casi, toccherà sempre alla persona decidere se e quanto sforzarsi per conseguire un certo obiettivo, ma i vincoli con cui confrontarsi e le risorse a cui ricorrere non sono uguali per tutti. È allora miope pensare che lo sforzo personale sia solo l’esito di una decisione presa in un contesto ideale o neutro, e, più in generale, ritenere che ciò che è riconosciuto come merito sia ascrivibile solo all’agire del singolo.
Il merito come base della partecipazione sociale?
Integrare questa comprensione più approfondita del merito getta una luce diversa su una narrazione, presente anche in Italia, che si è sempre più diffusa negli ultimi decenni, trovando sostenitori tanto nei discorsi populisti di stampo conservatore quanto nel pensiero liberal del mondo anglosassone, a partire dalle politiche attuate dal presidente Bill Clinton negli Stati Uniti e dal premier Tony Blair nel Regno Unito. Si tratta della cosiddetta meritocrazia, un neologismo che ha avuto un’evoluzione singolare. La parola fu coniata alla fine degli anni ’50 del secolo scorso da Michael Young, un sociologo inglese, per descrivere una futura società distopica, in cui il desiderio di superare le gerarchie sociali fondate sul censo o la nascita si realizza attraverso la valorizzazione del merito. Il nuovo sistema determina però un’altra forma di divisione sociale e, alla fine, di discriminazione, basata sugli esiti dei test di intelligenza: invece che realizzare un ideale democratico, separa l’élite di chi ha un alto quoziente intellettivo da quanti non sono meritevoli. Quello che per Young era un epilogo da evitare, e per questo usava il termine meritocrazia con una chiara valenza negativa, è oggi considerato auspicabile in tanti ambienti, sia politici sia intellettuali. Si prospettano così una comprensione dello Stato sociale fondata non più sui diritti ma sul merito, come sostenuto dal primo ministro ungherese Viktor Orbán in un discorso tenuto a Londra nel 2013, o una concezione della giustizia sociale ancorata proprio alla meritocrazia e non all’uguaglianza.
Anche in questo caso c’è qualcosa di vero, ma anche una serie di interrogativi. Riconoscere le competenze delle singole persone, la coerenza della loro traiettoria personale e del loro impegno è fondamentale quando si tratta di individuare la persona più adatta per ricoprire incarichi pubblici o per svolgere un determinato compito. Ma questa constatazione può tramutarsi in un cavallo di Troia per legittimare diseguaglianze quando si passa dalla valutazione delle competenze richieste, che possono essere oggettivamente individuate, a un’attribuzione di status in senso più ampio, al diritto a ricevere determinate prestazioni o all’accesso a una serie di opportunità. Come ha ricordato papa Francesco: «Se non si cerca una reale uguaglianza di opportunità, la meritocrazia diventa facilmente un paravento che consolida ulteriormente i privilegi di pochi con maggior potere» (Laudate Deum, n. 32).
Se si resta in questa prospettiva, quanti non emergono come meritevoli finiscono inevitabilmente per portare su di sé l’etichetta di chi non ce l’ha fatta. Sono così visti, e spesso finiscono per percepirsi, come responsabili del loro mancato successo, colpevolizzati per il loro fallimento. Oltre che uno spreco di potenzialità, questo meccanismo acuisce la frustrazione e il disagio, spiegando fenomeni di disimpegno sociale da parte degli esclusi, prese di distanza dalle istituzioni e anche esplosioni di rivendicazioni violente.
Queste riflessioni aiutano a comprendere che l’equivalenza tra meritevoli (in base ai risultati raggiunti) e più capaci non ha un fondamento sensato. Come possono i risultati ottenuti (il merito) essere un indicatore delle capacità se non tutti dispongono delle medesime opportunità per motivi che non hanno a che fare con la loro volontà o il loro impegno? Non vi è il rischio concreto di non riconoscere e quindi di non offrire opportunità a persone con enormi capacità, che si trovano però a dover far fronte a ostacoli troppo grandi da sormontare se lasciate sole, ma che potrebbero affrontare con maggiore successo grazie a un sistema di servizi, reti e misure di sostegno?
Quale legame tra l’itinerario del singolo e la vita insieme?
Il riferimento al merito presuppone l’individuazione di criteri che permettano di definirlo e valutarlo. Interrogarsi sui criteri impiegati è allora parte integrante di qualsiasi ragionamento al riguardo. Chi stabilisce che cosa è meritorio e in che modo valutarlo? Chi è il soggetto a cui compete riconoscere il merito e con quali criteri? Queste domande dischiudono la necessità di legare la riflessione sul merito a quella più ampia del senso del vivere in società e alla visione antropologica sottostante. In effetti, il giudizio positivo nei riguardi di certi percorsi o del possedere determinate competenze è soggetto all’evoluzione dei tempi: ciò che è riconosciuto come meritevole è variabile.
Oggi la comprensione largamente prevalente del merito è debitrice della cultura individualista e di quello che l’enciclica Laudato si’ chiama «paradigma tecnocratico», che frammenta la società e si focalizza sulle potenzialità della tecnica senza curarsi appieno dei risvolti etici. Le narrazioni che riscuotono maggiori consensi, nei media ma anche nel discorso politico, accendono i riflettori sull’individuo che emerge a dispetto di tutto e di tutti, come un eroe o un’eroina in solitaria, capace di sovvertire il fato avverso. Per dare più forza a queste storie esemplari si finisce per porre in secondo piano l’apporto ricevuto da altri, come le istituzioni, la società civile, le reti di cui si fa parte, che invece costituiscono una trama vitale per qualunque percorso di crescita personale.
Proprio come è riduttivo leggere il successo di un singolo come frutto esclusivo del suo merito, ignorando il ruolo giocato dalla società nel suo insieme, così sono profondamente ingiuste quelle narrazioni che attribuiscono la responsabilità dei “fallimenti”, personali o di interi territori, unicamente a quanti vi sono direttamente coinvolti. In questo modo assolvono dalle proprie responsabilità coloro che, secondo il dettato costituzionale, avrebbero il compito di promuovere il bene comune, che comprende l’accesso a pari opportunità per tutti i cittadini. Richiamare che “non si riesce da soli”, ma che c’è uno stretto legame tra l’itinerario personale e il contesto in cui si vive, può essere un antidoto sia contro una comprensione riduttiva ed escludente del merito, sia contro un atteggiamento di resa politica e sociale di fronte a quelle disuguaglianze che la nostra Repubblica, secondo il dettato costituzionale, ha il compito di rimuovere per favorire «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, c. 2 Cost.).