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I paradossi dell’agricoltura: un test per la politica

Fascicolo: marzo 2024

Incolonnati lungo le strade di mezza Europa, i trattori sono divenuti il simbolo delle proteste portate avanti dagli agricoltori nelle scorse settimane. La loro mobilitazione ha avuto larga eco a livello informativo, al punto da riuscire a ritagliarsi una visibilità di primo piano anche sul palcoscenico più seguito e mediatizzato del nostro Paese, quello del teatro Ariston di Sanremo.

Se è semplice identificare chi siano i destinatari delle contestazioni, essenzialmente l’Unione Europea e i Governi nazionali, più complesso è indicarne i motivi e le richieste avanzate, anche perché le posizioni di chi protesta sono numerose e frammentate. In generale, sono in tanti a mettere sul “banco degli imputati” l’approccio europeo alla transizione ecologica e le possibili aperture alle importazioni dall’estero. Le critiche vanno soprattutto al Green Deal, varato nel 2020 con l’obiettivo di azzerare l’impatto climatico europeo entro il 2050, che ha influenzato anche la ridefinizione della Politica agricola comune (PAC) per il periodo 2023-2027. Vi sono poi ragioni legate alla debole posizione degli agricoltori nella catena che va dal campo alla tavola, passando per i grossisti e la grande distribuzione. Infine, sono contestate le decisioni di alcuni Paesi a proposito delle agevolazioni fiscali riconosciute agli operatori del settore (ad esempio, in Italia il ventilato venir meno dell’esenzione dall’IRPEF per i redditi agricoli, poi in parte rientrato).

Al di là degli aspetti più tecnici, le questioni sollevate dagli agricoltori e le reazioni del mondo politico al riguardo, senz’altro condizionate dall’ormai prossimo appuntamento elettorale europeo, meritano di essere approfondite adottando una prospettiva particolare. Possono, infatti, essere considerate una sorta di test che mette alla prova l’effettiva capacità delle nostre istituzioni e delle regole politiche ed economiche, in larga parte plasmate nel secolo scorso, di far fronte ai mutamenti di cui oggi siamo testimoni, in primo luogo l’avvento di un’economia globalizzata e l’ampiezza assunta dal fenomeno dei cambiamenti climatici.

 

Un settore produttivo strategico e fragile

Perché l’agricoltura riceve così tanta attenzione da parte della politica? Per quali ragioni un terzo del bilancio dell’UE è destinato proprio al settore primario? Queste domande ricorrenti non trovano una risposta adeguata se ci si ferma a considerare solo gli aspetti economici, che restituiscono l’immagine di un comparto produttivo relativamente piccolo rispetto ad altri. Non basta infatti affermare che circa 8,6 milioni di cittadini europei (poco più del 4% della forza lavoro nell’UE) sono impiegati in questo settore, che rappresenta l’1,4% del PIL europeo nel 2022 (in valori assoluti 215,5 miliardi di euro), per giustificare la scelta di mantenere in vita la PAC, nata negli anni Sessanta, riconoscendole ancora un ruolo fondamentale. Vi sono altre ragioni che vanno richiamate, che hanno un diverso peso specifico e si ricollegano a logiche distinte, ma che aiutano a cogliere la centralità da sempre rivestita dall’agricoltura.

Innanzi tutto, tra le motivazioni vi era – e continua a essere importante – la necessità di assicurare una sufficiente produzione alimentare. Era un aspetto urgente negli anni Cinquanta, quando il trasferimento dei contadini nelle città per lavorare nelle fabbriche aveva assunto proporzioni preoccupanti. Coltivare i campi non dava molte garanzie o prospettive, da qui la scelta dei Governi di intervenire attraverso una politica imperniata sui sussidi ai produttori per incentivarli a continuare le loro attività. Al di là delle intenzioni di chi pensò la prima versione della PAC e di quanti hanno provveduto a riformarla in seguito, qualcosa non ha funzionato come si ipotizzava. La strutturazione attuale delle filiere agroalimentari improntata alla logica del libero mercato finisce, infatti, con il penalizzare i piccoli e medi agricoltori a vantaggio della grande distribuzione e delle multinazionali operative nel mercato di semi, fertilizzanti e fitofarmaci. È significativo in tal senso lo squilibrio nella distribuzione della PAC – circa l’80% del bilancio finisce nelle mani del 20% delle imprese agricole –, così come la constatazione che i redditi degli agricoltori sono ancora inferiori del 40% rispetto ai salari medi dell’UE, pur essendo cresciuti nel corso del tempo, così come sono migliorate le condizioni di lavoro e di vita degli addetti del settore.

Vi è poi una seconda motivazione più squisitamente politica: nei Paesi fondatori dell’allora Comunità economica europea, le persone impiegate nel settore primario erano numerose (ad esempio ben il 40% in Italia), da qui la scelta dei Governi del tempo di assicurarsi il sostegno di questi elettori, che non avevano un’adesione radicata in una forza politica com’era nel caso degli operai, vicini ai partiti comunisti e socialisti. Le percentuali delle persone che lavorano nell’agricoltura non sono più le stesse degli anni Cinquanta, ma resta forte il peso in chiave politica di questa categoria, che dispone di un capitale non trascurabile di esperienza nel difendere i propri interessi nelle sedi in cui vengono decise le sorti del settore.

 

Fare i conti con la questione ambientale

A distanza di anni, e in uno scenario globale mutato, il paradosso dell’agricoltura non è perciò venuto meno: essenziale per assicurare una produzione sufficiente di alimenti – e nella sensibilità odierna l’attenzione si è estesa anche alla loro qualità – e poco redditizia per potersi reggere da sola per la maggior parte dei produttori.

In una logica di libero mercato una soluzione potrebbe essere rappresentata dalle opportunità aperte dalla logistica e dagli accordi di libero scambio, che rendono più facile il commercio internazionale di prodotti alimentari. In realtà, non si tratta di risposte sufficienti per mettersi al riparo dalle incertezze negli approvvigionamenti. Lo mostrano le conseguenze che il conflitto in Ucraina ha avuto sull’esportazione del grano verso l’Africa e i timori suscitati presso i produttori agricoli dell’Europa orientale per l’afflusso di enormi quantità di cereali sottocosto dai campi ucraini. Inoltre, i prodotti alimentari che vengono importati devono rispettare solo in parte gli standard sanitari, sociali e ambientali europei, dando luogo a forme di concorrenza sleale: gli agricoltori esteri possono beneficiare di condizioni produttive più favorevoli e quindi vendere a prezzi più bassi.
La strada delle importazioni a scala globale solleva numerose domande in termini di impatto ambientale e sociale, mentre il rafforzamento a livello locale di un’agricoltura sostenibile in termini economici e ambientali costituisce uno strumento prezioso per evitare lo spopolamento di larghe aree di un Paese, che si traduce anche nel venir meno di interventi di salvaguardia e cura.

Proprio sugli aspetti ambientali oggi sono numerose le faglie critiche per il mondo dell’agricoltura. Nel Green Deal europeo si prevede un forte coinvolgimento del settore agricolo, che nel suo insieme si stima sia responsabile per circa l’11% delle emissioni di gas serra (dati Eurostat del 2022): si chiede ad esempio di ridurre il ricorso ai fitofarmaci e ai fertilizzanti chimici, di prevedere la regolare messa a riposo di almeno il 4% dei terreni coltivati per favorire la biodiversità, di avere un uso più accorto delle risorse idriche. Molte di queste misure sono state contestate in questi giorni e alcune ritirate o riviste a seguito delle proteste, come nel caso della direttiva sull’uso dei fertilizzanti. Resta però un nodo capitale da affrontare: il settore agricolo è da un lato uno dei responsabili dei cambiamenti climatici (pensiamo ad esempio agli allevamenti intensivi di bovini, che sono altamente inquinanti), dall’altro si ritrova a pagarne le conseguenze in modo particolarmente acuto, visto il calo di produzione legato ai continui eventi estremi (siccità, grandinate, alluvioni). Alcune voci del settore ne sono consapevoli e si interrogano al riguardo, rilanciando domande e proposte al mondo della politica.

 

Le responsabilità della politica

Il comparto agricolo è un laboratorio di estremo interesse per la politica, perché diversi elementi entrano in gioco: il rilievo che riveste per il benessere della collettività; l’attenzione a quanti vi lavorano come produttori o dipendenti; l’essere parte di una filiera produttiva più ampia, per di più esposta a molteplici fattori destabilizzanti; gli aspetti ambientali; il tema della qualità del cibo e della tutela dei consumatori.

Di fronte a istanze che sono tra loro collegate, che si condizionano a vicenda e che fanno emergere l’esistenza di conflitti distributivi, i politici sono chiamati a decidere e talvolta a rivedere le scelte compiute in precedenza alla luce del mutato scenario globale. Nel farlo, non possono sorvolare su alcuni interrogativi di fondo, che si pongono per il settore agricolo, ma si ritrovano in maniera simile anche in altri contesti. Basti pensare ad esempio all’annosa vicenda del complesso siderurgico di Taranto, dove entrano in gioco la tutela dei lavoratori, dell’ambiente, della salute dei cittadini e le scelte di politica industriale a livello nazionale. Esplicitare alcuni di questi interrogativi può essere di aiuto per rimettere a fuoco ciò che è essenziale e sgomberare il campo da aspettative infondate rispetto a ciò che può fare la politica.

Se è pacifico che l’azione di governo deve proporsi l’obiettivo di perseguire il bene della collettività, salvaguardando in particolare quanti si trovano in una condizione di maggiore vulnerabilità, come ci ricorda anche la nostra Costituzione, resta aperta la domanda su come giungere alla sua definizione. Chi va interpellato? Quali criteri vanno seguiti per individuare chi va coinvolto, perché portatore di interessi o perché dispone di informazioni o conoscenze che meritano di essere prese in considerazione?
Se non vi è una scelta attiva e consapevole da parte dei decisori politici, la definizione del bene comune da perseguire nel caso concreto corre il rischio di essere esposta all’influenza di quanti gridano più forte o sanno meglio muoversi nelle pieghe dei processi decisionali. I rimedi perché ciò non accada esistono e passano per una comunicazione trasparente, per l’applicazione delle procedure di consultazione che già esistono e per la valorizzazione della pluralità di voci coinvolte.

Il passo successivo è più operativo, e qui gli interrogativi si moltiplicano. Quali strumenti utilizzare per raggiungere l’obiettivo che si è scelto? Chi sarà coinvolto? Quali sono i tempi da prevedere per realizzare gli obiettivi? Come distribuire i costi economici e sociali che qualunque decisione politica inevitabilmente determina? Domande che riecheggiano in tanti casi, tra loro strettamente collegate, che richiedono di volta in volta di confrontarsi con la situazione concreta. Si tratta di individuare ciò che è possibile realizzare da subito e ciò che richiede un tempo più lungo, le risorse su cui si può fare affidamento e quelle che è necessario reperire, i processi che vanno avviati ai vari livelli (normativo, culturale, sociale, economico), le tutele da attivare perché vi sia un bilanciamento equo delle opportunità e delle conseguenze delle scelte intraprese.

Non esistono al riguardo ricette preconfezionate e sicure, valide in tutti i casi. Più chiara è invece la prospettiva che non può essere smarrita da parte dei decisori politici nel momento in cui si confrontano con questioni che mettono in gioco la giustizia distributiva, quando cioè il conseguimento di un bene comune, come è oggi la tutela dell’ambiente, determina vantaggi per tutti, ma costi più gravosi per una parte della popolazione. Il compito della politica è arbitrare questo tipo di conflitti. C’è una maniera meno sana di farlo – limitarsi a ridurre gli oneri che gravano su alcuni – e un modo più costruttivo: equilibrare la distribuzione dei benefici e degli oneri, individuando meccanismi in grado di trasferire risorse dai molti che hanno vantaggi ai pochi che hanno gli svantaggi. Ritroviamo questa logica nella nascita della PAC negli anni Sessanta, al di là della valutazione delle misure concrete poi adottate: a fronte di un bene comune, il mantenimento di una produzione agricola in Europa, si è scelto di trasferire risorse dalla popolazione generale agli agricoltori in modo da garantire loro un reddito comparabile a quello che avrebbero avuto inurbandosi. Questa maniera costruttiva di affrontare e risolvere le situazioni di diseguale distribuzione dei vantaggi e dei costi sarà feconda se saprà coniugare la gestione del presente, che può prendere pieghe inaspettate rispetto a quanto previsto – possono essere sufficienti un’alluvione o la “rivolta dei trattori” a scombinare i piani –, e la progettazione del futuro, che prende le mosse da ciò che lo ha preceduto senza lasciarsene imprigionare.

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