Giubileo

Fascicolo: novembre 2015
L’inizio ormai prossimo dell’Anno santo della Misericordia (8 dicembre 2015 – 20 novembre 2016) ci rinvia al Giubileo, un’istituzione centrale per il popolo di Israele. Per coglierne il significato secondo la testimonianza biblica e l’esigenza a cui intendeva rispondere, torniamo ai due eventi fondatori della storia del popolo eletto, tra loro strettamente collegati: l’esodo dall’Egitto e l’alleanza sul Sinai, a cui Israele si rifarà continuamente per definire la sua identità e il senso della propria esistenza.


L’esodo e l’alleanza

In Egitto Dio si è rivelato come Colui che gratuitamente ha preso le difese di un popolo oppresso e lo ha strappato dalle mani del Faraone. È quanto esprime Levitico 26,13: Io sono il Signore, vostro Dio, che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, perché non foste più loro schiavi. Ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta. La liberazione dalla schiavitù egiziana, tuttavia, non esaurisce l’intervento di Dio. Dopo essere stati sottratti a una relazione alienante, infatti, occorre essere introdotti in una nuova, liberante, perché solo così si accede a una condizione di vita autentica. È fondamentale infatti vivere relazioni che non mortifichino ma esaltino la nostra persona nella sua dignità e nel suo valore. In altri termini, l’esodo tende all’alleanza. Per questo Israele, liberato da un regime di schiavitù, è sollecitato a entrare in un regime di servizio, facendo alleanza con il Signore.

Aggiungiamo poi che l’alleanza, termine che rimanda all’idea di “legame”, “vincolo”, presuppone l’esodo. Fare alleanza, perciò, è scegliere di legarsi con un partner, è la nascita di una relazione, che inaugura un nuovo modo di esistere e di agire. È questo l’intento di Dio quando era intervenuto in Egitto: prendendo le parti di Israele, aveva fortemente desiderato fare di quella gente il suo popolo (cfr Esodo 19,4). L’alleanza, più che un punto di arrivo, costituisce quindi l’inizio di una storia, che i due partner s’impegnano a realizzare insieme. Ognuno dipende dall’altro nella sua identità e nel suo futuro e si definisce a partire dalla relazione di appartenenza all’altro: il Signore è il Dio di Israele; Israele, a sua volta, è il popolo del Signore. Una tale alleanza si può instaurare solo tra due soggetti liberi, in grado di decidere senza costrizioni di legarsi l’uno all’altro. Per questo l’alleanza conclusa sul monte Sinai presuppone gli eventi dell’esodo: avendo ritrovato la dignità di gente che può camminare a testa alta, gli israeliti possono scegliere liberamente di fare alleanza con il Signore.


Il dono della Legge e il comandamento del sabato

Facendo alleanza, i due partner s’impegnano alla fedeltà reciproca, osservando le clausole del patto che li lega. Nel patto sinaitico tali clausole sono date dalla Torah, di cui le “dieci parole” (Decalogo) costituiscono il documento fondamentale. Il termine ebraico Torah, che traduciamo con “Legge”, include anche il significato di “insegnamento”, “ammaestramento”. Ne risulta che il Decalogo (e tutta la legislazione successiva) contiene l’indicazione della strada da percorrere per conservare e promuovere la libertà e la benedizione ricevute del tutto gratuitamente dal Signore. La Torah, dunque, è la Parola autorevole che Israele deve seguire per non riprodurre la situazione di schiavitù sperimentata in Egitto: Non farete come si fa nel paese d’Egitto dove avete abitato (Levitico 18,3). Per i rabbini, infatti, la Torah fu data a Israele «perché per Dio è stato più facile far uscire gli ebrei dall’Egitto, che l’Egitto dagli ebrei» (DE BENEDETTI P., «Perché la Torah fu data nel deserto», in Humanitas, 48 [1993] 355-361). È difficile sradicare dal cuore degli oppressi la logica del Faraone, che affonda le sue radici nel culto idolatrico della forza, della ricchezza, del proprio interesse. Per questo è indispensabile la Legge come insegnamento fondamentale sulla via da seguire, così da salvaguardare in ogni circostanza la vita e la libertà di tutti.

Quanto detto trova chiara espressione nel comandamento del Decalogo sul sabato, di cui la Bibbia conserva due recensioni (Deuteronomio 5,12-15 ed Esodo 20,8-11). Nella prima il sabato è posto esplicitamente in relazione con la liberazione dalla schiavitù egiziana: sospendendo nel settimo giorno l’attività lavorativa per osservare il sabato, l’israelita afferma di essere libero perché è stato liberato. Anche in Esodo 20,8-11 il sabato è presentato come il giorno del ricordo, ma è collegato al “fare” originario di Dio (Esodo 20,11). L’israelita è chiamato a celebrare l’opera del Creatore, riconoscendo che la sua vita e il suo futuro, alla radice, non dipendono dall’opera delle sue mani.

Deuteronomio 5,12-15

12 Osserva il giorno del sabato per santificarlo, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato. 13 Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 14 ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. 15 Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del sabato.

Esodo 20,8-11

8 Ricordati del giorno del sabato per santificarlo. 9 Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10 ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11 Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.


Oltre che il giorno del ricordo, il sabato è il giorno della condivisione del dono ricevuto. In entrambi i testi (cfr Esodo 20,10 e Deuteronomio 5,14) il comandamento è «rivolto al pater familias perché faccia riposare coloro che dipendono da lui, i figli, i servi, l’immigrato e persino gli animali domestici. Ciò significa che il dono (della vita, della liberazione, del riposo) è veramente ricevuto solo se è a sua volta donato» (BOVATI P., «Significare la vita. Riflessioni sul capitolo primo della Genesi», in JORI A., La responsabilità ecologica, Studium, Roma 1990, 125-126). L’intento del precetto sabbatico consiste dunque nell’articolare il ricordo del dono della vita e della libertà con l’impegno a promuovere la vita e la libertà degli altri. Qui sta la valenza simbolica del precetto del sabato. «Esso suggerisce infatti che la legge “centrale” dell’israelita (cioè dell’uomo secondo la rivelazione biblica) è quella di donare liberamente ciò che ha ricevuto. Per cui fare il sabato equivale a perdonare e guarire, soccorrere e insegnare, comunicare la propria saggezza e il proprio spirito, così che l’altro, sottoposto a schiavitù, viva dell’unico dono che è vita di tutti. In questo senso Gesù, con i “segni” operati il giorno di sabato, non ha trasgredito, anzi ha portato a compimento il senso del comandamento» (BOVATI P., Il libro del Deuteronomio [1-11], Città Nuova, Roma 1994, 68).


Il “sabato” baluardo della libertà: l’anno sabbatico

Il significato profondo del riposo del settimo giorno si ritrova anche in due istituzioni speciali – l’anno sabbatico, celebrato ogni sette anni, e l’anno del Giubileo, celebrato ogni sette settimane di anni (Levitico 25,8), cioè ogni cinquant’anni – che rispondono a problemi ben precisi sorti nella società israelitica dopo lo stanziamento nella terra promessa.

Il libro di Giosuè si sofferma per ben nove capitoli (13-21) a documentare come la terra sia stata distribuita tra le dodici tribù e sia stata divisa tra le famiglie appartenenti a ogni singola tribù. La ripartizione della terra è un dato originario e definisce Israele come popolo di uguali, in cui ognuno ha ricevuto i mezzi necessari per procurarsi da vivere con il proprio lavoro. Questa condizione è stata però ripetutamente messa in crisi dal formarsi in Israele di estese sacche di povertà per cause naturali o guerre. Chi cadeva nell’indigenza non poteva far altro che indebitarsi per poter sopravvivere. Il debitore, trovandosi spesso nella impossibilità di saldare il debito contratto, era costretto a vendere se stesso (come forza-lavoro) al creditore e persino ad alienare la terra di famiglia (i raccolti andavano al creditore). Veniva così a crearsi una situazione senza uscita, in cui il debitore si trovava di fatto condannato a lavorare per sempre per un altro.

Si riproponeva così la condizione di schiavitù sperimentata in Egitto, condizione che contraddiceva la storia originaria di Israele e l’intervento di Dio, minando il fondamento della sua identità. Era perciò necessario elaborare una normativa in grado di eliminare o, comunque, di contenere gli effetti devastanti innescati dal moltiplicarsi dei casi di indigenza e delle successive situazioni di dipendenza definitiva, individuando piste percorribili per salvaguardare la libertà e l’uguaglianza di tutti coloro che risiedevano nella terra di Israele, in primis i più deboli e indifesi. Questa esigenza ha portato all’istituzione dei due “anni santi”.

L’anno sabbatico è menzionato in tutte le raccolte legislative presenti nella Bibbia. La più antica, denominata Codice dell’alleanza (Esodo 20,22-23,19), prescrive che ogni sette anni la terra sia lasciata incolta (23,10-11a). Anche la terra deve usufruire del riposo! Il rispetto e la cura verso di essa includono un’attenzione particolare verso i poveri e persino verso gli animali selvatici, così da permettere loro di trovare il cibo necessario per sfamarsi (23,11b-12). Come si vede, una stessa intenzionalità è all’origine sia del sabato sia dell’anno sabbatico: «preoccuparsi di ciò su cui e di coloro sui quali si ha potere, rinunciando in loro favore a un dominio totale» (WÉNIN A., Le Sabbat. Histoire et Théologie, Bruxelles 1996, 34). Il Codice deuteronomistico (Deuteronomio 12-26), redatto successivamente a quello dell’alleanza, presenta il settimo anno come quello in cui vanno condonati i debiti (15,2) e riacquistano la libertà tutti coloro che si erano venduti come schiavi, non essendo stati in grado di restituire quanto avevano ricevuto in prestito (15,12-14). La motivazione addotta è, come nel caso del precetto del sabato, quella della liberazione dalla schiavitù egiziana: colui che è stato liberato è chiamato a farsi, a sua volta, promotore di libertà.

Deuteronomio 15,1-3.12-15

1 Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione. 2 Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, poiché è stata proclamata la remissione per il Signore. […] 12 Se un tuo fratello ebreo o una ebrea si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo lascerai andare via da te libero. 13 Quando lo lascerai andare via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote. 14 Gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio. Gli darai ciò di cui il Signore, tuo Dio, ti avrà benedetto. 15 Ti ricorderai che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha riscattato; perciò io ti do oggi questo comando.


L’anno giubilare: riscatto integrale

Il Codice più recente, detto Legge di santità (Levitico 17-26), oltre a riprendere la legislazione relativa all’anno sabbatico (25,1-7), introduce la normativa concernente il Giubileo (25,8-17). Quest’ultima stabilisce che ogni cinquant’anni ciascun israelita torni in possesso del campo assegnato alla sua famiglia al momento dell’ingresso nella terra di Canaan. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia (Levitico 25,10). Il cinquantesimo anno è presentato come un tempo di liberazione (derôr), nel quale gli indigenti non solo riacquistano la libertà, ma anche – e soprattutto – i mezzi (le case e i campi) per restare liberi. In questo fiorire di libertà risiede tutto il senso del giubileo. Il termine “giubileo” rende l’ebraico jôbel, che indica il corno di montone, che veniva utilizzato per convocare l’assemblea del popolo. Anche l’anno della liberazione era annunciato con il suono del corno, il che spiega la presenza del termine nel passo del Levitico. San Girolamo, nella versione latina della Bibbia da lui curata, ha reso jôbel con annus iubilaei, sulla base dell’assonanza tra il termine ebraico e iubilum (canto di festa), evidenziando la componente di esultanza e di sollievo vissuta da coloro che intravedevano la possibilità di rifarsi una vita con il giubileo.

Segnaliamo anche il valore simbolico rivestito dal numero cinquanta. Esso evocava un tempo maturo, la pienezza dell’età di una persona, dato che l’arco di tempo cinquantennale rappresentava la durata media della vita. Stabilire il giubileo ogni cinquant’anni significava dare l’opportunità a ogni israelita di poter rivivere, almeno una volta nella vita, l’esperienza di liberazione costituita dall’esodo.

Gli studiosi affermano che, con ogni probabilità, la legge relativa all’anno giubilare non è mai stata applicata. «Ma se è stata mantenuta nel diritto, significa che la sua portata umana e teologica è essenziale. Infatti questa legge impone un limite al dominio umano sulla terra e sugli altri, e difende il diritto dei poveri contro gli inevitabili abusi di potere di cui sono vittime. Di nuovo, questa legge è una legge di libertà: che il potente sia libero nei confronti del suo potere e che il ricco non sia schiavo della sua sete di possesso» (WÉNIN A., ivi, 35).

Nella versione greca del Levitico 25,10 entrambi i termini ebraici jôbel e derôr sono tradotti con aphesis (condono, remissione), scelta che mantiene il riferimento all’affrancamento dei debitori e al recupero dei terreni, prospettando una liberazione più radicale: il riscatto dalla schiavitù del peccato in una ritrovata relazione con Dio.

In questa direzione si muove anche il testo di Isaia 61,1-3, che si apre con la missione di un inviato di Dio di portare il lieto annuncio ai poveri. Essa si traduce nel proclamare la liberazione degli schiavi, affermazione che rinvia al giubileo per la ripresa del verbo qara (proclamare) e del sostantivo derôr (liberazione), ricorrenti in Levitico 25,10. Pertanto l’anno di grazia menzionato da Isaia non può che indicare l’anno del giubileo. Un tempo di liberazione inaspettato, che doveva segnare la rinascita di Israele come popolo dopo la catastrofe dell’esilio a Babilonia, ma anche un tempo di grazia immeritato, dato che la miserevole condizione degli israeliti era considerata la conseguenza drammatica dell’avere abbandonato il Signore (cfr le confessioni dei peccati da parte del popolo in Isaia 59 e 63,7-64,11).

Il testo di Isaia è ripreso da Gesù nella sinagoga di Nazareth, allorché pronuncia il suo discorso programmatico (Luca 4,16-30), dove si presenta come l’inviato di cui parla il profeta. Investito dello Spirito di Dio, proclama e realizza con la sua azione messianica il tempo decisivo della salvezza. Con la sua venuta si rende presente il giubileo definitivo (aphesis, già usato in Levitico e Isaia), che porta a compimento le attese di liberazione suscitate dagli anni santi precedenti. Si tratta di un tempo di grazia, che è primariamente perdono dei peccati e riconciliazione con Dio e con gli altri.


Da Israele a oggi

Promuovere una reale fraternità e una effettiva condivisione all’interno di Israele ha portato alla creazione dell’anno giubilare. Si trattava di tenere conto dei meccanismi che, in situazioni concrete, rischiavano di compromettere l’uguaglianza di tutti i membri della comunità in modo definitivo. È sorta così una normativa che mantiene tutto il suo valore come ideale da perseguire sempre. Al suo cuore vi è la consapevolezza che la vita di ciascuno è segnata da un dono originario e che l’uomo è autenticamente tale in relazioni vissute nel segno dell’uguaglianza e della fraternità.

Collegata a questa dimensione vi è la fondamentale esperienza del perdono, su cui hanno sempre insistito i giubilei indetti dalla Chiesa cattolica a partire dal 1300. Ciò non significa che debba passare in secondo piano la dimensione sociale del giubileo, ma che, se la coscienza delle persone non viene liberata dall’ambizione e dall’avidità, a nulla servono le riforme istituzionali. Al contempo, se il cambiamento a livello personale non si traduce anche in un impegno a cambiare le strutture sociali, allora esso sarebbe sterile, dato che l’incontro con la misericordia di Dio e la promozione di relazioni con gli altri e con la natura, segnate da cura e rispetto, devono andare di pari passo.


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