«Sono venuto qui dalla mia casa nelle isole per costruire una canoa per il mio Paese. Invece abbiamo costruito una canoa con uno scafo debole e che perde, pieno di buchi. Eppure l'abbiamo messa in acqua». Con queste parole si è espresso John Silk, capo della delegazione delle Isole Marshall alla COP28 di Dubai, dopo la pubblicazione della versione finale del Gobal Stocktake1, con la quale si è conclusa la Conferenza. Questa immagine descrive bene il processo che ha condotto a scrivere le parole che mercoledì mattina erano sulla bocca di tutti a Dubai, transitioning away: «attuare una transizione dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050, in linea con la scienza» (art. 28 comma d).
Il riconoscimento del ruolo chiave dell’abbandono delle fonti fossili, per mitigare i cambiamenti climatici, seppure in una forma attenuata rispetto all’espressione phase out che compariva in quattro delle cinque bozze di lavoro del documento, è stato accolto come il principale risultato politico della Conferenza di Dubai. Secondo alcuni, si tratta di una svolta storica, che segna l’inizio della fine dell’era dei combustibili fossili. Altri hanno accolto il documento con scetticismo, rintracciandovi numerose scappatoie per ritardare la transizione. Senza dubbio, la COP emiratina ha avuto il merito di riuscire, per la prima volta nella storia delle COP, a nominare l’elefante nella stanza, i combustibili fossili. È proprio questo, paradossalmente, il motivo che può far sorgere dei dubbi sull’efficacia stessa del processo: perché ci sono voluti 28 anni per identificare la base del problema, già indicata con chiarezza da molto tempo dalla scienza del clima? Questo paradosso consente però di mettere a fuoco i punti deboli e forti delle Conferenze ONU sul clima, e il modo nel quale catalizzano equilibri e tensioni globali.
Anzitutto, emerge una differenza di prospettive. Se per l’Europa e per gli attivisti climatici occidentali la questione centrale è l’uscita dalle fonti fossili, per il Sud globale la questione previa a ogni possibile discorso sulla transizione è la finanza climatica. Quando diciamo “Sud globale” non intendiamo, infatti, soltanto i Paesi più poveri al mondo, ma anche economie emergenti come le Filippine, il Vietnam, l’Indonesia, la Nigeria, e altri ancora. Per loro, il semplice phase out dal fossile, senza un adeguato sostegno finanziario per la transizione, significa ripiombare nella morsa del sottosviluppo. Il “pacchetto finanza” adottato a Dubai delinea un piano di lavoro e riconosce l’importanza della finanza pubblica, come richiesto dai Paesi in via di sviluppo, tuttavia rimanda le decisioni alla prossima COP29 in Azerbaijan. Un discorso analogo vale per il fondo perdite e danni (loss and damage), approvato con grande enfasi il primo giorno della Conferenza: un fondo ancora poco dotato (792 milioni di dollari), basato solo su contribuzioni volontarie degli Stati e senza un accordo che identifichi donatori e riceventi.
In secondo luogo, per comprendere i risultati di Dubai bisogna avere chiaro il carattere interamente politico del processo. L’approvazione di un documento alla COP non rispetta i criteri di maggioranza tipici delle assemblee legislative; dipende dal riconoscimento, da parte della presidenza, di un consenso generale. Il documento finale ha un valore di indirizzo politico per le parti; non deve essere ratificato dagli Stati e non esistono sanzioni per chi non rispetta gli impegni. Tutto il lavoro politico delle COP è volto a costruire un indirizzo comune tra quasi duecento Stati che hanno agende politiche estremamente diverse. Per questo è fuorviante parlare di COP “riuscita” o “fallita”. Più utile è capire come si sono assestati gli equilibri tra gli attori – in un certo senso, le sconfitte e le vittorie diplomatiche –, e dove stiamo andando insieme.
Per l’Unione Europea, è una sconfitta il veto russo sulla candidatura della Bulgaria per la COP29. D’altra parte, è un successo l’avere arginato gli attacchi cinesi contro la carbon tax europea. Ma la vera sfida politica, di lungo periodo, per l’Unione Europea è riuscire a proporsi al mondo come il modello di una società economicamente avanzata e, al tempo stesso, sostenibile. Per un’Europa il cui posizionamento sulle questioni internazionali è spesso di basso profilo, la possibilità di essere riconosciuta come il modello del mondo di domani è la possibilità per riacquistare autorevolezza. Il Green deal è lo strumento per farlo, perciò la sua importanza va oltre i confini dell’Unione. Se la posizione negoziale europea è sopravvissuta al passaggio di consegne tra il socialista Timmermans e il popolare Hoekstra, il quale a Dubai ha confermato gli indirizzi del predecessore, le prossime elezioni europee saranno cruciali per disegnare il futuro del modello di sviluppo basato sul Green deal.
La strategia politica alle COP può rendere possibile un’alleanza improbabile come quella tra due nemici storici come Arabia Saudita e Iran, uniti a difesa del petrolio. È strategico il bullismo di Putin che snobba i negoziati per andare negli Emirati a trattare per il petrolio e riesce comunque a influire sulla COP, senza metterci piede. È strategica l’insistenza della Cina nel voler interpretare la parte di avvocato dei Paesi in via di sviluppo, forse con minore successo rispetto al passato. Il volto migliore della politica delle COP si rivela quando i Paesi dell’AOSIS, cioè i piccoli Stati insulari che lottano per non finire inghiottiti dal mare, riescono ad avere una visibilità che in nessun’altra sede internazionale avrebbero ricevuto.
Un punto sensibile, sul quale occorre riflettere, è la perdita di ruolo della società civile presso i negoziati. Nel caravanserraglio delle 100mila persone accreditate, e stato più difficile, per gli osservatori, accedere alle sale negoziali. Nella sessione plenaria dedicata all’ascolto delle parti della società civile, tre quarti dei delegati degli Stati erano assenti. Se nel 2021 migliaia di manifestanti sfilavano vicino alla sede dei negoziati al Glasgow, a Sharm el Sheik e a Dubai questa possibilità è stata drasticamente ridotta, e probabilmente lo sarà anche l’anno prossimo a Baku. Michael Forst, inviato delle Nazioni Unite sui diritti umani dei difensori dell’ambiente, ha denunciato le persecuzioni – 177 omicidi nel 2022, la maggior parte in America latina – e ha espresso preoccupazione per la repressione dell’attivismo climatico in Europa. L’altro versante è il declino dell’interesse da parte dell’opinione pubblica, e la crescente sfiducia da parte di non pochi attivisti. Dobbiamo intensificare l’azione educativa e la mobilitazione, e insistere con tutti sul fatto che le COP sono l’unico strumento, per quanto imperfetto, per affrontare i cambiamenti climatici. Senza le COP non avremmo avuto l’Accordo di Parigi e il mondo sarebbe ancora peggiore. Da Dubai portiamo a casa un testo che finalmente menziona l’abbandono di tutte le fonti fossili, mentre appena due anni fa quello del solo carbone era stato bocciato. La canoa, come diceva il delegato delle Isole Marshall, è piena di falle ma deve stare a galla. Per la prima volta nella storia, su questa barca ci siamo tutti, amici e nemici, attivisti e petrolieri, poveri e ricchi.
1. https://unfccc.int/sites/default/files/resource/cma2023_L17_adv.pdf