Nel discorso tenuto alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza (14-16 febbraio 2025), il vicepresidente statunitense JD Vance ha chiesto ai suoi interlocutori europei: «Qual è la visione positiva che anima questo patto di sicurezza condiviso che tutti noi riteniamo così importante?» (il discorso integrale è disponibile nel sito <https://foreignpolicy.com>). È una domanda all’apparenza diretta e semplice, posta a metà di un intervento dai toni molto duri, quasi una requisitoria contro l’Europa, accusata di aver tradito i «suoi valori più fondamentali, valori condivisi con gli Stati Uniti d’America». Di sicuro solleva una questione centrale nell’attuale frangente politico, che però si può – e forse si deve – ampliare. Il riferimento alla sicurezza è dovuto al tema dell’incontro internazionale organizzato in Germania, ma oggi è quanto mai necessario interrogarsi su quale sia la visione positiva che anima il sogno europeo. La domanda di Vance può essere considerata retorica, oppure, al pari di ogni domanda pertinente, può essere presa sul serio per non schivare un tema cruciale e scomodo.
Un’Europa in ritirata
Numerosi passaggi del discorso di Vance sono stati commentati e criticati. Pur essendo concreto il rischio di restare rinchiusi nel recinto polemico di temi che sono veri e propri capisaldi della retorica MAGA (Make America Great Again, Rendiamo l’America di nuovo grande), adottata dall’Amministrazione Trump anche nell’attuale secondo mandato, è necessario approfondirli, per discuterne i presupposti e i risvolti. Questo lavoro permette di far emergere le contraddizioni presenti nelle parole di Vance, oltre a rendere evidenti le differenti visioni tra le due sponde dell’Atlantico sul modo di concepire i legami sociali, e offre alcuni spunti per rispondere alla domanda sul sogno europeo.
Nella descrizione di un’Europa in ritirata, Vance si concentra sui valori democratici, in particolare sulla libertà di parola, evocando in più occasioni lo spettro di una censura messa in atto contro gli avversari, «che si tratti del leader dell’opposizione, di un’umile cristiana che prega nella propria casa o di un giornalista che cerca di riportare la notizia». Per suffragare le sue posizioni richiama alcune recenti vicende, non sempre riportate in modo completo e corretto (Boffey D. – Topping A., «‘Thought crime’ and cancelled elections: how do JD Vance’s claims about Europe stand up?», 14 febbraio 2025, in <www.theguardian.com>). In particolare, menziona l’annullamento delle elezioni presidenziali in Romania da parte della Corte costituzionale romena, alcuni episodi giudiziari in Svezia e nel Regno Unito che hanno coinvolto attivisti cristiani, gli interventi per contrastare la disinformazione nei social media. I riferimenti sono europei e recenti, ma il tema dell’opposizione a ogni forma di censura non è nuovo per Vance.
Un discorso di parte
Nel discorso di Monaco, Vance applica queste considerazioni alle formazioni politiche populiste di destra e di sinistra, che ritiene siano “silenziate” in Europa, e accusa l’attuale classe dirigente europea di avere paura dei propri elettori, di aver dimenticato che «la democrazia si basa sul sacro principio che la voce del popolo conta».
Le sue posizioni sono a prima vista riconducibili alla tradizione di pensiero liberale, che è alla base dei sistemi democratici occidentali, ma in realtà si tratta di una ripresa monca di alcuni aspetti fondamentali. In estrema sintesi, se approfondiamo il pensiero esposto da Vance, ci rendiamo conto che la tutela della libertà di espressione di un singolo o di un gruppo sembra non incontrare alcun limite: non certo quello della dignità degli altri membri della comunità civile, né quello della salvaguardia della correttezza dell’informazione, e neanche quello della tutela dei valori fondamentali che sono alla base della vita insieme, che in tanti Paesi europei si fonda sulla risposta democratica ai totalitarismi caduti con la Seconda guerra mondiale o con l’implosione dei regimi comunisti.
Tuttavia, una libertà illimitata non è più davvero tale, perché viene meno lo spazio del dialogo e del confronto in cui trova senso e fondamento il diritto di esprimere la propria opinione. Soprattutto, questa libertà illimitata diventa il paravento ideologico del potere di chi è più forte o ha più mezzi e si erge ad autorità ultima per decidere chi può goderne e chi no. In fondo, lo stesso Vance lo ammette nel momento in cui afferma che la libertà di parola sarà assicurata dal fatto che «A Washington c’è un nuovo sceriffo in città», riferendosi a Donald Trump. Richiama, infatti, una figura che nell’immaginario generale è associata alla legge e all’ordine nel Far West caotico e pericoloso: qualcuno che decide per tutti e su tutto, imponendo la sua agenda, come sta accadendo in questi primi mesi dell’Amministrazione Trump, con la minaccia dei dazi commerciali o il ritiro da organismi e accordi internazionali. Mentre accusa gli europei di temere la democrazia, in realtà li minaccia e li invita ad allinearsi con il più forte sulla base della paura, piuttosto che a fidarsi di un alleato con cui si possono avere differenze di opinione. L’esperienza europea dei totalitarismi ci rende sospettosi nei confronti di questa retorica e, al contempo, consapevoli di quanto fascino possa esercitare sull’opinione pubblica nei momenti di crisi.
Una visione mistificatoria
Vance si appella in più occasioni all’ascolto del popolo da parte dei politici, a prenderne sul serio e rispettarne le preferenze, perché questo costituisce il saldo fondamento delle democrazie. In particolare, si sofferma in un lungo passaggio sulle migrazioni di massa, ritenute la sfida più urgente che i Paesi occidentali devono affrontare oggi e indicate come esempio per antonomasia di ciò che il popolo chiede in questo momento: «Nessun elettore di questo continente è andato alle urne per aprire le porte a milioni di immigrati non controllati, ma sapete per che cosa hanno votato. In Inghilterra hanno votato per la Brexit e, che siate d’accordo o meno, l’hanno votata».
Dietro queste affermazioni si riconosce una lettura semplificatoria e mistificatoria della realtà, che rende di fatto impossibile pensare insieme, per comprendere quanto accade a livello sociale, interpretare i cambiamenti culturali in atto, cercare soluzioni politiche adeguate alle varie questioni sul tavolo. Sostenere, con una frase ad effetto, che nessun elettore europeo ha votato per aprire le porte ai migranti non controllati è una banalizzazione che nasconde la vera questione: quali politiche attuare a livello internazionale e nazionale perché vi sia una «migrazione ordinata e legale», come ha scritto papa Francesco nella lettera ai vescovi statunitensi del 10 febbraio 2025? E ancora, richiamando un altro passaggio della lettera, quale bilanciamento è possibile tra «il diritto di una nazione a difendersi e a mantenere le comunità al sicuro» e la constatazione che «uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate»?
La complessità insita in queste domande è evidente. È la stessa che si constata in tanti altri campi in cui esistono interessi divergenti, in cui è richiesto un lavoro politico di ascolto e mediazione, di confronto e ricerca del bene comune. Tutto ciò non è possibile quando si pensa il popolo come un tutto uniforme e omogeneo, perché lo si riduce alla maggioranza uscita da elezioni sempre meno partecipate: è ciò che accade quando si ritiene che la risicata e inattesa vittoria della Brexit non lasci ferite e strascichi, come se la proclamazione dell’esito del voto cancellasse automaticamente ogni divergenza di opinione. Questo approccio è tipico dei populismi che considerano una parte del popolo come il tutto, o addirittura come il “popolo vero”, che rimane tale anche se dovesse perdere le elezioni. Siamo agli antipodi del fondamento del processo europeo, sintetizzato nel motto dell’Unione Europea “unita nella diversità”, attestazione di una pluralità assunta come valore da custodire e cantiere sempre aperto, in modo che sia vissuta in uno spirito collaborativo e non competitivo.
Un sogno da costruire insieme
Ripercorrere il discorso di Vance ha fatto emergere per contrasto alcuni elementi che hanno contraddistinto la storia del sogno europeo degli ultimi ottant’anni. La scelta per la democrazia e lo Stato sociale, il riconoscimento dei diritti che si unisce all’assunzione dei doveri, la solidarietà tra popoli diversi e amici possono essere ancora inclusi nella visione positiva che anima il sogno europeo?
Noi siamo convinti che la risposta sia positiva, ma tutt’altro che scontata se si considera quanto sta accadendo all’interno dell’UE. È sufficiente pensare a quanto sia fragile lo Stato in vari Paesi; al risorgere prepotente della ricerca di una vetrina nazionale da parte di alcuni politici europei (un esempio evidente è quello dell’organizzazione di vertici tra pochi Stati su un tema fondamentale come la ricerca di una pace possibile per l’Ucraina); alla spinta sempre più accentuata a cercare la tutela dei propri interessi che si traduce, ad esempio, nell’andare da soli a negoziare accordi commerciali con la Cina o nelle decisioni che di fatto stanno progressivamente smantellando il Green Deal europeo, incuranti del futuro.
Dietro a queste scelte c’è una paura. Vance la evoca sostenendo che i politici europei temono i loro popoli. Più realisticamente, è la paura di chi si paralizza di fronte a una realtà complessa, non pensa lucidamente, non si fida più di se stesso e del percorso compiuto, ma dà ascolto a chi alza di più la voce, non osa allentare la presa su quanto ha in mano per preparare ciò che è stato sognato come passo successivo. Nessuna visione positiva potrà mai nascere se si è in preda a queste paure, nessun europeo si entusiasmerà per un progetto imperniato sul sospetto e il timore. Non lasciarsi intrappolare dalle paure, reali o immaginarie, è quanto possiamo chiedere alla nostra classe dirigente e quanto possiamo impegnarci a fare in prima persona. La strada per riuscirci passa dalla fiducia. Non una fiducia cieca, riposta ad esempio nel leader che sbatte più forte i pugni sul tavolo, ma concreta e credibile perché fondata su un’esperienza solida. Tale è per noi europei l’eredità positiva di quanto realizzato in passato: quando abbiamo superato paure e stereotipi, come quelli che separavano francesi e tedeschi, quando abbiamo saputo creare occasioni per guardare al presente e sognare il futuro non da soli ma insieme, allora si sono aperte prospettive inattese.