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Elezioni europee, il futuro in un voto

Il rilievo delle elezioni europee del 26 maggio va oltre la scelta dei membri del futuro Parlamento europeo, perché riguarda l’indicazione da parte dei cittadini del progetto politico su cui modellare l’evoluzione dell’Unione Europea, oggi percepita come distante dai cittadini e in crisi di credibilità.
Fascicolo: maggio 2019

Circa 400 milioni di cittadini europei sono chiamati alle urne, tra il 23 e il 26 maggio prossimi, per rinnovare il Parlamento europeo e la campagna è ormai entrata nel vivo. Da sempre le elezioni catalizzano il dibattito pubblico: il confronto tra i candidati e i partiti realizza una sorta di selezione tra le questioni all’ordine del giorno e le ricette avanzate per darvi una risposta. In questo processo, alcuni temi finiscono per emergere ed essere ritenuti prioritari. Ciò avviene perché sono davvero di maggior rilievo o perché le strategie comunicative e di propaganda attuate in vista del voto riescono a imporli all’attenzione generale. Nel caso delle elezioni per il Parlamento di Strasburgo questa dinamica raramente si è realizzata avendo come riferimento l’orizzonte europeo, molto più spesso è stata invece declinata a livello nazionale. Le elezioni europee sono state spesso considerate dai partiti come un’occasione per misurare il consenso di cui godono, confrontandosi – o scontrandosi in modo polemico – su temi squisitamente interni. Tuttavia il voto europeo di quest’anno segna una discontinuità rispetto al passato, perché un argomento di respiro davvero europeo si impone nel dibattito pubblico intrecciandosi con le questioni proprie dei singoli Paesi: quale progetto politico deve guidare l’evoluzione di questa Unione Europa, percepita come stanca e disorientata, distante dai cittadini, in crisi di credibilità?

Una questione che non possiamo più rinviare

Rispondere a questo interrogativo significa, innanzi tutto, prendere atto di un cambiamento, verificatosi di recente, nel modo in cui si considera il progetto europeo. Fin dalle origini negli anni ’50 con la creazione della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), l’esperienza originale e unica della costruzione della “casa comune” europea è stata caratterizzata dal confronto tra le diverse prospettive e idee sull’assetto da dare alle istituzioni europee, alle modalità del loro funzionamento, agli obiettivi da perseguire. Per lungo tempo il progetto di progressiva integrazione tra gli Stati europei non ha costituito, però, un terreno di scontro poiché la grande maggioranza dei cittadini era favorevole, tanto che in molti Paesi l’adesione all’UE è stata un momento di festa. Si discuteva – e a farlo erano essenzialmente le classi dirigenti e gli intellettuali dei diversi Paesi – sul modo migliore per costruire un’unione salda e solidale tra gli Stati europei, ma non era necessario confrontarsi sul fine perché era condiviso da tutti. Oggi, però, sappiamo che questo ampio consenso popolare – forse acritico e irriflesso – non esiste più e l’integrazione è messa in questione da fasce sempre più ampie di cittadini in quasi tutti gli Stati membri. Da qui deriva l’urgenza di una seria riflessione sull’evoluzione del progetto europeo: sarebbe irragionevole illudersi che un’Unione priva di credibilità e riconoscimento possa esistere ancora a lungo. Su questo punto si registra ormai una ampia convergenza a livello politico e sociale tanto nelle sedi europee quanto nelle capitali degli Stati membri.

 

Oggi la UE è in affanno non tanto sul fronte delle singole misure da adottare, quanto sulla visione politica complessiva, che è essenziale e strategica quando emergono posizioni divergenti tra i Paesi europei

 

Affrontare questo interrogativo significa confrontarsi con le ragioni che sono alla base di questo nuovo modo, più distante e sospettoso, di considerare la UE, evitando però di restare imprigionati in letture parziali. Nei dibattiti politici e nelle analisi di quanti seguono i temi europei, le cause dell’attuale fragilità del progetto di integrazione sono state ampiamente studiate, riconducendole in modo legittimo alla pluralità di crisi che hanno investito le istituzioni europee negli ultimi anni, facendo crescere la sfiducia dei cittadini. Va tuttavia registrato che intorno a queste analisi sono andate formandosi una serie di “narrazioni”, che si sono consolidate e diffuse nel corso del tempo. Ogni narrazione ha il pregio di essere una lettura della realtà con una chiave interpretativa, che aiuta – o dovrebbe aiutare – a comprendere un evento o un tema, indicandone le cause, gli effetti, le possibili vie di uscita. Al contempo bisogna, però, evitare di cadere nell’errore di un’eccessiva e alla fine controproducente semplificazione. Le narrazioni implicano necessariamente una lettura parziale della realtà, in cui alcuni dati sono valorizzati a differenza di altri (e questo dipende dal punto di vista che è adottato); per questo assolutizzarne una significa attribuire a una prospettiva uno status ben più rilevante di quanto sarebbe giusto, finendo per farla coincidere con la realtà intera.

Questo rischio è oggi concreto quando si affronta l’argomento europeo e questo vale sia per chi è favorevole sia per i più scettici. Infatti, le narrazioni sulla UE, sulle politiche realizzate, sulle iniziative adottate sono spesso concentrate su alcuni temi, in particolare l’economia e le migrazioni, che pur costituendo due snodi cruciali dell’agenda politica europea non la esauriscono di certo, a scapito di una visione più ampia e complessiva. Per questo motivo, come Rivista, abbiamo ritenuto prioritario predisporre un dossier (cfr riquadro) in vista delle elezioni europee, senza trascurare i temi centrali nell’attuale dibattito, ma ampliando lo spettro degli argomenti affrontati (come, ad esempio, l’Europa sociale trattata in questo numero).

Il dossier Europa di Aggiornamenti Sociali

Con l’editoriale «Un’agorà per l’avvenire dell’Unione Europea» (dicembre 2018) ha avuto inizio il dossier dedicato ai temi europei in vista delle elezioni del 26 maggio.

I temi affrontati nel corso dei vari numeri hanno spaziato da un primo bilancio della legislatura europea che si sta concludendo (Alessandro Simonato), agli approfondimento sull’economia (intervista ad Alberto Quadrio Curzio di Alberto Ratti), la dimensione sociale (Patrik Vesan e Francesco Corti) e le politiche migratorie (Maurizio Ambrosini). Per dare voce anche ai cittadini europei sono state pubblicate due tavole rotonde: la prima ha visto la partecipazione di persone che conoscono da vicino il funzionamento delle istituzioni europee perché vi hanno lavorato o sono membri del Parlamento; giovani europei; nella seconda sono stati invece alcuni ventenni a prendere la parola per raccontare le loro esperienze e attese riguardo alla UE.

Abbiamo fatto anche attenzione a interpellare più voci, ascoltando non solo gli addetti ai lavori, ma anche i giovani, cresciuti in una realtà europea che non hanno scelto e di cui sono già responsabili. Soprattutto abbiamo ritenuto essenziale offrire alcune informazioni basilari sul sistema delle istituzioni europee, spesso poco conosciuto, e collocare le vicende del processo di integrazione in una prospettiva temporale e spaziale più larga: la risposta che vogliamo dare al futuro della UE non può essere sensata se non tiene conto del percorso compiuto nel corso di questi anni e dello scenario internazionale in cui ci inseriamo oggi.

 

Uno sguardo più attento alla realtà

L’itinerario compiuto nel corso di questi mesi ci ha reso sensibili alla pluralità di posizioni riguardo la UE, soprattutto quelle più critiche che riscuotono un particolare consenso. Le forze politiche cosiddette sovraniste hanno fatto leva sulla situazione economica incerta e sui timori legati alle migrazioni per aggregare consenso intorno alle loro proposte, che spingono a chiamarsi fuori dalla collaborazione internazionale quando non vi è una convenienza immediata e a rinchiudersi nei confini nazionali, ritenuti sufficientemente forti per proteggersi dalle minacce esterne e per garantire la pace e il benessere dei cittadini. La campagna per il referendum sulla Brexit è un buon esempio di quanta adesione possa raccogliere questo mix di paura della globalizzazione, di riscoperta dell’orgoglio nazionale e di desiderio di rivincita da parte di chi è o si sente penalizzato rispetto alle élite. Non sarebbe saggio liquidare queste posizioni come espressioni irrazionali di un voto di pancia. Esse piuttosto portano alla luce un malessere che va ascoltato per potervi dare risposte non demagogiche, anziché alimentare la paura e assecondare l’idea che la soluzione consista nell’edificare muri e costruire esclusione.

In questo senso, la Brexit merita di essere studiata con attenzione anche dal punto di vista comunicativo, considerando in particolare tutto ciò che non è stato evocato durante gli accesi dibattiti in vista del referendum. I silenzi dei due schieramenti sulla questione del confine irlandese in caso di vittoria della Brexit – emersa in modo prepotente nel caotico negoziato con l’UE, a oggi ancora aperto – indicano quanto sia errato dare credito a letture semplificatorie della complessità in cui viviamo. In una campagna referendaria incentrata sui costi e i benefici dell’adesione alla UE contabilizzati in milioni di euro, non vi è stato spazio per le visioni capaci di cogliere in un modo più ampio l’insieme del progetto europeo costruito nel corso di questi decenni e delle conseguenze – non solo economiche – che nel tempo si sono prodotte in ogni Stato.

Queste considerazioni ci portano a guardare con maggiore distacco l’elenco delle recenti e molteplici crisi che hanno colpito la UE, talora intese come una sorta di mesta litania funebre, che decreta la fine del progetto di integrazione sognato quasi settant’anni fa. Malgrado gli scossoni e le previsioni fosche formulate da più parti, l’Unione non è implosa su stessa, ma anzi nel suo insieme la macchina europea non ha cessato di funzionare, adottando nuove iniziative di rilievo come il varo del corpo europeo di solidarietà o prendendo decisioni importanti in ambiti come l’economia circolare, i cambiamenti climatici, lo sviluppo del mercato digitale, la tutela della privacy, giusto per fare qualche esempio. Che cosa significa tutto questo? Stiamo assistendo alla lenta agonia di un pachiderma oppure siamo di fronte a segnali di vitalità di una istituzione e di sensatezza del progetto che la ispira?

La risposta a questi interrogativi passa per un esame più attento della situazione odierna. Gli eventi che hanno maggiormente scosso la costruzione europea fanno capo ad ambiti politici in cui il riparto delle competenze tra UE e Stati membri è indubbiamente complesso, come nel caso dell’economia, o vede prevalere il ruolo degli Stati nazionali su quello delle istituzioni europee (tecnicamente si parla di metodo intergovernativo), come accade per le migrazioni. In questi ambiti, dove possono essere più accentuati anche i contrasti tra gli interessi nazionali, il ricorso al metodo intergovernativo ha finito per favorire la conflittualità tra gli Stati membri invece che la collaborazione a partire dalla sintesi delle necessità comuni. A rendere ancor più delicato l’attuale frangente contribuisce il contesto internazionale: alcuni attori politici globali di primo piano – gli Stati Uniti, la Cina e la Russia – sono oggi ostili al progetto europeo per ragioni diverse e la loro politica internazionale fa leva sugli interessi contrapposti tra gli Stati membri per incrinare l’unità della UE e sminuirne così il rilievo sul piano diplomatico ed economico a livello globale. Una dinamica diversa si sta verificando, invece, nelle aree di azione della UE in cui vi è un ruolo di maggiore rilievo e autonomia della Commissione e del Parlamento
europei
: il cosiddetto metodo comunitario che si applica, ad esempio, al mercato unico, all’ambiente, alla ricerca. Le politiche che ne scaturiscono, pur presentando anche limiti e difetti, assicurano il funzionamento dell’Unione nel suo insieme.

In vista del voto, alcune domande possono esserci di aiuto: quali sono le visioni di Europa in circolazione e su quali principi si fondano? Che spazio concreto è riservato alla solidarietà tra gli Stati e all’interno della società? Chi sono gli inclusi e chi gli esclusi?

Da questa lettura emergono alcuni elementi importanti e tra loro interconnessi per rispondere alla domanda sul futuro della UE. In prima battuta, sui temi più controversi sarebbe sbagliato scaricare la responsabilità per tutto ciò che non funziona solo sulle istituzioni europee. Questa erronea semplificazione, comoda e allettante per molti politici a livello nazionale, occulta l’esistenza di una corresponsabilità di UE e Stati membri per le azioni ritenute dai cittadini insufficienti o insoddisfacenti. In molti casi, gli esiti deludenti di accordi e misure adottate sono dovuti al prevalere di una logica miope che sacrifica la solidarietà intraeuropea, capace di costruire nel lungo termine, sull’altare dell’immediata convenienza nazionale. La differenza con gli ambiti in cui la competenza è sostanzialmente comunitaria balza immediatamente all’occhio: l’Europa che funziona, quella che finanzia i progetti di coesione, tutela i lavoratori e gli studenti che si spostano, sostiene i progetti di ricerca, investe nella sostenibilità, è proprio quella che utilizza il metodo comunitario.

Gli scenari possibili

Non vi è quindi solo la necessità di ampliare e approfondire l’ambito comunitario, bensì di riconoscere che oggi la UE è in affanno non tanto sul fronte delle singole misure da adottare, quanto sulla visione politica complessiva, che è essenziale e strategica quando emergono posizioni divergenti tra i Paesi europei. Non si può non notare la distanza che nel corso degli anni si è creata con l’intuizione squisitamente politica all’origine del processo di integrazione europea: assicurare all’Europa un periodo di pace, stabilità e sviluppo. Tale progetto – che era immediatamente comprensibile ai cittadini europei del tempo e capace di coinvolgerli e animarli – è divenuto una realtà che rischiamo di dare per acquisita con troppa velocità e scarsa riconoscenza per quanti hanno speso la vita per realizzarlo. In fondo, il Nobel assegnato nel 2012 all’Unione Europea per il contributo dato alla pace nel vecchio continente non è stato solo un riconoscimento per quanto realizzato, ma anche un monito per richiamarci all’importanza di questo fine, che richiede di essere attualizzato alla luce dei cambiamenti in corso a livello europeo e globale. Evitare un nuovo conflitto tra la Francia e la Germania era l’espressione concreta della pace per gli europei all’indomani della Seconda guerra mondiale. Tale obiettivo, di certo raggiunto, oggi non ha più alcuna presa sull’attualità, ma il fine di vivere in un continente in pace e capace di costruire la pace nel mondo resta valido e importante per tutti i cittadini europei. Si tratta, però, di individuare quale sia oggi la concretizzazione della pace per cui l’Unione può lavorare.

Se questo è vero, l’interrogativo sul futuro della UE non riguarda tanto le strategie e le politiche che possono essere adottate nei suoi diversi campi di azione. Piuttosto esso tocca una questione più fondamentale: la definizione dell’orizzonte politico che desideriamo per il presente e il futuro prossimo delle persone, delle comunità e dei popoli che abitano l’Europa: come ogni istituzione, anche l’UE non ha senso se non è al loro servizio e se la sua azione non è strumento per costruire migliori opportunità di vita per loro. Questa è la posta in gioco delle prossime elezioni. Come cittadini possiamo sentirci impreparati a dare un’indicazione su scelte più puntuali e di natura tecnica, ma rientra nella nostra responsabilità democratica intervenire dando un’indicazione sulla visione e sul progetto di società europea a cui l’UE deve ispirarsi.

Se consideriamo le posizioni espresse da parte delle forze politiche, un primo elemento da registrare è che al momento attuale, anche alla luce dell’esperienza della Brexit, nessun partito politico di rilievo, neanche quelli tradizionalmente su posizioni euroscettiche, avanza l’idea di sciogliere l’Unione o eliminare la moneta unica, ma tutti chiedono un cambio di passo. In questi ultimi mesi si sono succedute le prese di posizione dei leader politici dei vari Paesi membri sulla necessità di riformare la UE, avanzando – come era legittimo e ovvio immaginare – proposte differenti per quanto riguarda la concezione della UE, i suoi poteri, il suo funzionamento. I vari scenari, pur nelle differenti sfumature, possono essere ricondotti ai cinque identificati dalla Commissione europea nel Libro bianco sul futuro dell’Europa del 2017: procedere senza cambiare nulla rispetto alla situazione attuale; trasformare la UE in un’unione solo economica, mantenendo il mercato unico e l’euro; avanzare secondo il principio dell’“Europa a più velocità”, in cui gli Stati interessati possono convergere sulla realizzazione di collaborazioni più ambiziose in alcune aree; ridefinire gli ambiti di intervento della UE, individuandone alcuni, limitati nel numero, in cui può agire in modo rapido ed efficace; crescere nella dimensione comunitaria, approfondendo gli ambiti in cui le istituzioni europee possono operare con maggiori poteri e risorse.

Quale futuro per l’Europa?

Dietro ognuno degli scenari indicati, al di là dei tecnicismi, è in gioco una visione ben precisa della casa comune, ma anche delle relazioni tra Stati e dei legami all’interno della società. Per vagliare le alternative è utile fare memoria delle radici del progetto europeo attraverso le parole che Robert Schuman (1886-1963), uno dei padri del processo di unificazione europea e primo presidente dell’allora Assemblea parlamentare europea (antesignana del Parlamento che andremo a rinnovare), scrisse nel suo testamento umano e politico del 1963: «Noi ci sentiamo solidali gli uni con gli altri nel preservare la pace, nella difesa contro l’aggressione, nella lotta contro la miseria, nel rispetto dei trattati, nella salvaguardia della giustizia e della dignità umana» (Schuman R., Per l’Europa, Edizione AVE, Roma, 2017, 19). La fecondità dell’intuizione europea è stata assicurata dalla rivoluzionaria idea che la via per la pace e il benessere non passava per l’umiliazione degli Stati sconfitti, la corsa a primeggiare negli armamenti, la competizione economica agguerrita, ma nell’impegno di costruire insieme una realtà istituzionale innovativa, fondata sulla partecipazione e il contributo di tutti gli Stati coinvolti su un piano di pari dignità, nel segno di una messa in comune di mezzi per realizzare fini condivisi, per una solidarietà agita concretamente e non solo affermata a parole. Non sempre nel corso dei decenni l’Europa è riuscita a restare fedele a questa dinamica, ma è evidente che le realizzazioni compiute sotto quel segno hanno avuto una vitalità e una fecondità fuori dal comune.

A questa consapevolezza bisogna fare appello ancora oggi nel momento in cui si tratta di scegliere i membri del futuro Parlamento europeo. In vista dell’esercizio del nostro voto, alcune domande possono esserci di aiuto: quali sono le visioni di Europa in circolazione e su quali principi si fondano? Che spazio concreto è riservato alla solidarietà tra gli Stati e all’interno della società, al di là delle dichiarazioni di principio? Chi sono gli inclusi e chi gli esclusi? Quale posto è dato agli strumenti a servizio dell’integrazione, a partire dell’economia? C’è equilibrio tra la considerazione dei successi dell’UE, che non possono essere negati, e quella dei suoi limiti e fallimenti, che non debbono essere taciuti ma nemmeno ingigantiti a fini propagandistici? Prima che ai partiti e ai candidati, questi interrogativi dobbiamo rivolgerli a noi stessi per mettere a fuoco quale Europa desideriamo e quale contributo siamo pronti a dare per costruirla.

Porsi in questa prospettiva significa riconoscere sia l’importanza del nostro voto, sia la responsabilità a cui siamo chiamati nel momento del suo esercizio, superando la tentazione di sminuirne il rilievo o la trappola di astenersi perché non si trova una proposta politica o un candidato che corrisponde appieno con la nostra visione. In entrambi i casi si segue, in fondo, un’idealità che non si traduce in una concretezza, senza valorizzare gli elementi positivi già presenti: la responsabilità a cui siamo chiamati è scegliere quello che più può farci procedere nella direzione auspicata, anche se già sappiamo che non potrà condurci magicamente a destinazione. Questo vale a maggior ragione in un contesto in cui sono presenti proposte di segno radicalmente diverso, che ci condurrebbero in direzione opposta a quella che desideriamo e che trarrebbero vantaggio dalla nostra mancata partecipazione. Evitare di isolare il voto da un percorso ben più ampio e disteso nel tempo, di astrarlo dalla realtà, restituisce senso e rilievo al fatto che la realizzazione del progetto europeo costituisce un’opera collettiva, che non può avvenire – ieri come oggi – senza il concorso di tutti coloro che ne fanno parte.


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