Da settembre 2022, dopo l’arresto e la morte per mano della polizia morale religiosa della ventiduenne Mahsa Amini, il popolo iraniano non ha più smesso di manifestare contro il regime di Teheran.
A scendere in piazza sono state in prima battuta le donne, che bruciavano i propri veli e si tagliavano i capelli scandendo lo slogan «Donna, vita, libertà», nato una decina di anni fa e usato dalle donne curde che lottavano contro l’Isis. Sono state poi seguite e sostenute anche dagli uomini, consapevoli che il fondamentalismo religioso è un nemico comune. Soprattutto hanno iniziato a manifestare i giovani universitari, ricorrendo a modi pacifici, come gli “schiaffi al turbante”, o gli “abbracci per chi soffre” nelle strade delle città, oppure infrangendo il divieto di mangiare insieme, uomini e donne, nelle mense universitarie.
Nonostante la repressione dura del regime – sono numerose le persone arrestate, ferite o uccise in occasione delle manifestazioni e ci sono state le prime esecuzioni dopo processi sommari – le proteste continuano e raccolgono un sostegno progressivamente più ampio. Non è la prima volta che l’Iran è scosso da manifestazioni, oggi però assistiamo a una solidarietà nuova e diffusa in tutto il Paese, con donne e giovani come protagonisti.
Ne abbiamo parlato con Parisa Nazari, attivista dei diritti umani e mediatrice interculturale nata e cresciuta a Teheran e che si è trasferita in Italia nel 1996. Di seguito un estratto dell’ampia intervista - riservata agli abbonati - che abbiamo pubblicato nel numero di gennaio 2023.
Prima di approfondire quanto sta accadendo negli ultimi mesi in Iran,
con le proteste scoppiate in tante città a seguito della morte di Mahsa
Amini, può aiutarci a capire meglio qual è il clima sociale e culturale del
suo Paese a 44 anni di distanza dalla rivoluzione che portò alla caduta
dello scià e alla nascita della Repubblica islamica?
Da molti anni l’Iran sta vivendo una stagione di fermento culturale molto
interessante a livello di tutta la società. L’istruzione universitaria è divenuta
una priorità per le famiglie iraniane, che investono moltissimo per la formazione
dei figli. Non era così nel 1979, l’anno della rivoluzione, quando
la maggioranza della popolazione era analfabeta e solo un’élite, soprattutto
di sinistra, aveva avuto la possibilità di studiare nelle università iraniane
o all’estero. In questi decenni, si è formata una forza umana istruita,
laureata e spesso anche plurilaureata,
composta in maggioranza da
donne, le quali hanno capito che
l’istruzione è la strada per essere
più consapevoli dei propri diritti
e divenire protagoniste nella società
civile iraniana. Quest’ultima è
abbastanza giovane, dato che si è
formata dopo la guerra tra Iran e
Iraq (1980-1988), sostanzialmente
con l’ascesa al potere dei riformisti
che hanno permesso una parziale libertà di espressione, riducendo la censura sui giornali, i libri o gli eventi
culturali rispetto agli anni precedenti.
Il periodo del riformismo si è concluso nel 2005, quando venne eletto
presidente Mahmud Ahmadinejad, poi riconfermato nella carica a seguito
di contestate elezioni nel 2009. In quell’occasione, gli iraniani sono scesi
in piazza, protestando in modo pacifico, a volte in silenzio oppure gridando
slogan in cui chiedevano dove fosse finito il loro voto. Attraverso
queste manifestazioni, conosciute con il nome di “movimento verde”, gli
iraniani cercavano di partecipare alla vita sociale e politica del Paese. Ma
la riconferma dell’ultraconservatore Ahmadinejad come presidente, scelto
dalle autorità religiose per fermare i riformisti, i cui leader sono ancora agli
arresti domiciliari senza un processo, ha fatto sì che la fiducia degli iraniani
nelle riforme diminuisse drasticamente. Oggi, a tredici anni di distanza da
quegli eventi, gli iraniani non credono più che queste verranno realizzate e
vogliono vivere in un Paese libero e democratico. La società civile è molto
progressista e guarda all’Occidente. Malgrado la censura e la mancanza di
libertà di espressione, il lavoro sul piano culturale degli ultimi anni ha fatto
crescere nei cittadini iraniani la consapevolezza dei propri diritti, anche di
quelli negati. Non a caso, molti registi, scrittori, poeti e protagonisti della
scena culturale iraniana si trovano in questo momento in carcere per aver
espresso un’opinione diversa rispetto all’idea che la Repubblica islamica
vuole dare di una società iraniana coesa, che sostiene il regime in tutto e
per tutto.
A tre anni di distanza da quelle proteste legate alla situazione economica,
il popolo iraniano, con le donne in prima fila, è tornato in piazza.
Perché?
La morte di Mahsa Amini è stata la classica goccia che ha fatto traboccare
il vaso. Da decenni la polizia morale, che nel tempo ha cambiato il nome
ma non la sostanza, ha il compito di “rieducare” le donne al codice di abbigliamento
islamico secondo un’interpretazione della sharia che richiede alle donne di essere modeste, invisibili, per non
indurre gli uomini al peccato. Quando si ritiene che le donne non rispettino
la sharia, vengono arrestate, condotte in luoghi di detenzione dove la
loro dignità viene calpestata, sono trattate come criminali e possono essere
condannate al pagamento di una multa o anche a pene più severe.
Questa situazione non è più accettata, soprattutto dalla parte istruita e
progressista della società iraniana. Alcuni anni fa è stata promossa da attiviste
e attivisti una campagna per informare le donne sui loro diritti, quelli riconosciuti e quelli negati,
ed è stata lanciata la raccolta di un
milione di firme da presentare al
Parlamento per chiedere la modifica
delle leggi discriminatorie contro
le donne. Anche se l’iniziativa
è stata fermata dalla Repubblica
islamica, che ha arrestato moltissimi
attivisti e ne ha costretti altri
ad andare in esilio, la campagna è
stata importante perché ha fatto
crescere la consapevolezza nella
società civile. In particolare, i giovani
della Generazione Z, nati tra il
1997 e il 2012, hanno una visione
diversa del mondo grazie a quanto
vedono attraverso i social network
e i loro genitori, divenuti progressivamente
più attenti alla questione
dei diritti, non vogliono che i propri
figli crescano in una teocrazia che ne riduce le libertà fondamentali,
sulla base di un’interpretazione della sharia risalente a 1400 anni fa che
rinchiude la donna nel ruolo di madre, figlia, sorella o moglie, e limita i
diritti umani di tutte le minoranze.
Ovviamente ci sono parti del Paese dove non è così; spesso si tratta
delle regioni abitate dalle minoranze, dove c’è una società patriarcale
tradizionalista che non riconosce molti diritti alle donne e il livello di
istruzione è più basso. Ma anche in queste aree gli uomini sempre più
spesso sono vicino alle donne. Ho sentito discorsi molto profondi e commoventi
di padri che al momento della sepoltura dei propri figli dicevano
che le donne sono in prima linea in questa battaglia, che sono il motore
del cambiamento e che come uomini è necessario star loro accanto. In
questa occasione, le donne sono sicuramente al centro di queste rivolte,
ma gli uomini sono al loro fianco, rifiutando di continuare a
vivere in una società in cui esse sono discriminate sistematicamente da
leggi misogine e la loro dignità è calpestata. Donne e uomini insieme
sono pronti a sacrificare la propria vita in questa lotta estremamente
pacifica, non violenta, in cui i manifestanti gridano lo slogan «Donna,
vita, libertà», che era utilizzato dalle donne nel Kurdistan, la terra di
Mahsa Amini, nella resistenza all’Isis, oppure «No alla dittatura», e non
si fermano, nonostante la repressione dei manifestanti venga attuata con
forme di violenza inaudite: molti di loro sono stati arrestati e di alcuni
non si hanno più notizie.
Per le proteste in atto in queste settimane c’è una qualche forma di coordinamento,
di leadership? Vi è una visione comune sul futuro del Paese?
La prima manifestazione spontanea è stata in Kurdistan, durante il funerale
di Mahsa Amini. In quella occasione, per la prima volta, le donne
hanno gridato lo slogan «Donna, vita, libertà» e hanno dato fuoco ai veli.
In seguito, le manifestazioni si sono moltiplicate in tante città iraniane,
piccole e grandi, quasi sempre in modo spontaneo, a differenza di quanto
era accaduto nel 2009, quando c’era un leader che chiamava la gente a
protestare in piazza. Il carattere spontaneo rende più difficile la repressione
da parte delle forze dell’ordine, che non riescono a conoscere in
anticipo i luoghi e i tempi delle proteste. Inoltre, in questo modo, non si
hanno manifestazioni di massa e così si evita che ci sia un bagno di sangue,
come purtroppo è accaduto in alcune regioni del Paese, ad esempio il
Baluchistan, a causa della repressione brutale e senza scrupoli delle forze
dell’ordine che hanno sparato sulla folla, colpendo anche alcuni bambini
che si trovavano nei luoghi delle proteste. In alcune momenti particolari,
vi sono state convocazioni per la protesta rese note in anticipo, come nel
caso del ricordo di alcuni giovani a quaranta giorni dalla loro morte [una
ricorrenza che è ricordata in Iran, N.d.R.], oppure della proclamazione degli
scioperi generali. La preoccupazione per la sorte delle quasi 20mila
persone arrestate è grande, di alcune di loro non si hanno più notizie,
altri sono in cella di isolamento, privati dell’assistenza legale, e il regime
ha fatto eseguire le prime condanne a morte per impiccagione dei manifestanti
arrestati. Si tratta di studenti prelevati dai campus universitari, di
attivisti arrestati all’interno delle proprie case, di sindacalisti. Molti di loro
sono giovani e giovanissimi, incarcerati insieme agli adulti.
Foto di Craig Melville su Unsplash