Democrazia: provocazioni dal (mancato) voto locale

Fascicolo: novembre 2021

Tra i tanti dati che fotografano l’esito delle elezioni amministrative di ottobre 2021, ve n’è uno che si è imposto all’attenzione generale e non riguarda l’affermazione o la debacle di una forza politica: tra i dodici milioni di elettori chiamati alle urne, quasi uno su due non ha votato al primo turno per scegliere i sindaci e i membri delle assemblee comunali di oltre 1.300 Comuni, un dato che si è ulteriormente abbassato nei successivi ballottaggi. Le percentuali dell’affluenza sono state particolarmente negative nelle grandi città: a Roma, Milano, Napoli e Torino l’astensionismo ha superato per la prima volta la soglia del 50%.

 

Il calo dell’affluenza elettorale non costituisce una novità, essendo un fenomeno in costante crescita dagli anni ’80. Eppure il dato registrato nelle recenti elezioni ha sorpreso molti, suscitando commenti di vario segno da parte di politici e analisti. Alcuni minimizzano ed escludono che vi sia qualcosa di patologico in questo andamento, ritenendo che il nostro Paese si sta avvicinando all’esperienza di altre democrazie, in particolare quelle anglosassoni. Altri mostrano una maggiore preoccupazione per la disaffezione nei confronti del meccanismo elettorale, che permette ai cittadini di scegliere tra i vari candidati e i relativi programmi politici.

 

La diversità di reazioni che abbiamo indicato è in buona parte giustificata da un dato oggettivo: la difficoltà di leggere un fenomeno plurale e sfaccettato come quello dell’astensionismo. A questo proposito, la formula “partito dell’astensione”, per quanto possa essere mediaticamente suggestiva, è di scarso aiuto, perché non esiste un’unica motivazione, comune a tutti gli elettori, per la decisione di non recarsi alle urne.

 

La recente tornata elettorale ci offre, però, alcuni spunti di riflessione. In primo luogo, è vero che l’affluenza in queste elezioni costituisce il livello storicamente più basso per le comunali, ma sono anche dati in linea con il trend negativo dell’ultimo periodo. Basti considerare che i votanti a livello nazionale in questo tipo di elezioni sono passati in modo rapido dall’81% del 2001 al 61,6% del 2016, fino all’attuale 54,6%. Questo brusco tracollo obbliga a rivedere una tradizionale valutazione riguardo il voto locale, secondo cui la maggioranza dei cittadini non diserta queste consultazioni, perché li toccano da vicino. La crescita dell’astensionismo mostra che qualcosa si è incrinato, soprattutto nei centri urbani più grandi e popolati, visto che il livello di partecipazione è simile a quello registrato nel 2019 per le elezioni europee (54,5%), generalmente ritenute distanti e di scarso interesse per i cittadini. In particolare, colpisce la bassa affluenza nelle periferie urbane, che avevano favorito soprattutto le forze anti-sistema nelle precedenti tornate elettorali. È un altro segno che stiamo transitando verso un nuovo assetto sociale, che richiede un aggiornamento delle categorie utilizzate per leggere le dinamiche in atto e, in prospettiva, una ridefinizione anche dei delicati equilibri istituzionali.

 

Non esiste un unico astensionismo

La ricerca delle possibili ragioni per spiegare la contrazione significativa nel numero dei votanti deve tenere in conto la complessità della realtà. Alcuni non vanno a votare per disaffezione e disillusione: non si riconoscono in nessuna delle proposte politiche presentate, ritenute distanti, screditate, “pubblicitarie”, ecc., per questo ritengono inutile esprimersi. Diversa è la situazione di coloro che non sono critici nei confronti della politica, ma pensano che il loro voto non possa realmente incidere, perciò decidono di non “sprecarlo”. Questo comportamento si può verificare quando si considera come già acquisito l’esito delle elezioni oppure quando si ritiene che non vi sia una grande differenza tra le proposte dei vari candidati e partiti, per cui la vittoria di uno o dell’altro non avrebbe significativi risvolti pratici. Poi vi sono coloro che sono semplicemente disinteressati ai temi politici o disinformati, a cui si aggiungono – ma costituiscono un caso a parte e fisiologico – quanti non possono recarsi al voto per ragioni oggettive (ad esempio, anziani, malati). Volti distinti di un unico fenomeno, che viene in genere riassunto con la parola “apatia”: di fronte a una situazione che non suscita (o non suscita più) nessun tipo di passione, si resta indifferenti e passivi, non si trova più nessuna spinta effettiva a compiere un’azione, in questo caso quella di votare. L’accento sull’apatia pone l’attenzione sui comportamenti dei cittadini, ma rischia di lasciare in ombra l’altro polo in gioco, quello dell’offerta politica e della sua qualità. In elezioni che non sono particolarmente contese, l’invito a “turarsi il naso” fatto nel 1976 da Indro Montenelli non ha nessuna presa. Perché andare a votare quando ritengo che i vari candidati siano scarsamente preparati? Perché dovrei essere obbligato a comprare un “prodotto” di scarsa qualità?

 

Diversa è l’astensione motivata dalla protesta, dalla sfiducia, dalla contestazione nei confronti del sistema istituzionale e politico nel suo insieme e sugli esiti delle politiche messe in atto. In questo caso le critiche hanno come obiettivo principale la classe dirigente, senza fare troppa distinzione tra quanti sono al governo, chiamati all’esercizio del potere, e coloro che sono all’opposizione, con il compito di dare voce ad altre visioni e soluzioni. L’insoddisfazione è tale che non si trova neanche una motivazione sufficiente per dare un voto di protesta a forze politiche che siano fuori dal “sistema”. L’astensione è allora il mezzo scelto per esprimere il proprio dissenso radicale nella sfera delle istituzioni, mentre le proteste nelle piazze danno voce, alle volte in modo convulso, a un malessere profondo.

 

Ci troviamo di fronte, pertanto, a fenomeni tra loro distinti, che si traducono in una scelta di astensione, più o meno consapevole secondo i vari casi. Nonostante questa varietà, si può comunque rintracciare un elemento di fondo comune: tanto l’astensionismo apatico quanto quello di protesta segnalano che è venuto meno un tassello essenziale perché il circuito democratico, in particolare la relazione tra cittadini e istituzioni, possa funzionare adeguatamente. Questo tassello assente può essere identificato nella fiducia nella politica, nell’adeguata informazione, nell’interesse per quanto accade nella propria città o nel proprio Paese… Però, in modo più radicale, ciò che è venuto a mancare è la percezione dell’importanza del proprio voto, che non è più ritenuto uno dei modi privilegiati per esprimere la propria voce nella società, per sostenere idee e soluzioni in cui si crede per interessi, bisogni e aspettative riconosciuti prioritari. Il crescente astensionismo certifica allora la sensazione di espropriazione della cittadinanza e di impotenza nutrita da quanti si sentono inascoltati e pensano che in ogni caso il loro voto non cambierebbe nulla, costretti a subire le conseguenze di decisioni prese sopra le loro teste. Una dinamica che si ritrova anche nei vari complottismi, che prendono sempre più forza nell’ultimo periodo e si alimentano proprio della sensazione di essere esclusi dai processi decisionali (cfr Riquer C., «Croyance et complotisme», in Ètudes, giugno-luglio [2021] 65-73).

 

Due esempi per riflettere

In questo scenario, l’interrogativo di fondo non riguarda più solo l’andamento dell’affluenza alle urne, ma lo stesso futuro dell’attuale modello di democrazia, nel momento in cui il demos si allontana sempre più dalla partecipazione politica. Sappiamo che la democrazia non si esaurisce nel voto e che le forme di partecipazione con un’incidenza politica sono molteplici,: le manifestazioni dei Fridays for future ne sono un esempio. Così come siamo consapevoli che la centralità della politica come luogo di sintesi decisionale della pluralità di istanze presenti nella società è stata ridimensionata perché altri ambiti, più o meno trasparenti, si sono affermati, come quello dell’attivismo civico o degli esperti. Ma resta cruciale la questione su come si possono rivitalizzare i processi politici, dai dibattiti sulle grandi questioni di fondo alle decisioni anche di modesto rilievo, perché l’irrilevanza possa essere di fatto superata.

 

Per un certo tempo si è ritenuto che la Rete e, soprattutto oggi, i social media fossero una via preziosa per rispondere a questa domanda. Le cosiddette piazze virtuali si sono popolate dei siti e dei profili dei politici, alcuni dei quali hanno inaugurato uno stile di comunicazione molto diretto. Anche in occasione della recente campagna elettorale la presenza in Rete dei candidati locali e dei leader nazionali è stata intensa, polemica e combattuta, senza portare però a una elevata partecipazione al voto. La piazza virtuale, per com’è oggi costruita, presenta due limiti seri e oggettivi. Da un lato, dà ampie possibilità di partecipazione, ma questa resta molte volte confinata nelle mura della propria casa, in quel fenomeno definito “attivismo da tastiera” (clicktivism), per cui si sostiene facilmente una campagna di natura sociale o si interviene in un dibattito su un tema di attualità, senza però poi agire di conseguenza. Il gesto simbolico di una condivisione o di un like – in sé importante e del tutto sensato – finisce per esaurire l’impegno a favore di una causa in cui si crede, non si va oltre. Dall’altro, è ormai noto che il sistema degli algoritmi usati dai social confina gli utenti in bolle comunicative omogenee, in cui non vi sono divergenze di opinioni e di visioni, finendo con il rafforzare le convinzioni personali. Non vi è uno spazio effettivo per l’interazione e il confronto. È possibile partecipare a iniziative e dibattiti, ma non si favoriscono gli incontri e il dialogo, che sono il sale della democrazia.

 

Un’altra strada, che viene suggerita sempre più spesso, è di ampliare il ricorso a forme di democrazia partecipativa a fianco di quella rappresentativa. Un esempio in questo senso è la Conferenza sul futuro dell’Europa, voluta dalle istituzioni europee per pensare gli sviluppi futuri l’Unione di domani con i cittadini. Si tratta di un processo complesso per gli ambiti che affronta (in pratica tutte le politiche europee di primo piano), per il ventaglio di attori coinvolti (dalle istituzioni alle parti sociali, ai semplici cittadini), per la varietà di punti di vista che sono rappresentati sia nelle riunioni degli organi ufficiali, in particolare i panel dei cittadini che sono stati scelti a sorte, sia nella piattaforma digitale creata per permettere a tutti coloro che fossero interessati di poter intervenire (cfr Riggio G., «La parola ai cittadini: la Conferenza sul futuro dell’Europa», in Aggiornamenti Sociali, 5 [2021] 312-318). In questa iniziativa si è fatto attenzione ad assicurare un confronto quanto più ampio possibile, per includere tutte le posizioni esistenti riguardo il futuro dell’UE, anche quelle estremamente critiche. Tuttavia, nonostante gli sforzi compiuti, la Conferenza è rimasta confinata nell’ambito degli addetti ai lavori, sconosciuta alla stragrande maggioranza dei cittadini europei, che probabilmente si renderanno conto di quanto sta accadendo quando vi saranno le prime conclusioni entro la primavera del 2022 (che troveranno un po’ di spazio a livello comunicativo, a differenza dei poco appetibili lavori di preparazione) e si sentiranno ancora una volta tagliati fuori dal processo.

 

Tra dialogo e partecipazione

Le considerazioni nate a partire da quanto accade nella piazza virtuale della Rete e dall’esperienza della Conferenza sul futuro dell’Europa offrono qualche elemento per riflettere sul futuro della nostra democrazia. Pur avendo diversi aspetti positivi, entrambi gli esempi mostrano quanto sia difficile smontare la percezione dell’irrilevanza, che finisce con disgregare il legame tra i cittadini e le istituzioni. Non basta avere un luogo dove poter liberamente esprimere la propria opinione, come accade nella Rete, perché il punto essenziale è sapere di essere ascoltati. La partecipazione confinata all’online è una cartina al tornasole rivelatrice di questa insufficienza. Allo stesso modo organizzare un autentico processo di confronto e dialogo non serve se resta elitario, riservato a pochi coinvolti per il ruolo che svolgono a livello istituzionale, per le competenze professionali che hanno, per un particolare interesse o per caso, come i cittadini sorteggiati per i panel della Conferenza.

 

Siamo ancora in ricerca di quale volto avrà nel futuro la democrazia che abbiamo ereditato dal Secondo dopoguerra dopo i cambiamenti repentini degli ultimi anni a livello globale, ma difficilmente potrà fare a meno di tenere insieme e in modo vitale le due dimensioni del dialogo e della partecipazione, da vivere sia nella concretezza delle strade delle nostre città sia nella sfera digitale. La questione diviene allora come attivare contemporaneamente queste due dimensioni, con eguale forza e carica creatrice e creativa, per far sì che i processi politici siano dinamici e inclusivi. L’interrogativo resta aperto, perché non si intravedono al momento soluzioni sicure, ma solo possibili intuizioni. A essere interpellati non sono solo le istituzioni e i politici, ma anche tutti i cittadini – e in modo particolare anche noi come rappresentanti del mondo della comunicazione e membri della società civile –, perché custodire e rafforzare il bene di un’autentica democrazia è un’opera collettiva.

 

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