Non avevamo certo bisogno delle recenti elezioni politiche per
renderci conto di quanto sia fragile il legame che unisce i cittadini
italiani con i loro rappresentanti. La campagna elettorale
estiva apertasi con l’hashtag #iononvoto nei social media, la forte polarizzazione
nel dibattito tra i partiti e la scarsa mobilitazione a livello di base, il
dato finale dell’astensionismo hanno solo reso più evidente quanto è in atto
da tempo e che può essere descritto in molti modi: uno scollamento e un
disinteresse via via più profondi, una crescente sfiducia che talvolta diventa
rabbia e indignazione, un disarmante senso di rassegnazione, e così via.
Ogni formula coglie un pezzo della realtà, senza spiegarla fino in fondo.
Restano i dati – più di un italiano su tre non ha votato –, che però necessitano di essere interpretati perché possano essere di aiuto, e questo richiede
tempo. Soprattutto si impongono alcuni interrogativi. Da dove partire
per rigenerare e rinsaldare il legame oggi così compromesso tra
rappresentati e rappresentanti? A quali esperienze e riflessioni guardare
per ridare vitalità alla partecipazione? Quali fattori a livello di contesto
sociale, retaggio culturale o sistema istituzionale rischiano di rallentare o
depotenziare i processi potenzialmente fecondi? Sono domande essenziali
e costruttive, che riguardano il presente prima ancora che l’immediato
futuro. Anche se in questo momento l’attenzione generale si concentra sui
primi passi della coalizione di centrodestra, queste domande non vanno
tralasciate. Perché è vero che la democrazia non si esaurisce nell’esercizio
del diritto-dovere del voto, ma è altrettanto vero che esso ne
costituisce uno degli aspetti fondamentali.
Per dare un contributo a questo dibattito, abbiamo chiesto una riflessione
a: Tommaso Vitale, che studia da tempo le dinamiche partecipative
ed è personalmente impegnato in varie realtà della società civile; Tommaso
Sacconi, un giovane attivo nell’associazionismo; Anna Staropoli, sociologa,
che anima percorsi di cittadinanza attiva nella sua città di Palermo. Nei
loro testi, condividono intuizioni ed esperienze, ma soprattutto suscitano
ulteriori domande, a conferma che ci troviamo di fronte a una materia viva
e complessa, che richiede una pluralità di apporti per essere affrontata. Ci
limitiamo a segnalare tre parole, che in modo espresso o implicito ricorrono
nei testi e segnalano alcuni snodi cruciali su cui lavorare.
Il primo termine è “ascolto”, riferito al contesto sociale, in particolare
alle realtà marginali e misconosciute, alle categorie meno rappresentate,
come le giovani generazioni, e alle ragioni che conducono all’astensione.
La centralità dell’ascolto è ormai un dato condiviso e pacifico, ritenuto
essenziale per l’attivazione di processi che siano davvero rispondenti
ai bisogni e alle richieste della società. Eppure la sua concreta realizzazione
non è così scontata. Perché avvenga c’è bisogno di “resettare”
una serie di vecchie categorie, stereotipi e pregiudizi che impediscono di
ascoltare davvero le novità di questo tempo. Per farlo servono coraggio e
pazienza. Sono esemplificative, in questo senso, le resistenze, che spesso
diventano anche rimpianti nostalgici del passato, nei confronti dei giovani
e del loro modo di concepire la partecipazione: quale futuro si può costruire
se si ritiene a priori che le loro visioni e idee vadano corrette?
Strettamente legato all’ascolto è il termine “fiducia”. Quando si gode
di una certa fiducia, di un capitale di credito e stima, tutto è più semplice.
Non è così per la nostra classe politica in questo momento. Ascoltare
le istanze provenienti dai cittadini è di sicuro un modo per riacquistare
autorevolezza e credibilità. Accanto all’ascolto, i politici possono però
sperimentare un’altra via per “riaccreditarsi”: dare a loro volta fiducia
ai cittadini. Questo significa rivolgersi a loro anche dopo le elezioni, sollecitarne la partecipazione nei processi decisionali attraverso modalità già
sperimentate in Italia e all’estero, considerarli interlocutori maturi, capaci
di sostenere il peso della verità (al contrario di quanto accaduto in alcune
fasi della comunicazione durante la pandemia). Vi è una circolarità positiva
spesso ignorata: dare fiducia genera fiducia.
L’ultima parola è “territori”, al plurale perché sono tanti: le singole realtà
locali e il Paese nel suo insieme, le altre nazioni dove tanti concittadini
si sono trasferiti, senza per questo tagliare il legame con l’Italia. Si
tratta di luoghi diversi, tra loro connessi, senza però essere omologati o
interscambiabili. Gli effetti positivi di proposte in grado di rianimare
un territorio e di riattivarne le energie creative non restano confinati in
quell’ambito, bensì si diffondono e si ripercuotono anche altrove. Per
questo meritano di essere sostenute e studiate, senza cedere all’illusione di
aver trovato la pietra filosofale, la ricetta replicabile in modo automatico e
all’infinito. C’è una specificità e originalità delle singole realtà che richiede
l’esercizio di pensare senza scorciatoie in che modo si possono rivitalizzare
una partecipazione e una rappresentanza estenuate. [continua]
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