ArticoloDialoghi

Il cantiere aperto della partecipazione politica

- Prendere sul serio la democrazia, di Tommaso Vitale

- Nuove forme di partecipazione: i laboratori dei giovani, di Tommaso Sacconi

- La città partecipata, di Anna Staropoli

Fascicolo: novembre 2022

Non avevamo certo bisogno delle recenti elezioni politiche per renderci conto di quanto sia fragile il legame che unisce i cittadini italiani con i loro rappresentanti. La campagna elettorale estiva apertasi con l’hashtag #iononvoto nei social media, la forte polarizzazione nel dibattito tra i partiti e la scarsa mobilitazione a livello di base, il dato finale dell’astensionismo hanno solo reso più evidente quanto è in atto da tempo e che può essere descritto in molti modi: uno scollamento e un disinteresse via via più profondi, una crescente sfiducia che talvolta diventa rabbia e indignazione, un disarmante senso di rassegnazione, e così via.

Ogni formula coglie un pezzo della realtà, senza spiegarla fino in fondo. Restano i dati – più di un italiano su tre non ha votato –, che però necessitano di essere interpretati perché possano essere di aiuto, e questo richiede tempo. Soprattutto si impongono alcuni interrogativi. Da dove partire per rigenerare e rinsaldare il legame oggi così compromesso tra rappresentati e rappresentanti? A quali esperienze e riflessioni guardare per ridare vitalità alla partecipazione? Quali fattori a livello di contesto sociale, retaggio culturale o sistema istituzionale rischiano di rallentare o depotenziare i processi potenzialmente fecondi? Sono domande essenziali e costruttive, che riguardano il presente prima ancora che l’immediato futuro. Anche se in questo momento l’attenzione generale si concentra sui primi passi della coalizione di centrodestra, queste domande non vanno tralasciate. Perché è vero che la democrazia non si esaurisce nell’esercizio del diritto-dovere del voto, ma è altrettanto vero che esso ne costituisce uno degli aspetti fondamentali.

Per dare un contributo a questo dibattito, abbiamo chiesto una riflessione a: Tommaso Vitale, che studia da tempo le dinamiche partecipative ed è personalmente impegnato in varie realtà della società civile; Tommaso Sacconi, un giovane attivo nell’associazionismo; Anna Staropoli, sociologa, che anima percorsi di cittadinanza attiva nella sua città di Palermo. Nei loro testi, condividono intuizioni ed esperienze, ma soprattutto suscitano ulteriori domande, a conferma che ci troviamo di fronte a una materia viva e complessa, che richiede una pluralità di apporti per essere affrontata. Ci limitiamo a segnalare tre parole, che in modo espresso o implicito ricorrono nei testi e segnalano alcuni snodi cruciali su cui lavorare.

Il primo termine è “ascolto”, riferito al contesto sociale, in particolare alle realtà marginali e misconosciute, alle categorie meno rappresentate, come le giovani generazioni, e alle ragioni che conducono all’astensione. La centralità dell’ascolto è ormai un dato condiviso e pacifico, ritenuto essenziale per l’attivazione di processi che siano davvero rispondenti ai bisogni e alle richieste della società. Eppure la sua concreta realizzazione non è così scontata. Perché avvenga c’è bisogno di “resettare” una serie di vecchie categorie, stereotipi e pregiudizi che impediscono di ascoltare davvero le novità di questo tempo. Per farlo servono coraggio e pazienza. Sono esemplificative, in questo senso, le resistenze, che spesso diventano anche rimpianti nostalgici del passato, nei confronti dei giovani e del loro modo di concepire la partecipazione: quale futuro si può costruire se si ritiene a priori che le loro visioni e idee vadano corrette?

Strettamente legato all’ascolto è il termine “fiducia”. Quando si gode di una certa fiducia, di un capitale di credito e stima, tutto è più semplice. Non è così per la nostra classe politica in questo momento. Ascoltare le istanze provenienti dai cittadini è di sicuro un modo per riacquistare autorevolezza e credibilità. Accanto all’ascolto, i politici possono però sperimentare un’altra via per “riaccreditarsi”: dare a loro volta fiducia ai cittadini. Questo significa rivolgersi a loro anche dopo le elezioni, sollecitarne la partecipazione nei processi decisionali attraverso modalità già sperimentate in Italia e all’estero, considerarli interlocutori maturi, capaci di sostenere il peso della verità (al contrario di quanto accaduto in alcune fasi della comunicazione durante la pandemia). Vi è una circolarità positiva spesso ignorata: dare fiducia genera fiducia.

L’ultima parola è “territori”, al plurale perché sono tanti: le singole realtà locali e il Paese nel suo insieme, le altre nazioni dove tanti concittadini si sono trasferiti, senza per questo tagliare il legame con l’Italia. Si tratta di luoghi diversi, tra loro connessi, senza però essere omologati o interscambiabili. Gli effetti positivi di proposte in grado di rianimare un territorio e di riattivarne le energie creative non restano confinati in quell’ambito, bensì si diffondono e si ripercuotono anche altrove. Per questo meritano di essere sostenute e studiate, senza cedere all’illusione di aver trovato la pietra filosofale, la ricetta replicabile in modo automatico e all’infinito. C’è una specificità e originalità delle singole realtà che richiede l’esercizio di pensare senza scorciatoie in che modo si possono rivitalizzare una partecipazione e una rappresentanza estenuate. [continua]

 

 

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