La pandemia sta mettendo a nudo la fragilità dei nostri sistemi di
governance in un campo cruciale come quello della salute, rivelando
un tragico scollamento tra le affermazioni di principio di molti leader
e quanto effettivamente accade sullo scenario internazionale. Il preambolo
della Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), ad
esempio, definisce la salute come uno stato di completo benessere fisico,
mentale e sociale, e non semplicemente come assenza di malattia. Chiarisce
inoltre che la fruizione del migliore stato di salute possibile è un
diritto fondamentale di ogni essere umano, senza distinzione di razza,
religione, credo politico e condizioni economiche e sociali. Anche la Dichiarazione
universale dei diritti umani, del 1948, indica la salute come una
componente essenziale del diritto a uno standard di vita appropriato. Sin dal
dopoguerra, tutti gli Stati hanno ratificato almeno un trattato internazionale
che riconosce la salute come un diritto, come ribadito in più occasioni
dall’OMS e dalla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite.
Tuttavia, perché il diritto alla salute si traduca in realtà, è necessario
garantire a tutti cure mediche tempestive e adeguate, eliminando le
possibili barriere all’accesso a strumenti preventivi, diagnostici e terapeutici
essenziali (Hogerzeil 2006). Già nel 1975, l’allora direttore generale
dell’OMS Halfdan Mahler sostenne l’urgente necessità di assicurare che i
farmaci più essenziali fossero disponibili a un prezzo ragionevole, aprendo
così un dibattito sulla relazione fra salute e mercato che dura ancora
oggi (Ravinetto 2018). In continuità con queste riflessioni, gli Obiettivi
per lo sviluppo sostenibile propongono il raggiungimento, entro il
2030, della copertura sanitaria universale 1, che passa per l’accesso a
farmaci e vaccini essenziali, di qualità adeguata e a prezzi accessibili.
Purtroppo la pandemia complicherà ulteriormente il conseguimento di
questo obiettivo, esasperando dinamiche già in atto. Secondo l’attuale direttore
generale dell’OMS, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus (2021a),
«il mondo è sull’orlo di un catastrofico fallimento morale, il cui prezzo sarà
pagato con la vita, o la possibilità di sopravvivere, nei Paesi più poveri».
La ricerca sui vaccini contro la COVID-19
Le malattie infettive non sono mai scomparse. La tubercolosi, ad esempio,
da sola è responsabile ogni anno di circa un milione e 400mila decessi.
Ma queste patologie sono prevalenti nei Paesi poveri, con sistemi sanitari
fragili, mentre i Paesi ad alto reddito da tempo non si consideravano più
esposti a questo rischio. Nel bestseller Homo Deus, pubblicato nel 2015, lo
storico israeliano Harari osservava che la minaccia di un’epidemia globale
era scomparsa dall’immaginario collettivo del mondo contemporaneo. Invece,
con le dovute differenze rispetto alla peste di manzoniana memoria,
la COVID-19 da più di un anno tiene in scacco la comunità internazionale,
con più di 103 milioni di casi e 2 milioni di morti.
Alla sua comparsa, l’elevata prevalenza nei Paesi ricchi, l’alto tasso
di contagiosità e l’assoluta mancanza di strumenti preventivi e terapeutici
hanno rapidamente posizionato la COVID-19 al vertice delle
priorità della comunità scientifica, stimolando una straordinaria attività
di ricerca e sviluppo [continua]
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