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COP28 di Dubai: conclusi a Bonn i negoziati intermedi

Foto credits: UNClimateChange

Si sono conclusi il 14 giugno scorso, a Bonn, i negoziati intermedi (Subsidiary Body for Implementation, SB58 <https://unfccc.int/sb58>) incaricati di preparare i lavori della COP28, che si terrà a Dubai a partire dal prossimo 30 novembre. Non è stato facile seguirne lo svolgimento, a causa della scarsa copertura mediatica e del carattere altamente tecnico delle discussioni; eppure, è un linguaggio tecnico che cela molto contenuto politico: le dinamiche di Bonn, infatti, hanno messo in questione l’impostazione stessa della diplomazia climatica dei prossimi anni.

Sin dalle prime battute è stato evidente che sarebbero stati i negoziati intermedi più litigiosi di sempre: la contrapposizione del Nord Globale con il Sud Globale, che negli ultimi anni ha imparato a lavorare in squadra e alla COP di Sharm el-Sheik del novembre 2022 ha strappato la storica approvazione del Fondo per le perdite e i danni (Loss and Damage <https://www.aggiornamentisociali.it/articoli/cop27-come-andata/>), ha paralizzato i lavori a più riprese, bloccando anche la definizione dell’agenda dei lavori dell’appuntamento di Dubai, approvata infine solo un giorno prima della conclusione.

Prima grossa questione sul tavolo: il Global Stocktake, un dispositivo previsto dall’Accordo di Parigi del 2015 per monitorare le azioni attuate dagli Stati per tenere fede ai propri impegni climatici, a partire dal 2020. Questo è giudicato insufficiente dai Paesi del G77 e dalla Cina, che richiedono che i Paesi più sviluppati includano nel bilancio delle proprie responsabilità anche il pregresso storico dell’inquinamento, ben precedente al 2020. La questione, ovviamente, non riguarda solo il passato: ne dipende la distribuzione attuale della riduzione delle emissioni di gas serra.

Altro pomo della discordia: il Programma di lavoro per la mitigazione (Mitigation Work Programme, MWP), sostenuto dall’Unione Europea e dall’AOSIS (i piccoli Stati insulari) per concretizzare la riduzione delle emissioni di gas serra. Anche questo punto ha incontrato una forte opposizione da parte dei Paesi in via di sviluppo, particolarmente del gruppo dei 24 Like Minded Developing Countries, che non accettano di trattare sulla mitigazione in assenza di impegni da parte del Nord Globale circa la finanza climatica solidale e il risarcimento di perdite e danni. Su questo punto pesa anche la resistenza della Cina e degli Stati petroliferi del Golfo. L’Arabia Saudita ha sostenuto l’esigenza di un “carbon space” per i Paesi che vogliono svilupparsi. Anche l’India ha rivendicato il ruolo dei combustibili fossili per l’industrializzazione del Sud Globale. Sono argomenti rischiosi ma che, d’altra parte, chiamano in causa il ruolo dei Paesi industrializzati i quali, se vogliono portare avanti un progetto di uscita globale dalle fonti fossili, devono offrire al Sud Globale un’alternativa praticabile, investendo in strumenti efficaci di finanza climatica solidale.

Il risultato è una serie di compromessi, che distribuiscono il malcontento ma, tutto sommato, permettono alla diplomazia di andare avanti.

Gli europei hanno dovuto rinunciare al MWP: probabilmente ci riproveranno a Dubai. Non dimentichiamo che la riduzione delle emissioni, quindi anche l’obiettivo di uscita dalle fonti fossili, è la strategia indispensabile per contenere un riscaldamento globale che impatterà soprattutto sui Paesi più poveri. Se l’obiettivo fallisce, tutti abbiamo solo da perdere.

Invece, è stato definito un testo base del Global Stocktake: la questione delle emissioni anteriori al 2020 resta in sospeso; ora gli Stati hanno a disposizione tre mesi per emendare la bozza, poi a ottobre si terrà un secondo incontro che aprirà la fase più politica del processo.

Molta delusione è stata suscitata dal fatto che i documenti tecnici della sessione non hanno recepito i rapporti dell’IPCC (l’ultimo è stato pubblicato a marzo 2023 <https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-cycle/>). Si è trattato chiaramente una mossa politica. Ma come è possibile prendere decisioni politiche sui cambiamenti climatici, senza dare l’adeguato riconoscimento alla scienza del clima?

Un’icona dello stallo e delle tensioni è rappresentata dall’incapacità di giungere a una definizione condivisa di “giusta transizione” (just transition): la discussione è rinviata a Dubai. Una transizione “giusta” è esattamente la posta in gioco di tutti i negoziati climatici.

Al termine delle due settimane di lavori, è chiaro come il processo negoziale sia appesantito e rischi lo stallo e la perdita di credibilità. Come ridare fiducia ai negoziati? Il problema è capire che cosa intendiamo con questa espressione. Se consiste nel baratto di richieste di parte, nella logica della prova di forza, allora la contrapposizione Nord-Sud, gli egoismi nazionali, il riaccendersi di conflitti, gli interessi delle multinazionali del petrolio e del gas lasciano poca speranza. All’orizzonte, c’è quella che già alcuni hanno stigmatizzato come la “COP del greenwashing”, presieduta da Sultan Al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company. Ma, nonostante tutto, la COP sul clima è uno spazio unico e irrinunciabile di diplomazia globale. L’alternativa alla diplomazia è il conflitto: l’Ucraina ce lo ricorda. I negoziati devono assumere un paradigma diverso, puntando alla ricerca di soluzioni comuni, che possono anche essere diverse dalle proposte iniziali. Il dialogo non è credibile senza una disponibilità delle parti a muoversi dalle proprie posizioni. A Bonn, la società civile è stata presente in una componente numerica molto superiore alle edizioni precedenti. È la rappresentanza di quella quota di umanità che continua a credere che cambiare rotta è possibile. Nei prossimi mesi, questa parte di società dovrà tenga alta la pressione sui Governi perché investano le adeguate risorse politiche sui negoziati climatici, cercando approcci più fecondi.

 

23 giugno 2023
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