La conferenza sui cambiamenti climatici di Marrakech ha confermato le scelte fatte un anno fa a Parigi e ribadito che l’impegno per il clima non può essere più rinviato. Il passo da compiere è quello di un approccio integrale e concreto; in questo i giovani possono giocare un ruolo fondamentale.
La COP22, cioè l’annuale appuntamento dei Paesi aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – di fatto tutti i Paesi del mondo –, si è svolta a Marrakech (Marocco) dal 7 al 18 novembre scorsi. L’evento, piuttosto trascurato dai media e dal grande pubblico italiani, si è tenuto a pochi giorni dall’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi, scaturito un anno fa dalla COP 21. Tale Accordo, nonostante la sua fragilità, ha contribuito a dare speranza e vigore alla lotta contro i cambiamenti climatici sia per il fatto stesso di essere stato raggiunto dopo molti vertici andati a vuoto, sia per essere stato ratificato a oggi da 111 Stati, compresi Cina e Stati Uniti, i due Paesi che guidano la graduatoria delle emissioni di gas a effetto serra e che in precedenza non avevano mai accettato di assumere alcun impegno.
A Parigi si erano concordati due obiettivi: contenere l’aumento della temperatura media del pianeta al di sotto dei 2 °C rispetto all’era preindustriale (sforzandosi di limitarlo a 1,5 °C)
e ridurre le emissioni attraverso la transizione energetica, orientando cioè i consumi energetici verso fonti a basso contenuto di carbonio.
Scopo dell’incontro di Marrakech era identificare i passi concreti per raggiungere quegli obiettivi, anche in vista del 2018, anno in cui l’impegno per ridurre le emissioni dovrebbe cominciare a tradursi in atto.
Il compito è tutt’altro che agevole, dato che secondo gli scienziati gli impegni assunti dai singoli Paesi finora sono ben lontani da quanto serve per riuscire a contenere l’aumento della temperatura entro i 2 ºC. Inoltre, secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO, <
www.wmo.int>), agenzia dell’ONU con sede a Ginevra, il 2015 ha fatto registrare il record della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, superando le 400 ppm (parti per milione) come media globale. Ci stiamo quindi già avvicinando a una soglia critica: arrivare a 450 ppm renderebbe irraggiungibile l’obiettivo dei 2 °C, con tutto quello che questo comporterebbe, ad esempio in termini di aumento del livello degli oceani. Dunque l’emergenza clima è ancora più urgente di quanto pensassimo anche solo un anno fa e sebbene non sia il caso di abbandonarsi a un inutile allarmismo, è oggettivo il fatto che
ci rimane sempre meno tempo per cambiare rotta ed evitare la catastrofe. Questo chiama in causa responsabilità che coinvolgono molteplici livelli: da quello della politica internazionale (a cui appartiene la COP 22), a quelli nazionali, locali, comunitari e personali.
Per questo l’agenda della COP 22 in vista dell’attuazione dell’Accordo di Parigi era lunga e articolata: dalla trasparenza delle azioni di mitigazione e adattamento, alla modalità di valutazione del rispetto dell’Accordo da parte dei singoli Stati, dalle risorse per il sostegno finanziario e tecnologico alla possibilità di sanzionare i Paesi che violano gli impegni presi. Il risultato, che come sempre ha suscitato commenti controversi, è un accordo sulla
road map e sulla scadenza ultima (la COP 24 del 2018) per arrivare a stabilire il Regolamento di attuazione dell’Accordo di Parigi. Inoltre sono stati riconfermati gli impegni presi a Parigi, compreso quello dei Paesi ricchi di mettere a disposizione del Green Climate Fund risorse per un valore di 100 miliardi di dollari.
Sulla scena di Marrakech ha fatto irruzione anche l’elezione alla presidenza degli USA di Donald Trump, che in campagna elettorale non aveva esitato a negare l’esistenza dei cambiamenti climatici, ad auspicare un modello di sviluppo a base di carbone e petrolio e a promettere l’annullamento dell’adesione americana all’Accordo di Parigi. Resta quindi da vedere che cosa accadrà con il suo arrivo al potere, anche se
a Marrakech l’Unione Europea, il Brasile, l’India e soprattutto la Cina hanno ribadito i propri impegni. Tutti i Paesi hanno poi approvato una dichiarazione che definisce irreversibile il processo cominciato alla COP 21 di Parigi.
Nelle pagine che seguono non ci addentreremo in una valutazione puntuale degli esiti della COP 22, ma proveremo a offrire alcuni spunti per inserire la questione in una prospettiva più ampia. Cominceremo segnalando come le circostanze sottolineino la necessità di adottare un approccio integrato; questo richiede un approfondimento dell’orizzonte culturale e delle categorie con cui trattiamo la questione del clima, in particolare una nuova comprensione del rapporto tra clima e bene comune. La fecondità di questo approccio integrale e integrato dipende dall’elaborazione di percorsi formativi a sostegno di quella che molti chiamano ormai conversione ecologica: un futuro diverso è possibile, ma va costruito; per farlo servono persone sensibili e competenti e il coraggio di lasciare alle giovani generazioni lo spazio di esprimere la propria creatività e di recare il proprio contributo.
Costruire il nuovo misurandosi con i problemiQuesto cambio di paradigma nel rapporto con il clima e l’ambiente ha bisogno di un rinnovamento delle categorie, che eviti però la tentazione di risposte puramente tecniche, calate dall’alto e illusoriamente miracolistiche: occorre un approccio diverso, che non sia una operazione teorica, di cui aspettare i risultati per poi metterli in pratica, bensì un modo di procedere, un metodo per costruire insieme qualcosa di tangibile. Ciò significa
guardare ai problemi e alle sfide di oggi con un approccio integrato che ne evidenzi le interconnessioni, affrontandoli attraverso un dialogo capace di coinvolgere tutte le parti in causa e di tenere conto della pluralità di posizioni.
L’agenda climatica internazionale, a livello politico così come di impegno della società civile e di scelte coerenti in materia di stili di vita, offre molte occasioni per cominciare ad affrontare questo compito. Ne segnaliamo tre, senza alcuna pretesa di esaustività e sistematicità, che esibiscono in modo particolare questa esigenza di integrazione tra le molte facce di un problema complesso.
La prima è
l’attuazione dell’agenda internazionale per lo sviluppo. Oltre all’Accordo di Parigi, il 2015 ha visto l’approvazione da parte dell’Assemblea generale dell’ONU dell’Agenda 2030 e del sistema degli Obiettivi di sviluppo sostenibile: un’architettura complessa – 17 obiettivi articolati in 169 traguardi specifici monitorati tramite indicatori quantitativi – che converge attorno al criterio della sostenibilità, intesa nelle sue tre dimensioni, ambientale, sociale ed economica. L’azione per combattere i cambiamenti climatici costituisce l’Obiettivo 13, ma ben altri cinque Obiettivi hanno un evidente legame con le questioni ambientali: energia rinnovabile (7), innovazione e infrastrutture (9), città e comunità sostenibili (11), pace e giustizia (16) e, infine, la partnership per gli Obiettivi (17). Le politiche e le misure adottate per raggiungerli hanno bisogno di basarsi su «un approccio integrato e multilivello, che coinvolgano tutte le responsabilità di governo e le componenti sociali attraverso processi decisionali e attuativi aperti e partecipati» (ENEA,
Parigi e oltre. Gli impegni nazionali sul cambiamento climatico al 2030, <
www.enea.it/it/pubblicazioni/pdf-volumi/V2016_Parigi-e-oltre.pdf>, 2016, p. 47). È la sfida concreta che il mondo è chiamato ad affrontare nei prossimi anni.
Un secondo fronte di integrazione è il coinvolgimento della finanza, perché metta la propria potenza, oggi quanto mai gigantesca e al tempo stesso minacciosa, al servizio del bene comune, permettendo di cogliere le opportunità offerte da quella che è spesso chiamata green economy e favorendo il trasferimento di tecnologie sostenibili ai Paesi emergenti, nel quadro di quanto previsto dall’Accordo di Parigi. Spendiamo 1.800 miliardi di dollari all’anno per gli armamenti (il 2,5% del PIL mondiale), diciotto volte la somma che si sta faticando a racimolare per affrontare il problema dei cambiamenti climatici (cfr Mastrojeni G.,
Ora o mai più: un decennio, e non oltre, per salvare noi stessi; e cosa può farci ognuno di noi, Amazon 2016). Su questo fronte sono attive a livello globale varie campagne che puntano al coinvolgimento degli investitori istituzionali e dei risparmiatori privati, perché si impegnino a trasferire progressivamente i propri fondi da investimenti legati al settore dei combustibili fossili ad alternative più sostenibili. A quella lanciata in Italia, #DivestItaly, che punta specificatamente alla sensibilizzazione delle istituzioni religiose, ha deciso di dare la propria adesione anche
Aggiornamenti Sociali (cfr l’articolo
«#Divestitaly: mettere in pratica la Laudato si’», in questo numero alle pp. 856-862). Nel quadro dell’ecologia integrale, clima e finanza non sono lontani come siamo abituati a pensare.
Un’ultima sfida all’integrazione è la transizione energetica, così da accelerare la decarbonizzazione dell’economia e l’abbandono delle fonti fossili a vantaggio di quelle rinnovabili. Per essere efficace, la transizione energetica deve interessare una pluralità di settori, dai trasporti all’edilizia, dall’industria manifatturiera all’agricoltura, dalla gestione dei rifiuti al modo in cui “funzionano” i nostri edifici e le nostre case; non solo, essa richiede di ripensare completamente il rapporto tra la società, l’economia e le fonti di energia, uscendo dalla pericolosa illusione che queste, così come tutte le altre risorse, siano infinitamente disponibili. Una cosa è certa: le innovazioni tecnologiche non sono sufficienti ad arrestare i cambiamenti climatici, ma sono necessarie e fondamentali. Abbiamo bisogno di eliminare gradualmente i combustibili fossili, ma le fonti rinnovabili saranno in grado di soddisfare la domanda di energia per tutti solo se accompagnate dal risparmio, dall’eliminazione degli sprechi e da un uso sempre più accorto ed efficiente.
Ricomprendere il bene comuneLa partita dei cambiamenti climatici si gioca sul piano politico ed economico, ma per vincerla, cioè per raggiungere gli obiettivi di Parigi, occorrono strategie innovative. Per elaborarle servono un punto di partenza diverso da quello dominante e un orizzonte culturale più ampio e articolato: è quanto ha contribuito a fare, tra altri, l’enciclica
Laudato si’, scritta anche in vista della COP 21 di Parigi 2015. Che cosa significa oggi affrontare i cambiamenti climatici all’interno del quadro della cura della casa comune? Come sviluppare una coscienza planetaria della necessità di una ecologia integrale, che non separi il degrado ecologico da quello umano e sociale? In che modo promuovere la capacità di agire insieme, tenendo conto del principio delle responsabilità comuni ma differenziate (in base ad esempio al percorso di ciascun Paese negli ultimi due secoli) e del fatto che gli effetti dei cambiamenti climatici non hanno il medesimo impatto su tutte le parti del mondo? In questa direzione ci sembra interessante
riprendere la nuova comprensione del rapporto tra clima, beni comuni e bene comune.
La letteratura scientifica sul tema dei beni comuni ha da tempo evidenziato la fragilità che li caratterizza: il fatto che sono di tutti rende più elevato il rischio dell’incuria, dello sfruttamento eccessivo e persino della loro distruzione, in particolare in quelle società in cui la proprietà privata assume un ruolo di fondamento del sistema giuridico e la massimizzazione del tornaconto individuale rappresenta il criterio e l’obiettivo dell’azione. I beni comuni hanno invece bisogno di forme di regolazione condivisa, di tipo cooperativo, che garantiscano a tutti eque possibilità di accesso, evitando l’accaparramento da parte di pochi o l’incuria generalizzata.
Anche il clima – ce lo ha ricordato il n. 23 della
Laudato si’ – «è un bene comune, di tutti e per tutti», al pari di aria e acqua, indispensabili per la vita dignitosa di ciascuna persona. Gli sviluppi più recenti della riflessione ci invitano però a fare un passo in avanti, considerando il clima non solo come uno dei beni comuni, ma come una «componente imprescindibile del bene comune», cioè come una delle condizioni che permettono alle singole persone e alle comunità di progredire verso il proprio sviluppo integrale (cfr
Rete Nazionale dei Centri per l’Etica Ambientale,
«Cambiamento climatico: la sfida etica e politica», in
Aggiornamenti Sociali, 10, 2015, 668-673, qui 671). Questo significa che
affrontare i cambiamenti climatici non è solo una questione di procedute tecniche che risolvono problemi specifici, ma che occorre tornare ad articolare il contenuto di quel bene comune che è la condizione di possibilità di una vita dignitosa per tutti e per ciascuno, e anche il significato concreto di valori – ad esempio equità e uguaglianza – che altrimenti rischiano di rimanere parole vuote. In società sempre più pluralistiche, questo inevitabilmente richiede un percorso di dialogo tra le molte diverse posizioni su quali siano gli obiettivi da perseguire e soprattutto sul loro ordine di priorità.
Se il clima fa parte del bene comune, inevitabilmente ne vanno esplicitate le relazioni con gli altri elementi, quali la giustizia globale e la pace. È questa la strada per cogliere ad esempio l’ingiustizia implicita nel fatto che i cambiamenti climatici non colpiscano allo stesso modo tutte le regioni del globo, non di rado “graziando” proprio quelle a cui vanno ascritte le maggiori responsabilità. L’innalzamento del livello degli oceani è una minaccia più elevata per gli abitanti degli Stati insulari (in particolare gli arcipelaghi del Pacifico e dell’Oceano Indiano) e delle zone costiere; i territori rurali sono più vulnerabili agli eventi meteorologici estremi, che peraltro sono più frequenti e violenti nelle regioni tropicali; siccità, desertificazione e disastri naturali sono all’origine del fenomeno dei migranti ambientali, cioè persone e popolazioni costrette ad abbandonare le proprie terre divenute ormai inospitali. Inoltre i mutamenti climatici contribuiscono alla diminuzione delle produzioni agricole, innescando carestie, a loro volta fonti potenziali di conflitti; secondo recenti studi (cfr
Factbook, in <
www.factbook.ecc-platform.org>), sono 78 i conflitti in corso nel mondo tra le cui cause dobbiamo annoverare i cambiamenti climatici. Anche pace e ambiente sono dunque profondamente legati.
All’interno del percorso di costruzione di un approccio basato su confronto e dialogo, è degno di nota il fatto che
il clima sta rapidamente diventando uno dei temi dell’agenda delle religioni, dopo un lungo periodo in cui era sembrato un argomento tecnico per esperti e attivisti: stanno emergendo le sue relazioni con le domande di fondo sul senso della vita umana e sul suo orientamento al bene. Se la COP 21 era stata uno degli stimoli per la pubblicazione della
Laudato si’, ma anche per la presa di posizione dei leader di altre confessioni religiose, il 10 novembre scorso papa Francesco ha inviato un messaggio alla COP 22 (indirizzandolo al Ministro degli Esteri marocchino che l’ha presieduta) ed è stata diffusa una
Dichiarazione interreligiosa sui cambiamenti climatici (
COP22 Interfaith Statement on Climate Change, in <
www.interfaithstatement2016.org>), sottoscritta da 240 personalità delle principali tradizioni religiose di tutto il mondo.
Il clima diventa dunque occasione di dialogo e incontro, e non solo tra le religioni: lo scorso 28 settembre, un seminario organizzato in Vaticano dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e dalla Pontificia Accademia delle Scienze proprio in vista della COP 22 («
Laudato si’ e il percorso che conduce al COP22 a Marrakech», <
www.pas.va/content/accademia/it/events/2016/cop22.html>) ha visto la partecipazione di una rappresentanza cinese (in particolare della China Biodiversity Conservation and Green Development Foundation), il cui Segretario generale Zhou Jinfeng ha sottoscritto la Dichiarazione finale rivolta alla COP 22 insieme agli altri partecipanti (cfr il post
«“Agire rapidamente, guidati dalle nostre fedi”: alla COP 22 un appello interreligioso sul clima», pubblicato il 14 novembre scorso su questo sito). La preoccupazione per il clima mette in movimento anche gli assetti geopolitici.
Il futuro che è già presente
Dall’approfondimento dell’orizzonte culturale e in particolare dalla riflessione in ambito religioso non riceviamo solo stimoli a pensare diversamente, ma anche appelli concreti a metterci in gioco in maniera personale e comunitaria. Ne troviamo un esempio nel Messaggio di papa Francesco per la celebrazione della Giornata mondiale di preghiera per la custodia del creato (1° settembre 2016): «come singoli, ormai assuefatti a stili di vita indotti sia da una malintesa cultura del benessere sia da un desiderio disordinato di consumare più di quello di cui realmente si ha bisogno, e come partecipi di un sistema che ha imposto la logica del profitto ad ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura, pentiamoci del male che stiamo facendo alla nostra casa comune». Il pentimento qui invocato non è una contrizione moralistica, ma la disponibilità ad accogliere la chiamata a fare la propria parte mossi dalla gratitudine per la bellezza del mondo in cui viviamo. Approdiamo dunque a
una terza dimensione dell’impegno per il clima e l’ambiente, quella della spiritualità, delle motivazioni, dello stile di vita, che siamo invitati a integrare con le due esaminate in precedenza: quella dell’azione tecnica e politica e quella dell’elaborazione di categorie adeguate.
Ci sembra che la chiave di volta di questa integrazione possa essere la priorità del futuro che la questione stessa del clima impone alla nostra attenzione e affida alla nostra responsabilità: prendere sul serio gli obiettivi che a Parigi sono stati definiti e a Marrakech ribaditi significa in fondo incominciare oggi a scegliere a tutti i livelli (istituzioni internazionali, Governi, imprese, società civile, famiglie e singoli) ciò che è già possibile per salvaguardare il domani di chi verrà dopo di noi, oltre che per offrire un presente migliore a una fetta consistente dell’umanità.
Un modo concreto per accordare priorità al futuro è dare spazio a coloro che verso di esso sono proiettati, anzi che ne sono le avanguardie, cioè le giovani generazioni, favorendo un dialogo con gli adulti che rinsaldi i legami intergenerazionali. Le persone di età compresa tra i 10 e i 25 anni costituiscono il 25% della popolazione mondiale, sebbene siano pochissime in Italia e poche negli altri Paesi ad alto reddito. Dunque il potenziale di creatività necessario per rinnovare la concezione di progresso, il modo in cui funziona l’economia e il rapporto con la natura è abbondante, e vi sono già indicazioni preziose in tal senso se si pensa alle forme innovative di attenzione alla sostenibilità, come ad esempio la
sharing economy e l’economia circolare.
Per evitare che questo potenziale vada disperso o sprecato,
occorre offrire opportunità formative che consentano ai giovani di assumere l’approccio integrale che abbiamo visto essere indispensabile. L’integrazione tra tutte le dimensioni della persona (quella intellettuale e quella emotiva, quella dell’impegno sociale e quella dell’interiorità spirituale), così come l’attitudine a cogliere i nessi e le relazioni tra le diverse discipline e ad articolare i metodi propri di ciascuna di esse, diventano un obiettivo critico di ogni percorso educativo e la base per la strutturazione dell’intero curriculum formativo. È un modo per ribadire l’attualità di un approccio autenticamente umano e umanistico anche nell’epoca della tecnica.
Ma
il potenziale deve anche cominciare a sperimentarsi. Questo richiede alle generazioni adulte una triplice disponibilità: innanzi tutto a fare un passo indietro per lasciare ai giovani uno spazio di azione non predeterminato dall’esterno; poi ad accompagnarli e sostenerli di fronte a insuccessi o carenze, in particolare per quanto riguarda la trasformazione delle buone pratiche individuali e di gruppo in proposte compiutamente politiche, cioè di promozione del bene comune; infine ad accogliere la novità, anche quella faticosa da decodificare o scomoda perché mette in discussione ciò che è consolidato, come le nuove forme della socialità, della solidarietà e dell’impegno civile e sociale nell’epoca dei social network e nel mondo dei new media.
Che un altro mondo è possibile lo ripetiamo da tempo, spesso proprio di fronte ai fallimenti sociali ed ecologici di quello che abbiamo costruito: per molti versi i cambiamenti climatici sono un’icona della miopia dell’individualismo e dell’incapacità di riconoscere il bene comune. Come sia fatto e come funzioni questo altro mondo possibile abbiamo bisogno di impararlo dalle giovani generazioni. Abbiamo la responsabilità di esigere che lo facciano, e il dovere di lasciarglielo fare.