Immagina la Terra come appare nelle foto scattate dallo spazio: ruota,
come una bellissima biglia blu, avvolta da nuvole bianche vorticanti,
luminosa sullo sfondo nero dello spazio infinito. Noi esseri umani viviamo
qui, così come milioni di altre specie sopra e sotto la solida terra,
nelle acque dolci e salate e nell’aria sopra le nostre teste. Infatti, questo è
l’unico luogo, almeno per quanto ne sappiamo, in cui esiste la vita.
Da qui possiamo vedere altri luoghi, pianeti e stelle come facevano i nostri
antenati, e ora, con incredibili nuovi telescopi, possiamo osservare miliardi
e miliardi di antiche galassie. Forse un giorno alcune creature della Terra
vivranno altrove, ma per ora e da sempre, essa è il nostro pianeta natale.
La terribile e innegabile realtà che affrontiamo oggi è che la Terra è
in pericolo. A causa dell’attività umana, il pianeta si sta riscaldando, con
tutte le conseguenze che questo comporta. Gli sforzi per prendersene cura
si stanno moltiplicando, come dimostrano sia gli accordi internazionali sia
le scelte di vita individuali, ma non manca un’opposizione feroce da parte
di forze politiche e finanziarie, a cui si somma il peso dell’indifferenza, che
non possiamo sottovalutare.
In questo scenario pericoloso e complesso, che cosa possono offrire le
religioni? Le tradizioni religiose portano un messaggio sapienziale sul significato
ultimo e tracciano una mappa per vivere una vita buona, quindi
la maggior parte di esse ha risorse da mettere al servizio dell’ecologia, come
lo stesso papa Francesco ha evidenziato nell’enciclica Laudato si’ (LS) del
2015, al n. 64. In altre parole, ciò in cui
crediamo ha delle conseguenze che dovrebbero
motivare anche le nostre azioni.
Il cristianesimo, insieme ad altre fedi
monoteistiche, ha a cuore la convinzione
che un Dio vivente abbia creato
e ami tutto il mondo. Questa convinzione
ha un potenziale rivoluzionario nel
motivare la cura della Terra, eppure fino
a poco tempo fa non ha spinto molti cristiani
a farlo in modo evidente.
Una storia affascinante relativa a John
Muir, naturalista del XIX secolo, evidenzia
il problema. Durante un’escursione
nella natura selvaggia della valle dello
Yosemite, si imbatté in un orso morto e si fermò a riflettere sulla dignità
di questa creatura. Era un animale a sangue caldo, con un cuore che batteva
come il nostro, felice di sentire il calore del sole sulla pelliccia e per il
quale una buona giornata significava trovare un cespuglio pieno di bacche.
Più tardi, Muir scrisse un’amara nota nel suo diario criticando le persone
religiose che conosceva le quali, nella loro fede, non lasciavano spazio per
creature così nobili. Pensano di essere gli unici ad avere un’anima – si lamentò
–, gli unici per i quali è riservato il paradiso. Al contrario, scrisse,
«la carità di Dio è abbastanza ampia anche per gli orsi».
Davvero lo è? Gli orsi sono amati dal Creatore al punto che nella loro
sofferenza e nella loro morte sono raggiunti dalla potenza redentrice di
Dio? Se è così, dove siamo collocati noi esseri umani nel disegno divino
delle cose? Prendendo le parti degli orsi, argomenterei che noi esseri umani
dobbiamo rivedere il nostro rapporto con la natura, passando dal crederci
padroni dell’universo al prendere consapevolezza che siamo parenti degli
orsi e di tutti gli altri viventi in una comunità amata di creature. Esplorerò
questo tema in tre punti: prima di tutto, la realtà della comunità della creazione;
in secondo luogo un ostacolo potente alla comprensione del fatto che
ne facciamo parte; e terzo, i possibili rimedi per rimuovere tale ostacolo.
[Continua]
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