È trascorso quasi mezzo secolo dalla pubblicazione del Rapporto sui limiti dello sviluppo (1972): in questo celebre documento, gli scienziati lanciavano un’allerta circa il rapido consumo delle risorse naturali, rinnovabili e non rinnovabili, da parte dell’apparato industriale, tale da fare presagire il loro esaurimento nell’arco di un secolo. Da allora, il consumo di risorse è addirittura aumentato: l’Italia, ad esempio, consuma ogni anno una quantità di risorse naturali quasi tre volte superiore a quanto la biosfera è in grado di rinnovare annualmente (cfr <www.overshootday.org>). Per altro verso, la consapevolezza dell’opinione pubblica è cresciuta rispetto a qualche anno fa: da più parti si afferma la necessità di modificare qualitativamente i nostri consumi e di ridurne il volume. Con quali risorse culturali possiamo affrontare questa conversione per il bene comune del pianeta? In quanto cristiani, in che modo possiamo lasciarci ispirare dalle pagine bibliche, scritte in un contesto lontano dalle nostre preoccupazioni ecologiche attuali?
Anzitutto la Bibbia ci offre un orizzonte di comprensione dei dati, che lo stesso papa Francesco raccoglie nel cap. 2 dell’enciclica Laudato si’ intitolato «il Vangelo della creazione», dove si riprendono alcune premesse importanti per comprendere, in una prospettiva credente, il discorso ecologico. Infatti il concetto stesso di creazione, così come la Bibbia lo presenta attraverso i due racconti di Genesi 1 e 2-3, implica l’affermazione di un’origine positiva del mondo. Esso viene da un Dio creatore buono, che pronuncia una parola ulteriormente buona su tutto ciò che crea (cfr il ritornello di Genesi 1: e vide che era buono/bello). Ciò che vediamo, un meraviglioso giardino pieno di alberi rigogliosi (Genesi 2), viene da una decisione amorevole e geniale ed è un dono che ci precede, che non abbiamo fatto né avremmo potuto fare, ma che riceviamo per vivere. In secondo luogo, la Scrittura offre alcune norme e indicazioni che suggeriscono a Israele come “custodire il giardino”, cioè il mondo, che il Signore gli ha concesso di abitare. Approfondiremo questo secondo aspetto, legandolo al tema delle risorse.
Una terra ricevuta
Nella Scrittura si intrecciano due prospettive: una riguarda tutta l’umanità ed è contenuta in particolare in Genesi 1-11, l’altra è più specificatamente rivolta a Israele, la cui esperienza conserva un valore paradigmatico per la comunità cristiana che legge oggi la Parola di Dio.
L’umanità, come abbiamo detto, riceve la terra in generale e Israele ne riceve una porzione specifica. Ciò avviene attraverso un lungo percorso: Abramo e gli altri patriarchi sono i custodi di una promessa che solo lentamente si andrà realizzando; la discesa in Egitto e la successiva schiavitù sembrano far perdere per sempre il possesso della terra promessa, che andrà nuovamente raggiunta, attraversando un deserto, ma ora si parla di conquista (soprattutto nel libro di Giosuè), altre volte invece la terra è di nuovo vista come qualcosa che non è possibile prendere con le proprie forze.
Se la prospettiva dominante è quella del ricevere, come si potrà rimanere in possesso di quanto si è ricevuto? Nel libro dei Giudici la terra è continuamente minacciata da nemici esterni a causa dei peccati di Israele: come vivere bene nel luogo che il Signore dona, evitando di perderlo o di distruggerlo? Il libro del Levitico, in particolare al cap. 25, offre alcune indicazioni a riguardo. Questo testo viene considerato tardivo, frutto di una lunga riflessione, in quanto appartiene al corpus legislativo denominato «Codice di santità» (Levitico 17-26), una delle ultime elaborazioni della legislazione all’interno del Pentateuco. Esso sarebbe quindi stato scritto dopo l’esperienza dell’esilio e dopo la perdita della terra. Seguendo però la linea narrativa, Israele deve ancora conquistare il Paese e viene istruito dal Signore su come dovrà vivere in esso, a partire da una precisa visione teologica: il popolo di Israele è il popolo di Dio e la terra stessa è proprietà del Signore (cfr Levitico 23,10; Deuteronomio 6,10; 11,17.31; 12,1.9).
Tenendo presente questa premessa, Levitico 25 (cfr il testo nel riquadro) stabilisce che si vivano un anno sabbatico e un anno giubilare. Entrambi hanno a che vedere con un tempo di riposo, ma il primo non ha altre implicazioni socioeconomiche, il secondo invece è un tempo speciale che ha come connotazione propria la remissione dei debiti e la liberazione dalla schiavitù.
Levitico 25,1-7
1Il Signore parlò a Mosè sul monte Sinai e disse: 2“Parla agli Israeliti dicendo loro: Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: 3per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; 4ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore. Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna. 5Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra. 6Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; 7anche al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa produrrà”.
Anno sabbatico: il settimo anno
Levitico 25,2 suona da subito piuttosto sorprendente: Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore. Ci aspetteremmo che, al momento dell’entrata, si stabilisca una festa, una celebrazione, o un piano d’azione per gestire il nuovo possesso. Invece l’attenzione è totalmente spostata sul Paese e sul suo riposo, perché le connessioni popolo-terra sono più strette di quanto pensiamo. La legge stabilisce perciò che ogni settimo anno la terra riposi. Ciò significa che in quell’anno anche i suoi abitanti dovranno vivere diversamente, sospendendo le proprie attività.
Il rimando immediato è al sabato e al suo significato: giorno di riposo e, insieme, giorno dedicato al Signore, per fare memoria dell’agire stesso di Dio. L’opera creatrice trova il suo compimento quando Dio cessa di lavorare e si riposa, si distacca dal proprio lavoro e lo contempla, stabilisce un limite alle cose, ma anche alla propria onnipotenza (Genesi 2,2-3). All’essere umano sarà chiesta la medesima cosa: non essere travolto da se stesso e dalla propria ansia di produrre, per non divorare le cose ed esserne divorato, ma per gustarle. Come Dio riserva il settimo giorno della creazione al proprio riposo, così osservando il riposo del sabato l’essere umano imiterà il suo Creatore (cfr Esodo 16,23-30; 20,8-11). Il biblista e teologo francese Paul Beauchamp scriveva: «Dio per primo osserva il sabato, perché l’uomo l’osservi a sua volta come ha fatto lui, dunque “a sua immagine”. Ciò basta a relativizzare l’idea che l’uomo sia immagine di Dio attraverso il lavoro: lo è piuttosto attraverso la cessazione dal lavoro. Smettere di lavorare significa essere più forti del proprio lavoro; e che cosa c’è di più difficile? Smettere di lavorare significa essere più forti della propria forza, e questa è la definizione della dolcezza di Dio» (Beauchamp P., All’inizio, Dio parla, ADP, Roma 1992, 33).
Come dunque c’è un ritmo di riposo settimanale, così dovrà esserci un ritmo di riposo annuale che l’essere umano condivide con la terra perché essa venga riconosciuta come dono e non sia sotto il segno di uno sfruttamento selvaggio. Il Signore garantisce che la terra produrrà comunque a sufficienza per assicurare la vita. La norma è “religiosa”, ma racchiude una sapienza umana: il riposo della terra permette che essa si rigeneri e non diventi sterile. E questo vale anche per l’umanità.
Giubileo: il cinquantesimo anno
Procedendo nella scala del tempo (ogni sette giorni, ogni sette anni e ogni sette volte sette) si stabilisce che al cinquantesimo anno si celebri un anno del tutto speciale. L’anno del giubileo – come se fosse un grande sabato – è inaugurato dal suono del corno ed è collegato al tema del perdono, perché ha inizio nel giorno dell’espiazione. È un perdono che Israele riceve da Dio e che lo abilita a perdonare gli altri, a rimettere i debiti. Si può vivere nella terra che Dio ha donato solo riconoscendosi oggetto della misericordia di Dio. Se il fondamento di tutto è il giorno dell’espiazione (cfr Levitico 16; 23,26-32), ciò ha delle conseguenze sul modo di pensare il rapporto con il prossimo, dal momento che si parla immediatamente di liberazione. In Levitico 25,11-17 sono date sinteticamente le indicazioni per vivere l’anno del giubileo, successivamente dettagliate e suddivise per temi.
Anche nel caso del giubileo si tratta di un riposo sabbatico, ma questa volta è un tempo molto più lungo perché la terra riposa nel settimo anno e poi anche in questo ulteriore anno, secondo l’interpretazione della maggior parte dei commentatori. È chiesto un atto di fiducia nel Signore il quale da parte sua garantisce: io disporrò in vostro favore la mia benedizione... e la terra darà frutti per tre anni (v. 21). Dio si rivela capace di far abbondare proprio là dove, stando alla logica delle cose, dovrebbe esserci maggiore scarsità. È l’esperienza che Israele ha già fatto nel deserto rispetto alla manna, da non raccogliere di sabato (cfr Esodo 16,5.27-30), ma sufficiente comunque per due giorni. L’opera di Dio però è visibile solo se si rimane nella fiducia, solo se si crede che ce ne sarà abbastanza anche domani. Attraverso l’istituzione dell’anno giubilare Israele deve rivivere periodicamente una simile fiducia.
Per quello che riguarda la terra di proprietà di una famiglia, nell’anno giubilare si ha il recupero di quanto venduto. Il principio che guida tale disposizione è formulato all’inizio: La terra non si potrà vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò, in tutta la terra che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni (Levitico 25,23-24). Ciò significa che a ognuno dev’essere data la possibilità di ritornare proprietario della sua terra. Questo può avvenire secondo tre forme: interviene il parente prossimo riscattatore (il go’el); chi ha dovuto vendere la sua proprietà trova il denaro per riscattarla; se anche non l’ha trovato, la proprietà ritorna comunque a lui al cinquantesimo anno. Possiamo osservare questa norma da due punti di vista complementari. Da un lato il dono, in quanto tale, non può essere smembrato. Esso chiede di essere conservato nella sua integrità. È ancora una volta una questione relazionale, perché la terra è simbolo di un rapporto e di una storia. Non è qualcosa su cui si possa guadagnare in maniera indiscriminata, non è oggetto di compravendita perché è un dono e, oltretutto, un dono che non ci appartiene fino in fondo: noi siamo forestieri e ospiti sulla terra che rimane di Dio. Un secondo aspetto è anche di carattere pratico: mantenere integra l’eredità del Signore permette di non morire di fame, di essere sicuri che i figli di Dio non siano ridotti all’indigenza perché avranno sempre una quantità sufficiente di terra da coltivare.
Il giubileo infine tocca anche le persone: se un uomo, caduto in miseria, si vende, tecnicamente diventa uno schiavo, ma la legge dispone che il padrone non lo tratti come tale: Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare come schiavo; sia presso di te come un bracciante, come un ospite (Levitico 25,39-40). Questa schiavitù non può durare per sempre ma deve finire con l’anno del giubileo. Inoltre, se ne ha la possibilità, il parente più prossimo è invitato a riscattare il fratello anche prima (vv. 47-55).
Per tre volte, si collega questa normativa con l’uscita dall’Egitto (vv. 38.42.55): Dio ricorda il suo intervento liberatore come fondamento delle azioni di liberazione che domanda al suo popolo. Yhwh ha fatto di tutto per fare di Israele un popolo di donne e uomini liberi e non può accettare che avvenga l’asservimento in schiavitù tra fratelli.
Una logica diversa
Levitico 25 ci presenta una sintesi sapiente su come stare nella terra: uscendo dalla logica di uno sfruttamento indiscriminato dei beni a nostra disposizione; guardando a ciò che abbiamo come un dono e, quindi, dentro una relazione con un Altro che è provvidente e buono; tenendo conto del fratello come di colui che siamo chiamati a liberare, preoccupandoci che abbia ciò che gli è necessario alla vita. Il Levitico ci offre una riflessione sul rapporto fra riposo sabbatico e senso di giustizia: lo shabbat invita a risanare le relazioni con i beni della terra, con il prossimo e con Dio. Tramite questa pratica, Israele si appropria del senso della gratuità, che è la chiave della generatività: senza il rapporto con ciò che è gratuito – tutto ciò che viene considerato inutile, secondo il paradigma tecnocratico odierno – la capacità di generare si esaurisce. Il riposo è, usando le parole di Laudato si’, «un ampliamento dello sguardo che permette di tornare a riconoscere i diritti degli altri» (n. 237). L’anno giubilare, d’altra parte, richiede di assumere l’idea che le risorse della terra hanno, in prima istanza, una destinazione comunitaria. Un sistema economico nel quale fosse in vigore il giubileo renderebbe impossibile costituire posizioni di forte egemonia o di monopolio. Il Levitico invita, pertanto, a sospendere sia lo sfruttamento incontrollato delle risorse, sia la competizione economica senza regole. Questo permette di non vedere più i rapporti sociali in funzione della produzione di valore e di riconoscere invece il valore proprio del creato e di ogni persona.