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Violenze e religioni: l’apocalisse di Parigi

Quali lezioni possiamo apprendere dagli attentati di Parigi del 13 novembre scorso? Siamo condannati a una spirale di odio reciproco e di violenza crescente? La teoria del capro espiatorio elaborata dal filosofo René Girard ci viene in aiuto per smascherare questi circoli viziosi e usare per il bene la potenza di fedi e convinzioni profonde.
Fascicolo: dicembre 2015

Dal 7 gennaio al 13 novembre non sembra passato nemmeno un giorno. I sentimenti suscitati dallo choc delle stragi parigine sono gli stessi: lutto, rabbia, condanna della violenza, desiderio di affermare la bellezza della vita e voglia di viverla. Tuttavia oggi si aggiunge l’impressione, forse ancora più dolorosa, di continuare a ripetere un copione in cui siamo invischiati: stesse reazioni, stessi discorsi, misure di sicurezza, prese di posizione, ecc. Fino a quando? Sembra che l’unico passo in avanti sia quello dell’escalation della violenza e, di conseguenza, della paura e dell’allarmismo.


Non abbiamo imparato molto e di conseguenza non abbiamo fatto molto per spezzare la spirale in cui ci troviamo. Per questo, per quanto dolorosamente, abbiamo bisogno di continuare ad ascoltare in profondità quanto è avvenuto. Non per trovare una spiegazione al male, né una giustificazione consolatoria che ci metta in pace. E neanche per farci prendere e agitare dal chiacchiericcio mediatico delle Cassandre che si solleva in queste occasioni. Piuttosto per rileggere snodi e problemi, in un ascolto critico della realtà che ci metta realmente in movimento. Non abbiamo soluzioni pronte, ma per trovarle siamo tutti chiamati a mettere a disposizione ciò che abbiamo. I contributi possibili, anzi necessari, sono tanti: (geo)politici, filosofici, economici, sociali, educativi, giuridici, ma anche da parte di fedi e religioni. Su quest’ultima prospettiva mi voglio fermare.


1. Religioni, fedi, violenze

Proprio l’intreccio tra fedi, religioni e violenze suscita uno degli interrogativi che più mi interpella dopo le stragi di Parigi, in primo luogo in rapporto all’islam e poi, in generale, rispetto a ogni credo, religioso o meno. Sono d’accordo su una cosa: dobbiamo smettere di dire che non c’entrano.

Il linguaggio dei jihadisti è intessuto di riferimenti al sacro: «Otto fratelli che portavano cinture di esplosivo e fucili di assalto hanno preso per obiettivo luoghi scelti minuziosamente per tempo nel cuore della capitale francese […]. Allah ha facilitato i nostri fratelli e ha accordato loro quello che speravano (il martirio), hanno fatto esplodere le proprie cinture di esplosivo dopo aver esaurito le munizioni. Che Allah li accetti tra i martiri e ci permetta di raggiungerli». Suscita orrore, ma sarebbe imprudente limitarsi a liquidarlo come farneticante. Alla radice della disponibilità alla morte dei giovani attentatori suicidi, incredibile e inspiegabile ai nostri occhi, c’è questa fede.

È nel suo nome che i movimenti jihadisti riescono a mettere in relazione vicende micro francesi e vicende macro mediorientali, a inserire il locale (francese e mediorientale) nel globale e viceversa. È questo che aggancia una fascia di giovani europei delle periferie e dei ghetti, offrendo loro un senso e una via di uscita dal risentimento: lo mette in evidenza un altro articolo in questo numero di Aggiornamenti Sociali, che traccia un profilo di questi giovani jihadisti e del loro rapporto con la religione e con la morte.

Da questo linguaggio emerge anche il rifiuto di distinguere il civile e il politico dal religioso: il giudizio radicalmente negativo sulla società occidentale viene argomentato a partire dalla fede. Per le nostre categorie è un discorso quanto meno arcaico, così come è inaccettabile che ci chiamino crociati o che la Francia, il Paese della laicità, sia indicata come quella che porta «la bandiera della croce». Sono parole di un mondo davvero lontano dal nostro, in cui la religione è la base integrante della vita personale, delle dinamiche sociali e dei processi istituzionali, senza alcuna distinzione tra i diversi piani. Come questo discorso possa essere attraente e convincente ci risulta semplicemente incomprensibile, poiché è agli antipodi di una visione del mondo che ha fatto della separazione degli ambiti il proprio tratto distintivo, fino a liquefarsi nella frammentazione, ma non senza sofferenze, contraddizioni e tensioni.

La secolarizzazione ha spinto nel privato fedi e religioni senza però aver risolto la questione delle visioni integranti: non a caso, infatti, fatica a rendere ragione dei bisogni a cui rispondono e a confrontarsi con la loro rilevanza sociale e pubblica. Per molti versi, il passaggio alla postsecolarizzazione non è tanto un ritorno del sacro, quanto un emergere della nostalgia di una visione integrante e della fatica di vivere senza. La questione va oltre la domanda sulle religioni e l’opposizione manichea tra chi le ritiene tutte viziate dall’integralismo violento e chi invece afferma che la continuità tra religioni e violenze sia solo un errore, una deviazione.

Che forza hanno le convinzioni profonde? Quali energie sono in grado di mobilitare? È davvero inevitabile che una persuasione totalizzante quale quella che scaturisce da una fede conduca a intolleranza e violenza? Secolarizzazione e laicità sono l’unica via ascetica alla salvezza? E ancora: se il fondamentalismo produce violenza, ciò significa che la violenza è sintomo di fondamentalismo. Ma allora quanti e quali sono i fondamentalismi oggi all’opera? E quali sono le loro vittime? E infine: come possono nascere pensieri e azioni che aprono a qualcosa di diverso dalla consapevolezza del rapporto delle nostre società e delle nostre culture con la violenza e dall’analisi del modo di esorcizzarla?


2. Guardando a René Girard

I fatti di Parigi si sono svolti pochi giorni dopo la scomparsa (4 novembre 2015) dell’antropologo e filosofo francese René Girard, che ha fatto del rapporto tra violenza e religione il centro della sua ricerca. Questa coincidenza ha fatto sì che nei giorni delle ultime stragi avessi sotto gli occhi le sue opere. Per quanto il suo pensiero possa sembrare astratto e lontano dalla mischia che dobbiamo affrontare, mi è sembrato pertinente per aiutarci a frapporre un minimo di distanza tra noi e i fatti che sono accaduti. La teoria di Girard infatti è sempre stata apprezzata per comprendere fenomeni sociali ricorrenti, quali la recrudescenza della violenza o la designazione di un colpevole da eliminare – e quindi, di volta in volta, l’immigrato, lo straniero, l’infedele, il diverso, ecc. – per fare ritornare la pace. È la teoria del capro espiatorio, espressione che in senso proprio fa riferimento a un rituale veterotestamentario (cfr Levitico 16, 20-22), ma in senso figurato indica una persona – un gruppo, una famiglia, una etnia, una setta, un popolo, ecc. –, spesso debole o non in condizione di ribellarsi, su cui far ricadere la responsabilità di un male collettivo e da eliminare o allontanare perché la società ritrovi pace e armonia. Il capro espiatorio è qualcuno che ingiustamente e ingiustificatamente paga per tutti.

Nei suoi studi Girard mostra che religioni e miti molto lontani raccontano la stessa storia della neutralizzazione della violenza attraverso il sacrificio di un capro espiatorio: segnata da conflitti mortali, la società primitiva sceglie una vittima che funge sia da cura sia da parafulmine. La designazione del capro espiatorio permette perciò di passare dal tutti contro tutti al tutti contro uno: la violenza generalizzata viene arginata dalla sua ritualizzazione e scaricata su qualcuno che, in un modo o nell’altro, è marginale. Si tratta di un meccanismo strutturante il funzionamento dei gruppi umani, valido anche a prescindere dal riferimento a un orizzonte religioso: lo testimoniano tante dinamiche in atto anche nelle nostre società secolarizzate o nella vita quotidiana di gruppi sociali anche a piccola scala.

Per comprenderne meglio il funzionamento, parto dalle caratteristiche che, secondo Girard, deve avere un capro espiatorio. La prima è quella di essere un elemento sufficientemente distante dal gruppo per poter essere sacrificato anestetizzando la brutalità del gesto, e allo stesso tempo abbastanza vicino da consentire un collegamento catartico. La seconda è l’occultamento della sua innocenza: svelarla neutralizzerebbe infatti gli effetti del processo. Inoltre i capri espiatori presentano spesso caratteristiche estreme, reali o artificiosamente costruite, contro cui è più immediato scagliarsi: ricchezza o povertà, bellezza o bruttezza, vizio o virtù, forza o debolezza. Il sacrificio convoglia quindi l’aggressività collettiva su una vittima nei cui confronti la comunità è indifferente, ricompattandola a spese di un innocente in forza di una sorta di solidarietà nel crimine.

Il problema di questo meccanismo di regolazione della violenza, che viene dal sacro, è la sua efficacia temporanea. Essa infatti prima o poi riaffiora e per contenerla occorre trovare un nuovo capro espiatorio. Da un punto di vista pragmatico, il sistema raggiunge lo scopo: riconoscendo che la violenza non si può eliminare, almeno la canalizza. Tuttavia si basa su una inaccettabile negazione della realtà o su una menzogna collettiva, riprodotta tanto più facilmente quanto più fa comodo alla comunità.

Come si esce da questa spirale? Girard (ri)scopre la figura di Gesù, che si presenta apertamente come l’agnello – l’animale sacrificale per eccellenza nel mondo antico – di Dio: egli si lascia torturare e crocifiggere, assumendo deliberatamente il ruolo di capro espiatorio, che prende su di sé tutti i peccati del mondo, come se fosse colpevole ma senza esserlo. Così smaschera la mistificazione implicita nel meccanismo, lasciando trasparire inequivocabilmente la propria innocenza e l’ingiustizia di cui è vittima. È questo quello che fanno i martiri, almeno quelli autenticamente tali. Come mostrano numerosi testi biblici analizzati dallo studioso francese, che prendono le parti dell’innocente e mostrano la falsità delle accuse che lo trasformano in capro espiatorio, il lettore è portato a riconoscere la propria partecipazione a tale meccanismo acquisendone quella consapevolezza che rende possibile un cambio di prospettiva, una conversione.


3. Capri espiatori e martirio

Il pensiero di Girard non offre certo una spiegazione esaustiva di quanto stiamo vivendo, ma fornisce alcune suggestioni che ci permettono di arricchire un quadro, la cui complessità deve essere assunta a fondo, alla ricerca di strategie di azione davvero efficaci.

a) Uno scambio di posto

Guardando alle stragi di Parigi, l’innocenza delle vittime è del tutto evidente: inermi, sconosciute ai loro assassini, scelte a caso, mentre si dedicavano ad attività tutt’altro che bellicose o minacciose. Nel lessico dei terroristi è altrettanto evidente la costruzione di un mascheramento di questo dato di fatto: le vittime del teatro Bataclan sono definite «idolatri riuniti per una festa di perversità», in modo da eliminare l’orrore della mattanza. Allo stesso scopo viene utilizzato il termine crociati, mentre le vittime musulmane sono chiamate apostati. L’ultimo caso è quello degli attentati che il 12 novembre (il giorno prima di quelli di Parigi) hanno provocato oltre 40 morti in un quartiere di Beirut abitato da sciiti e perciò definito bastione degli eretici.

Altrettanto chiaro è l’obiettivo: acquisire visibilità internazionale e cercare di presentarsi come alfieri della comunità musulmana globale, o almeno di quella sunnita, che pare invece in larga parte assai poco sensibile a questo richiamo. Come ha dichiarato il 14 novembre a Le Monde Gilles Kepel, politologo ed esperto del mondo arabo, «il problema del terrorismo è ottenere il sostegno delle masse. Se non ci riesce, si trova in uno scacco politico» («L’Etat islamique cherche à déclencher une guerre civile», in Le Monde, 14 novembre 2015). Due giorni dopo, il politologo e orientalista Olivier Roy su The New York Times ha letto gli attentati all’aereo russo, a Beirut e a Parigi come il tentativo dell’ISIS di internazionalizzare la propria azione, che in Medio Oriente ha ormai raggiunto i propri limiti, e compattare i propri seguaci dietro il sogno di un islam globale. Tuttavia – ha scritto – «Come al-Qaida, l’ISIS non gode di alcun sostegno popolare tra i musulmani che vivono in Europa e non riesce a reclutare se non individui che vivono ai margini» («The Attacks in Paris Reveal the Strategic Limits of ISIS», in The New York Times, 16 novembre 2015). Le vittime locali degli attentati si iscrivono dunque in una strategia, per certi versi disperata, di costruzione di un consenso globale da parte di una comunità che si mostra però assai poco sensibile al richiamo, almeno nella sua larghissima maggioranza.

Queste considerazioni ci devono rendere attenti a non cadere in una spirale di reciprocità, attraverso generalizzazioni che rischiano di trasformare i musulmani d’Europa nel loro insieme in pericolosi sospetti, oggetto di legittimo odio, candidati all’espulsione così da rinsaldare la nostra identità in quello che si ama presentare come uno scontro di civiltà: la soluzione sarebbe mandarli via, almeno per placare la tensione delle nostre società e ottenere consensi elettorali. E poco importa che certe letture del rapporto tra religione musulmana e violenza non siano molto più sofisticate di quella che conduce i jihadisti a chiamarci crociati. Come ha scritto su La Stampa il 18 novembre scorso Massimo Gramellini, «C’è un terrorismo delle parole a cui siamo particolarmente esposti in questi giorni». Ma, come affermava lo stesso Girard dialogando con il card. Martini nel 1996, accusare tutto un gruppo dei delitti compiuti da pochi significa seminare razzismo. Non è forse all’opera una dinamica che ricorda la costruzione del capro espiatorio, pur senza alcun riferimento religioso né ritualizzazione del sacrificio, come si conviene a società secolarizzate in cui non è più la religione ciò che tiene unito il gruppo?

Ciò vuol dire allora che anche questa dinamica antropologica si è secolarizzata, abbandonando lo spazio e il lessico della religione per trasferirsi in quello della politica o dell’economia? Quanta violenza tollerano al proprio interno anche le nostre democrazie, nate proprio come tentativo di costruire una società capace di tenere a bada la violenza senza bisogno di consegnarsi alla forza e all’arbitrio del potere assoluto e dei fondamentalismi religiosi? Nei fatti, alle dichiarazioni di uguaglianza formale corrispondono in realtà meccanismi di generazione della disuguaglianza che finiscono per scaricare su alcuni gruppi, marginali ed emarginati, le tensioni e le contraddizioni del sistema economico, in particolare nei periodi di crisi, alimentandone risentimento e desiderio di rivalsa. L’esclusione sociale o la cultura dello scarto non sono interpretabili come l’equivalente secolarizzato del capro espiatorio all’interno di una società democratica?

L’effetto locale di questo meccanismo globale è che, come occidentali, dopo averne creati molti, ora siamo noi nella scomoda posizione di capri espiatori potenziali. Ma rifugiarci nella spirale della reciprocità e nella coazione a ripetere non può essere la soluzione.

b) I veri martiri

Come abbiamo visto, la violenza del meccanismo del capro espiatorio può essere arrestata solo quando la vittima si trasforma in martire – nel senso autentico e nobile del termine –, smascherando la menzogna su cui esso si regge. In radice, questo significa accettare il rischio di perdere la propria vita per salvarne un’altra e non per causare la morte di altri. Nei giorni successivi agli attentati, a contorno della cronaca dei massacri, delle reazioni ufficiali e della caccia ai terroristi in fuga, i nostri media offrivano il racconto dei gesti degli eroi anonimi – fortunatamente tanti – che hanno trovato il coraggio, in quegli istanti drammatici, di pensare non solo alla propria salvezza ma anche a quella degli altri, anche quando questo li esponeva a un rischio. E forse non sapremo mai quanti sono finiti nell’elenco delle vittime proprio per aver cercato di salvare altri.

Incontriamo qui, come nei familiari delle vittime che rifiutano di cedere alla spirale dell’odio, quello che osiamo chiamare un fondamentalismo della vita, l’unico che può opporsi a quello praticato dai terroristi che muoiono per dare la morte. Nella sua radicale semplicità, questo fondamentalismo della vita risulta trasversale rispetto a ogni etichetta, comprese quelle religiose di cristiano, musulmano o laico. Richiede un coraggio maturo, ben diverso dalla disperazione temeraria degli attentatori suicidi, che lo fa sbocciare con semplicità, senza alcuna pianificazione strategica, ma non senza un percorso di costruzione e custodia della propria umanità.

Di fronte a quei gesti mi chiedo se proprio accettare il rischio di salvare una vita anziché sacrificarla non possa diventare il criterio di valutazione della bontà delle nostre risposte a livello sociale e politico e anche il metro di misura di religioni, fedi e convinzioni profonde di ogni genere.


4. Per andare avanti

Anche se in un senso totalmente diverso da quello immaginato dai terroristi nei loro comunicati, i fatti di Parigi contengono alcune lezioni. Impararle è un modo per rendere onore alle vittime e ai veri martiri che di quegli eventi si sono resi protagonisti. Questa può essere l’apocalisse, cioè la rivelazione, di quanto accaduto alcune settimane fa. Da questo dobbiamo lasciarci ispirare nella nostra risposta al terrorismo globale.

La prima lezione è la pericolosità del meccanismo del capro espiatorio, che propone una soluzione facile, ma provvisoria e falsa. Dobbiamo tenerne conto anche nella doverosa ricerca e punizione dei colpevoli, che vanno trovati e non creati, senza produrre vittime innocenti che sono capri espiatori anche quando vengono chiamate danni collaterali. Gratificare la voglia di vendetta non spezza il circolo vizioso.

La seconda ha a che fare con quella che potremmo definire sussidiarietà nella connessione tra locale e globale. Pur senza contare su strutture statuali, anzi forse proprio per questo, i terroristi dimostrano una grande capacità nel connettere istanze locali (francesi e mediorientali) con un orizzonte globale, nel loro caso delirante. La nostra azione deve dispiegarsi anche su questo livello, promuovendo legami sussidiari per la vita anziché per la morte. Le risposte che competono agli Stati sono indispensabili e sono una risorsa in più di cui i terroristi non dispongono, ma questo livello non può assorbire tutti gli altri. Pur essendo esigue minoranze, i terroristi sanno costruire legami di coappartenenza e di identificazione nella stessa causa tra persone che vivono in luoghi lontanissimi a partire da istanze molto diverse: su larga scala dobbiamo fare lo stesso anche nella linea della promozione della vita e della pace. Con la dovuta attenzione, spazi e opportunità ci sono: ce ne siamo resi conto come Rivista nei mesi scorsi, promuovendo alcune occasioni di confronto tra esponenti di religioni diverse sul tema della partecipazione democratica e della cittadinanza, a livello locale e anche nel rapporto con la società civile siriana. Si tratta di piccoli esempi, a cui faccio riferimento perché ne sono stato testimone, nell’ottica del riconoscimento reciproco e della solidarietà tra chi rifiuta la logica del capro espiatorio.

La terza lezione riguarda la potenza delle fedi e delle convinzioni profonde. Ci lascia senza parole vedere come i terroristi sanno usarla per il male. I veri martiri ci ricordano però che quelle stesse energie sono disponibili anche per il bene, spesso (ma non necessariamente) a partire da un orizzonte religioso. Questa considerazione ci può aiutare anche a rivedere i presupposti su cui riposano le nostre analisi politiche e geopolitiche, spesso invischiate in un retaggio illuministico e positivista che guarda con sospetto a tutto ciò che ha a che fare con la religione, perdendo la capacità di comprendere i fenomeni e di sfruttare tutte le risorse disponibili, non solo quelle politiche, economiche e sociali accessibili attraverso la pratica della razionalità scientifica. Come ha scritto di recente il segretario di Stato americano John Kerry, «Sulle questioni più disparate, come guidare la crescita economica, tenere a freno la corruzione, lottare contro il terrorismo, ridurre i conflitti, promuovere i diritti delle donne e la salute pubblica, le convinzioni religiose plasmano l’opinione pubblica e quella dei promotori del cambiamento» (cfr «Religione e diplomazia», in Aggiornamenti Sociali, 10 [2015] 682-686). Se vogliamo combattere il terrorismo, non ha senso legarci da soli una mano dietro la schiena.

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