Nella storia del genere umano da sempre si può riconoscere la tensione, che attraversa varie dimensioni (politica, economica, sociale, religiosa), tra una ricerca di unità nell’armonizzazione delle diversità e una custodia della particolarità che – se assolutizzata – può arrivare da un lato a uniformare, dall’altro a escludere le diversità. Tra i due poli di questa tensione – unità e particolarità – si gioca la ricerca dell’identità di un gruppo, di una comunità (anche religiosa), di un popolo. E da sempre la storia mostra che tale ricerca non solo non raggiunge mai un punto definitivo, ma in ogni epoca si caratterizza per il succedersi di momenti in cui si realizza un certo equilibrio ad altri di scivolamento più deciso verso uno dei due poli.
Anche il popolo d’Israele è stato attraversato da questa tensione, oscillando tra una ricerca di identità, chiusa all’accoglienza e all’armonizzazione delle diversità (l’epoca post-esilica con i libri di Esdra e Neemia), e una visione molto più ampia e inclusiva, anch’essa presente in alcuni testi della letteratura post-esilica, come Rut, Giona o Isaia 56,1-8. Guardando la vicenda del popolo d’Israele nel suo insieme, si coglie come fin dall’inizio della sua storia esso abbia sempre fatto i conti con la realtà del diverso, declinato in modo particolare nella dimensione dello straniero e dell’essere straniero.
Ciò che colpisce è che l’altro, lo straniero, per il Primo Testamento è innanzitutto Israele stesso: Mio padre era un arameo errante (Deuteronomio 26,5). Il popolo di Dio è contrassegnato da una dimensione di stranierità, che è parte essenziale del suo essere fin dall’epoca dei patriarchi. Abramo lascia Ur dei Caldei e si mette in viaggio verso un’altra terra, prima insieme alla sua famiglia per decisione del padre Terach (Genesi 11,31) e poi ascoltando la voce del Signore (Genesi 12,1ss.). Dopo, al sopraggiungere di una carestia nella terra di Canaan, i figli di Giacobbe emigrano in Egitto (Genesi 45,9-11). A questo segue la vicenda dell’Esodo e, alcuni secoli dopo, l’occupazione della Palestina da parte degli assiri prima e poi dei babilonesi, con gli ebrei costretti a migrare forzosamente da deportati, strappati dalla loro città, verso Babilonia. È evidente che entrare in relazione e mettersi in movimento verso ciò che è “altro”, “diverso”, “straniero” fa parte fin dall’inizio dell’essere stesso del popolo d’Israele. Come, dunque, questa dimensione di stranierità, che emerge come caratteristica identitaria della storia biblica di Israele, può offrire dei criteri per abitare la tensione tra unità e particolarità?
L’altro “di fronte” a me
La Scrittura offre due dati, uno esperienziale e uno antropologico, che sono illuminanti. Il primo si riconduce all’esperienza dell’Esodo condensata nei versetti di Levitico 19,33-34 (cfr anche Deuteronomio 10,18-19 ed Esodo 22,20). Di questo testo sono significativi due passaggi. Tu l’amerai come te stesso: non è un semplice invito all’accoglienza, ma a vivere una relazione alla pari e a vedere l’altro come familiare, che ha dentro di sé desideri, sogni, bisogni, affetti, risorse, limiti, fragilità esattamente come noi. Perché anche voi siete stati forestieri: il ricordo – tanto quello del dolore e della sofferenza provati quanto dell’ospitalità sperimentata – è ciò che unisce i nativi del Paese agli stranieri. Attingere al ricordo della propria esperienza, passata o recente, di straniero diventa la sorgente da cui scaturisce il modo di comportarsi con altre persone straniere. Dunque proprio su questa esperienza (perché anche voi siete stati forestieri) si fonda l’etica di Israele verso lo straniero, il diverso, l’altro.
Levitico 19,33-34
33 Quando un forestiero dimorerà presso di voi
nella vostra terra, non lo opprimerete.
34 Il
forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra
voi;
tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri
in terra d’Egitto.
Io sono il Signore, vostro Dio.
Ma non c’è solo l’esperienza, bensì anche il fondamento antropologico, che discende dalla riflessione sull’esperienza, e che bene si esprime nella narrazione del secondo capitolo della Genesi: E il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia nella sua solitudine: voglio fargli un aiuto come di fronte a lui» (2,18). Il termine aiuto indica un intervento indispensabile per salvare da un pericolo mortale, ed è quasi sempre opera di Dio. Qui il soccorso progettato da Dio, per sottrarre l’uomo al pericolo mortale della solitudine, è una relazione come di fronte a lui. Senza un aiuto che gli corrisponda, che gli stia di fronte, alla pari, con cui possa condividere il suo stesso essere, l’uomo è solo. Anche se sta in un giardino insieme a Dio. E Dio questo lo sa. Ecco allora la creazione della relazione umana: Il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo (Genesi 2,21-22). La creazione della donna è compiuta da Dio mentre l’uomo dorme. Egli non è presente all’azione creatrice di Dio, non ha accesso all’origine della donna: l’altro rimane nel mistero dell’opera di Dio. E la donna viene creata togliendo uno dei suoi lati (è questa la traduzione più corretta del termine “costola”) all’uomo e costruendolo come donna: Dio prende dall’uomo stesso e richiude dove ha tolto. Questo parla di un’umanità che è comune, per questo è possibile la relazione alla pari tra gli esseri umani; ma dice anche che nessun essere umano è “tutto” l’uomo, ed è questa mancanza della “totalità” che rende possibile la relazione.
Dio conduce la donna all’uomo e si apre il cammino della relazione: l’uomo di fronte alla donna – l’uomo di fronte a ogni altro essere umano – scopre che l’altro è carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa, ha qualcosa di “suo”, che può corrispondergli, che può diventare condivisione, comunione, occasione per crescere insieme in umanità. Così la “frontiera” è ricondotta alla sua vera natura: luogo biblico delle origini e dell’incontro in cui l’uomo sta di fronte alla donna, Adamo di fronte a Eva, l’essere umano di fronte a ogni essere umano, che è davvero “altro” per ciò che porta nel cuore e nella carne, per la novità costituita dalla sua realtà, dalla sua storia, dai suoi vissuti ed esperienze umani e spirituali. Ma l’altro è anche mistero, di cui l’uomo può avere paura, preferendo allora rimanere nel già conosciuto, non accogliendo la sfida di andare verso l’altro e la sua novità. È quanto narra l’episodio della torre di Babele, in Genesi 11,1-9.
La tentazione dell’uniformità autosufficiente
Nella narrazione del primo capitolo della Genesi Dio crea l’uomo e impartisce su di lui una benedizione che implica anche di riempire la terra (Genesi 1,28), di abitarla e così di portare a compimento l’opera creatrice di Dio. Nel decimo capitolo, attraverso la cosiddetta Tavola dei popoli che descrive la discendenza dei figli di Noè dopo il diluvio, al v. 18 incontriamo una frase, che si può considerare come il compimento dell’ordine di Dio di riempire la terra: Da costoro si dispersero le nazioni dopo il diluvio. Si tratta di una dispersione secondo l’ordine e il volere di Dio. Subito dopo, in Genesi 11,1-9, viene presentato l’uomo, che trasforma quest’opera di riempire la terra in collaborazione con Dio e secondo i suoi criteri originari in una propria opera, autosufficiente e autonoma da ogni riferimento al Creatore.
Il racconto inizia con un’affermazione: Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole (v. 1). Queste espressioni – unica lingua (letteralmente labbro) e uniche parole – si ritrovano nei documenti dell’impero assiro (IX-VII sec. a.C.) e hanno lo scopo di descrivere l’unità e la stabilità dell’impero attorno al re, che è riuscito a pacificarlo e lo ha sottomesso alla sua volontà, anche con l’esercizio della forza e della violenza. Esse fanno parte del formulario utilizzato dalla propaganda reale, per affermare la potenza del sovrano e convincere le popolazioni sottomesse a non ribellarsi. La costruzione di una città e di una torre è il passo successivo: il re – una volta stabilizzato l’impero sotto la sua obbedienza – ne costruisce la capitale, con mura e fortificazioni tali da scoraggiare qualsiasi moto di ribellione. Anche nel brano biblico si vuole costruire una torre, la cui cima tocchi il cielo (v. 4): un’immagine iperbolica, per sottolinearne la grandezza e l’altezza. Infine, è espresso il desiderio di farsi un nome, cioè – attraverso le imprese menzionate di conquista e realizzazione di opere grandiose – darsi la possibilità di non essere dimenticati, garantirsi un perdurare nel tempo, una certa immortalità. Tutto questo è compiuto per non disperderci su tutta la terra (v. 4): ciò che spinge questi uomini è il non volersi esporre al rischio della dispersione e della fragilità, che inevitabilmente ne consegue.
In questi versetti gli uomini appaiono intrecciare un fitto dialogo e si esortano a vicenda a compiere azioni che sono per loro: facciamoci mattoni, costruiamoci una città, facciamoci un nome, per non disperderci. Il loro orizzonte coincide e si esaurisce con la loro esistenza e la direzione del loro agire è contraria all’invito di Dio: non è un movimento per riempire la terra accogliendone la ricchezza, la diversità, gli infiniti aspetti ed elementi che la compongono, e sentendosene parte, ma di “ritirata” dalla terra, un volgersi verso se stessi, contando solo sulle proprie capacità. È un movimento centripeto, contrario a quello centrifugo desiderato da Dio, che promuove la differenza e l’espansione, non l’uniformità e la concentrazione; il suo disegno è la molteplicità, non l’esclusivismo e l’autoripiegamento. «Il mondo pluriforme e multiculturale di Dio viene così a opporsi a quello fanatico, settario e omologante della sua creatura, nel quale la chiusura e il rifiuto di tutto ciò che è altro assurgevano a norma e fine, negli angusti limiti dell’autopreservazione identitaria» (Giuntoli F., Genesi 1-11. Introduzione, traduzione e commento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, 175).
Gli uomini stanno decidendo tra di loro, in dialogo solo tra loro stessi, non più con il creato né con il Signore, il loro modo di abitare la terra. L’essere umano diventa quasi un nuovo creatore di se stesso – facciamoci un nome – e della sua identità, ma in un processo di uniformazione, che è “de-creazione”, e dunque un progetto portatore di morte e non di vita.
La dispersione delle lingue come antidoto
Ma il Signore scese a vedere (Genesi 11,5): Dio si china, si abbassa verso l’uomo, non è indifferente alle vicende umane, soprattutto se di sofferenza e di peccato. In questo “scendere” si può percepire anche una certa ironia: per quanto gli uomini vogliano costruire una torre la cui cima tocchi il cielo, Dio continua a rimanere più grande e, per vedere le opere degli uomini, deve scendere. E ciò che vede è che gli uomini stanno compiendo la loro opera (v. 6), che non corrisponde al suo progetto creatore. Per questo interviene, confondendo le lingue e quindi riportando la dispersione, cioè rendendo di nuovo possibile quel riempire la terra che gli uomini per paura dell’altro avevano rifiutato.
Il confondere le lingue da parte di Dio non può essere relegato a una semplice “punizione”, ma è un reale aiuto per gli uomini, perché rimangano umani e ricostituiscano quello spazio sano di custodia dell’alterità e della diversità, che apre poi il cammino della conoscenza reciproca: «Confondendo il loro linguaggio, Adonai accentua e consacra le differenze che gli umani sacrificano al “noi” totalitario. In tal modo sarà ormai impossibile a chiunque negare la propria singolarità e sognare un’uniformità autosufficiente. Avvalorando la diversità, accentua la difficoltà di qualsiasi comunicazione, in modo tale che nessuno creda di comunicare o di essere in comunione, se non ha innanzitutto accolto l’alterità dell’altro, se non ha accettato e attraversato le differenze, rispettandole» (Wénin A., Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. I. Genesi 1,1–12,4, EDB, Bologna 2008, 161).
Dio rilancia, così, una dispersione, che segue Genesi 1,28 e 10,18, e riafferma la diversità come una componente buona dell’umanità, che gli uomini possono custodire secondo l’ordine di Dio e quindi crescendo, in Lui, in una superiore unità che armonizzi tutte le particolarità. L’uniformità invece, frutto di omologazione delle particolarità, non è secondo l’ordine di Dio e non è vera unità. «Il volere di Dio è che l’umanità non sia né confusa, cioè che le sue componenti si combinino in modo inopportuno, né divisa, cioè che le sue componenti si autonomizzino. La comunità umana al tempo stesso dispersa e unificata, invece, è come la natura di Dio, che confessiamo Una e Trina, Trina e Una», né confusa né divisa (Brueggemann W., Genesi, Claudiana, Torino 2002, 128).
Questa prospettiva biblica permette di leggere, oggi e in ogni tempo, la realtà umana, che si presenta in se stessa “multi” forme (multiculturale, multireligiosa, multietnica), come un dato originario, che è parte del DNA dell’umanità creata da Dio, e dice chiaramente che stare nell’umano significa stare in tale “multiformità”, come via privilegiata per crescere in pienezza di umanità. Questo è il fondamento, non l’ostacolo, per crescere in quell’unità secondo Dio, che si costruisce sulle frontiere – geografiche ed esistenziali –, dove l’essere umano è nella sua posizione originaria, cioè di fronte all’altro: la vera sfida del mondo contemporaneo forse si gioca qui.