«In un tempo in cui i limiti della leadership sono messi alla prova in molti luoghi, arriva un uomo senza esercito né armi, senza regno al di là di uno stretto pugno di terra nel mezzo di Roma, ma con l’immensa ricchezza e il peso della storia alle spalle, per lanciare una sfida». Questo è uno dei passaggi chiave dell’editoriale scritto da Nancy Gibbs, all’epoca direttrice di Time, per presentare le motivazioni che hanno spinto la prestigiosa rivista statunitense a nominare Persona dell’anno per il 2013 Jorge Mario Bergoglio, eletto papa solo pochi mesi prima. La sfida a cui la giornalista fa riferimento è riassumibile nella scelta di papa Francesco di essere presente e intervenire sui grandi dibattiti del nostro tempo, trovando ascolto e interesse, perché «raramente un nuovo protagonista della scena mondiale ha catturato così rapidamente l’attenzione di giovani e meno giovani, fedeli e cinici» (cfr <https://poy.time.com/2013/12/11/pope-francis-the-choice>).
Una credibilità che non sbiadisce
A dieci anni di distanza e nonostante non siano mancati momenti più critici e attese alle volte tradite, queste parole restano fondamentalmente valide, perché fotografano il modo in cui papa Francesco fin dai primi mesi del suo pontificato concepisce e svolge il mandato di guidare la Chiesa cattolica. Non si tratta di una constatazione scontata: viviamo in un’epoca contrassegnata da una velocità impensabile solo pochi decenni fa, che sperimentiamo in tanti ambiti della vita (la precarietà affettiva e professionale, il mondo della comunicazione, l’accorciarsi delle distanze fisiche negli spostamenti, le mode culturali…). Tutto si consuma rapidamente, incluso il credito accordato a quanti hanno una responsabilità a livello politico, sociale, ecclesiale. Per questo, rappresenta una sorpresa positiva il fatto che papa Francesco continui a essere una delle figure pubbliche più stimate a livello mondiale, dentro e fuori la Chiesa cattolica: non è stato accantonato una volta sbiadito l’effetto “novità”, ma anzi è ancora ritenuto credibile e per questo autorevole, un riferimento a cui rivolgersi in una fase storica confusa e liquida, anche solo per prenderne le distanze e rimarcare criticamente le differenze, perché c’è bisogno anche di questo per alimentare una sana dialettica di pensiero all’interno di una realtà che aggrega più persone.
Evidentemente papa Francesco comprende e declina il suo ruolo di leadership in una maniera che è consonante con le attese e i bisogni di un gran numero di persone, riuscendo a parlare alle loro vite. Per questo, a dieci anni dalla sua elezione, è interessante approfondire questo aspetto. I tre punti che ci colpiscono non hanno direttamente a che fare con la dimensione organizzativa legata alla leadership (ad esempio, la scelta dei collaboratori, la distribuzione dei compiti, le deleghe), ma sono più sul piano dello stile e delle motivazioni. È questo, a nostro parere, il cantiere più rilevante: individuare e capire meglio le matrici alla base del modo di agire di papa Francesco può offrire piste di riflessione utili a chi ricopre un ruolo di responsabilità, a qualsiasi livello e in qualsiasi ambito, e si trova – alle volte smarrito e con la sensazione di essere stato lasciato solo – a fare i conti con una crescente crisi di identità e legittimità, come tante vicende della cronaca italiana degli ultimi mesi mostrano.
Farsi prossimo
Fin dai primi gesti e discorsi, papa Francesco ha mostrato una straordinaria sintonia con le persone che incontra, grazie alla sua capacità di sentire e riconoscere le gioie e gli affanni che provano. Si tratta di una qualità coltivata nel tempo, negli anni di ministero spesi a fianco delle persone in Argentina prima come gesuita e poi come vescovo della metropoli di Buenos Aires. Le scelte di sobrietà che ha compiuto una volta eletto Papa, che tanto hanno colpito l’immaginario pubblico (cfr il testo di Teresa Forcades, qui alle pp. 160-163), erano state precedute da altre analoghe nel periodo argentino, che trovano la loro motivazione non solo nell’amore per la povertà, ma anche nel desiderio di restare vicino alle persone. Si coglie un’attenzione: non lasciare che l’incarico ricevuto si tramuti in un ostacolo all’ascolto e all’incontro, che diventi un riparo dall’essere rimessi in discussione dalla durezza delle vicende con cui ci si confronta o dalla bellezza di un evento che non rientra nelle coordinate di quanto già noto e accettato. Si tratta di stare accanto alle persone non rimanendo nella posizione di chi è investito del compito di fare o dare qualcosa, ma di chi riceve e impara dall’esperienza di incontro vissuta, di chi riconosce la ricchezza del cammino fatto insieme, come attestato dal processo sinodale promosso da papa Francesco (cfr il contributo di Giacomo Costa a pp. 153-157).
Come il samaritano della parabola lucana, a cui non a caso è dedicato un intero capitolo dell’enciclica sociale del 2020 Fratelli tutti, papa Francesco sa farsi prossimo, sa stare a fianco delle persone e far sentire il suo sostegno, con le parole o con gesti concreti. È così con la mamma che ha il figlio malato a cui fa una telefonata, con i giovani di un istituto penitenziario dove si reca per celebrare la liturgia del giovedì santo, con un sacerdote in difficoltà a cui scrive un messaggio. Come il samaritano, sa prendersi cura delle ferite di chi incontra, che non significa semplicisticamente dire parole buone, ma comprendere che cosa è più utile in una determinata situazione, alla luce delle persone che sono coinvolte. Questo può tradursi in un incoraggiamento, ma anche in una provocazione che scuote e mostra le incongruenze che si vivono, la perdita di slancio e di passione, l’accettazione di compromessi al ribasso. La vicinanza di papa Francesco passa anche per mostrare che esistono delle ferite a livello sociale, “scomodando” chi sarebbe chiamato ad adoperarsi per curarle e invece resta inerte.
Questa prossimità trova un riflesso immediato nella sua capacità di comunicare in modo semplice e immediato. Sono ormai numerose le frasi o le espressioni di papa Francesco subito riconosciute, senza bisogno di citare la fonte, come ad esempio «l’economia che uccide». Per poter comunicare al meglio mette in gioco anche la creatività, coniando parole nuove quando è necessario per farsi capire, tra cui il famoso «misericordiando», per aprire spazi a uno sguardo rinnovato, oppure ricorrendo a immagini che parlano facilmente e sono capaci di sintetizzare in modo efficace quanto propone a livello di idee, motivazioni, atteggiamenti: è il caso del poliedro, simbolo della diversità nell’unità, utilizzato per la prima volta nell’Evangelii gaudium, il suo testo “programmatico” del 2013. Dietro questa semplicità non vi è banalità o semplificazione, anzi quanto è comunicato è frutto di un’attenta riflessione, ma la profondità non va a scapito della continua ricerca di un terreno di incontro comune e accessibile agli interlocutori, perché la vera posta in gioco è di poter camminare insieme e non come un leader isolato.
Senza temere i conflitti
Una dimensione che facciamo sempre più fatica a vivere oggi, e per questo tendiamo a rimuovere e a schivare, è quella del conflitto. Ma questo atteggiamento non ci esenta dal doverci fare i conti e a ritrovarci come singoli e come comunità coinvolti in conflitti più o meno gravi, alle volte anche con la responsabilità di gestirli. Papa Francesco in questi anni di pontificato si è confrontato con conflitti in cui era una delle parti in causa, con polarizzazioni e tensioni significative in alcuni casi (ad esempio, nei rapporti con la Chiesa statunitense o con l’episcopato tedesco), accompagnati spesso dal clamore di polemiche e contestazioni sui mezzi di informazione; oppure è stato testimone esterno di conflitti, sollecitato talvolta a intervenire per mediare e facilitare la ricerca di una via di uscita, o in altri casi ha avvertito l’urgenza di levare la propria voce per denunciare l’insensatezza di tante situazioni di violenza e predazione, che mietono vittime tra i più deboli in tutti i continenti, compiendo anche gesti altamente simbolici come baciare i piedi dei politici del Sud Sudan per invitarli alla riconciliazione.
Non è stato certo colto alla sprovvista da tutto questo. Fin dagli anni ’70 si era misurato su questo tema condividendo alcune riflessioni con i suoi confratelli gesuiti, che ritroviamo in una forma più sistematica nei passaggi dell’Evangelii gaudium dedicati proprio al tema del conflitto e dell’unità (EG, nn. 226-230). Il richiamo al valore superiore dell’unità, subito associata alla solidarietà, non equivale a un forzato sincretismo, all’annullamento delle differenze, e quindi al disconoscimento della dignità insita nelle diverse posizioni che sono sostenute, ma alla ricerca di una sintesi nuova e promettente, di una riconciliazione, «dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita» (EG, n. 228).
Queste indicazioni generali possono e devono tradursi a un livello pratico in indicazioni più concrete per attraversare i conflitti senza restarne prigionieri, indicazioni che valgono per tutti ma che sono ancora più importanti per un leader. In particolare, due declinazioni si impongono, perché oggi sono sempre meno praticate. In prima battuta, papa Francesco ha mostrato quanto sia dannosa la logica dei personalismi, che fomentano le contrapposizioni e fanno perdere di vista quel bene comune e più grande verso cui tendere, come nel caso delle tante guerre in corso, inclusa quella in Ucraina. Un altro passo verso la composizione in unità dei conflitti si realizza quando si è capaci di riconoscere e chiedere perdono per gli errori che sono stati commessi in buona o mala fede, come ha fatto Francesco a proposito di alcune sue dichiarazioni riguardo i casi di abusi in Cile. La maturità e la forza necessarie per assumersi la responsabilità di scelte sbagliate pongono le fondamenta perché vi sia un confronto più libero e costruttivo, capace di guardare al domani e non restare bloccati in quanto è successo nel passato. Quando si è in grado di vivere questo passaggio, allora le divisioni che sono presenti all’interno della comunità possono essere viste in modo diverso e si apre uno spazio per i processi di riconciliazione.
Costruendo davvero il futuro
Difficile fare il calcolo di quante volte papa Francesco parla del futuro. Lo fa rivolgendosi ai giovani, ma anche agli anziani, lo fa richiamando l’idea che ha dato vita all’Unione Europea o la missione evangelizzatrice della Chiesa. Si potrebbe pensare che vi sia quasi un’ossessione in questo continuo invito a sognare il futuro, a immaginare come dovrebbe essere e come costruirlo. Di sicuro, è un atteggiamento lontano dal clima culturale che si respira in tante parti dell’Occidente dalla demografia calante – certamente nel nostro Paese –, dove non sembra più possibile e sensato contemplare il futuro, tanto siamo schiacciati in un presente che non lascia spazio e tempo per nient’altro che inseguire in modo affannoso il succedersi degli impegni quotidiani. Non c’è più futuro e non c’è neanche memoria del passato, e non è certo un caso. A questa miopia distorsiva, che appiattisce tutto all’istante attuale e finisce per svuotare anche il presente che viviamo, resiste papa Francesco, esercitando fino in fondo quel compito che è lecito attendersi da chi ha la responsabilità di una comunità, di un Paese. Ne abbiamo una testimonianza chiarissima nel testo della Laudato si’. La ricchezza di questa enciclica permette che sia letta a diversi livelli, tra cui vi è anche l’esercizio prezioso e non banale di leggere il tempo che stiamo vivendo, consapevoli del cammino più o meno accidentato che ci ha condotti fino qui e levando lo sguardo verso il domani, accolto non come un destino da subire, ma come un sogno da costruire. In questo procedere è facile riconoscere i passi del discernimento ignaziano, riconoscere, interpretare, scegliere, a cui papa Francesco più volte si è richiamato e che ha proposto come metodo da adottare (cfr EG, n. 51).
Ancora di più la Laudato si’ mostra come sia possibile tenere insieme tra loro una visione capace di abbracciare la vastità e la complessità dell’oggi, di «ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (LS, n. 49), e allo stesso tempo di riconoscere e dare il giusto valore ai piccoli gesti della quotidianità, come spegnere le luci inutili o ridurre il consumo di acqua (LS, n. 211). L’articolazione di globale e locale, lo sguardo d’insieme e il dettaglio – piani apparentemente fuori scala tra loro – non è solo possibile, ma è anche necessaria, perché è la via per rendere migliore il presente e costruire il futuro, misurando i passi con le possibilità concrete, facendo attenzione a chi è più vulnerabile non solo oggi (e già questo sarebbe un traguardo vista la continua crescita delle diseguaglianze nel nostro Paese) ma anche nelle generazioni future.
Nell’editoriale di Time di dieci anni fa si diceva che papa Francesco «non ha cambiato le parole, ma la musica» riferendosi alle sue scelte iniziali per una Chiesa in uscita, povera e con i poveri, un ospedale da campo. L’intuizione alla base di questo commento si applica bene anche al tema della leadership esercitata da papa Francesco. La prossimità alle persone, il saper stare nei conflitti, la capacità di una visione che dall’oggi si proietta al domani non costituiscono novità quando si parla di leadership, ma questi anni di pontificato hanno mostrato che incarnare un ruolo di guida con questi tratti non è utopistico. Si può accompagnare il cammino dei singoli e di una comunità verso una meta comune e condivisa senza strappi o imposizioni unilaterali, senza rassegnarsi all’idea che non vi sia possibilità per un cambiamento. Questo vale per chi riveste un ruolo di responsabilità, ma più in generale risuona come autentico e profetico per tutti coloro che concepiscono la propria vita in relazione con gli altri.
Foto: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Pope_Francis_Photo_1.jpg