A porre termine a dieci giorni di negoziati, infine, non è stato il raggiungimento di un consenso generale ma, più banalmente, gli orari dei voli di ritorno. Dopo che le discussioni si erano protratte durante la notte di venerdì 1 novembre, ultimo giorno della sedicesima Conferenza delle parti sulla biodiversità (COP16), sabato mattina molti dei delegati dei Paesi in via di sviluppo, che non potevano permettersi un biglietto con il ritorno aperto, hanno dovuto fare i bagagli e andare in aeroporto, facendo così mancare il quorum per le decisioni più importanti. Francamente, ci aspettavamo una conclusione più elegante per la Conferenza, che ha avuto luogo a Cali, in Colombia, per discutere di quello che viene soprannominato “l’Accordo di Parigi della biodiversità”, cioè il Kumming-Montreal Framework, il quadro per coordinare a livello internazionale le politiche di tutela della biodiversità.
Detto questo, vediamo quali progressi sono stati fatti a Cali, quali invece non sono stati fatti, e quali sono le prospettive aperte.
Gli impegni nazionali per la biodiversità
Quella di Cali è stata la prima Conferenza dopo l’approvazione del Protocollo di Kumming-Montreal (2022), che ha impegnato ogni parte firmataria a presentare in sede ONU gli impegni assunti nei propri confini (National Biodiversity Pledges, NBSAPs) per la tutela della biodiversità, entro la COP16. L’obiettivo all’orizzonte è il piano “30x30”, cioè mettere sotto tutela il 30% delle aree naturali e ripristinare il 30% delle aree degradate, entro il 2030 (ne abbiamo parlato qui). Ma all’inizio della Conferenza solo 26 parti su 196 l’avevano fatto. Tra di esse solo cinque su diciassette dei cosiddetti “Paesi megadiversi”, quelli che includono le più elevate concentrazioni di biodiversità endogena. Le principali nazioni amazzoniche (Brasile, Colombia e Perù) avevano mancato la scadenza, e così anche le sei nazioni del Bacino del Congo. La motivazione per lo più addotta riguarda i ritardi nell’accesso ai fondi internazionali della Global Environmental Facility (GEF), necessari per la copertura finanziaria dei piani nazionali. Nota a margine: uno dei Paesi megadiversi sono gli Stati Uniti, che tuttavia non partecipano ai negoziati in quanto non hanno mai ratificato la Convenzione sulla diversità biologica. L’Unione Europea, invece, ha rispettato i tempi. La Conferenza ha dato modo ad alcuni Stati di recuperare il ritardo e, ad oggi, sono 44 i Paesi che hanno consegnato i propri piani nazionali. Questi ritardi rappresentano un problema perché, in ultima analisi, la responsabilità di attuare le politiche di tutela ambientale è in carico ai singoli Stati: se gli impegni non vengono presentati, è indizio che i piani attuativi non sono ancora stati elaborati.
Finanza allo stallo
Eccoci al punto di scontro più caldo dei negoziati, con la non inedita contrapposizione tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo. Questi ultimi avevano richiesto la creazione di un nuovo fondo dedicato alla biodiversità, ma la proposta ha incontrato l’opposizione dell’Unione Europea e di altri Paesi del Nord globale. Ricordiamo che il Global Biodiversity Fund, approvato due anni fa alla COP15, prevedeva di mobilitare almeno 200 miliardi di dollari all’anno, da finanza pubblica e privata, entro il 2030, ed impegnava i Paesi industrializzati ad attivare flussi dell’ordine di 25 miliardi all’anno entro il 2025. A settembre di quest’anno, sette Paesi industrializzati avevano contribuito al fondo, per un totale di 250 milioni (anche se la somma globalmente mobilitata per la biodiversità è più alta, come mostra questo rapporto dell’OCSE). Comunque, nessun accordo è stato raggiunto in questa materia e la discussione è rimandata alla sessione intermedia dell’anno prossimo. La bozza di accordo finale, rimasta senza approvazione, riporta la decisione di istituire un nuovo fondo, da rendere operativo entro il 2030. Da notare che viene menzionato uno dei cavalli di battaglia della presidenza colombiana: il riconoscimento del gap finanziario e del peso del debito sui Paesi in via di sviluppo. Detto in termini più semplici: la comunità internazionale non può chiedere alle nazioni più povere di indebitarsi per tutelare la biodiversità.
«Ai Paesi del Nord globale: la vostra inazione ci sta paralizzando. I nostri debiti nei vostri confronti ci stanno paralizzando. La vostra incapacità di assumervi le responsabilità dovute ci sta mettendo sulla strada dell'estinzione» (Safiya Sawney, delegata di Grenada)
Digital Sequence Information (DSI)
DSI è un termine utilizzato nei colloqui internazionali per indicare le informazioni genetiche degli organismi. Queste informazioni sono spesso ottenute da piante e animali dei Paesi in via di sviluppo, ricchi di biodiversità, da parte di imprese che hanno sede principalmente nel Nord globale e che le utilizzano per realizzare prodotti come farmaci, cosmetici e alimenti. Per questo motivo, i Paesi in via di sviluppo chiedono da tempo l'istituzione di un meccanismo internazionale che garantisca che i benefici della DSI siano condivisi equamente con le popolazioni che vivono dove le risorse sono state scoperte, compresi i gruppi indigeni. Un meccanismo di questo tipo è stato approvato nella COP15 a Montreal, ma con delle lacune che la COP di Cali ha inteso affrontare. La decisione finale è la costituzione di un fondo, gestito da un meccanismo multilaterale e sovvenzionato dalle imprese che utilizzano i dati genetici, nella misura dello 0,1% dei loro guadagni. Ma le imprese saranno obbligate a versare questi contributi? Tutto lascia intendere di no. Infatti, il testo approvato dice che «tutti gli utilizzatori di informazioni digitali sulle sequenze di risorse genetiche nell'ambito del meccanismo multilaterale dovrebbero (should) condividere i benefici derivanti dal loro utilizzo in modo giusto ed equo [...] dovrebbero contribuire al fondo con i loro profitti, in base alle loro dimensioni» (art. 2-3). L’uso del condizionale, di fatto, significa che i contributi sono lasciati all’iniziativa delle imprese e che i tassi sono indicativi. A chi andranno i fondi raccolti? «Almeno la metà» dovrà essere destinata a comunità locali e indigene, in base alle necessità manifestate dalle stesse, «in base alle circostanze nazionali» (art. 20). Anche sulla destinazione dei fondi, quindi, il quadro appare vago.
Una buona notizia per le popolazioni indigene
Un buon risultato della Conferenza è l’adozione di un organo sussidiario (subsidiary body), all’interno della Convenzione sulla diversità biologica, specialmente dedicato ai popoli indigeni e alle comunità locali (IPLCs). Era una richiesta prioritaria da parte dell’International Indigenous Forum on Biodiversity, la rete delle organizzazioni indigene che dal 1996 porta la loro voce alle Conferenze. La COP ha approvato un programma di lavoro per implementare l’ articolo 8(j) della convenzione, dedicato alla tutela e promozione del ruolo delle comunità locali e indigene nella gestione della biodiversità.
Questo passo in avanti nel riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni rappresenta una vittoria, e come tale è stata celebrata dalle loro rappresentanze. Uno sguardo generale alla Conferenza, tuttavia, lascia un senso di frustrazione per lo stallo dei negoziati e le tante ambiguità, sulle quali grava il peso degli interessi e delle disuguaglianze economiche globali. I negoziati intermedi che si terranno nel 2025 dovranno affrontare e, auspicabilmente, sciogliere il nodo della finanza che appare come il principale ostacolo alle trattative.
«Le foreste, i fiumi e le giungle sono ambienti con cui coesistiamo; non sono semplici oggetti da dominare. Noi siamo parte della foresta. I territori vengono preservati perché le comunità mantengono un rapporto equilibrato con la terra» (Luz Enith Mosquera, Chocó Solidarity Interethnic Forum).