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Trump: cento giorni di montagne russe

Immagine: The White House

Fascicolo: maggio 2025

Cento giorni sulle montagne russe. Questa metafora sintetizza bene l’inizio del secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca. I primi mesi sono generalmente considerati i più favorevoli per un Governo appena entrato in carica, grazie al consenso che riscuote sull’onda del voto, e i più importanti per cercare di realizzare alcuni obiettivi simbolici del proprio programma elettorale. Nel caso del presidente Trump sono stati cento giorni disorientanti, che hanno sgretolato alcune certezze sul piano interno e internazionale.

Dal giorno del giuramento, abbiamo assistito a un succedersi di dichiarazioni roboanti per ribadire che l’America è tornata e «sarà presto più grande, più forte e molto più straordinaria che mai» (Discorso al Campidoglio del 20 gennaio 2025). Le prese di posizione a livello politico hanno suscitato sorpresa, se non veri e propri shock, per l’opposizione democratica e le parti di società civile lontane da Trump negli Stati Uniti, e per gli alleati tradizionali, in primo luogo i Paesi europei. Gli esempi sono numerosi: dall’ondivaga linea politica tenuta rispetto ai conflitti in Ucraina e a Gaza, alle dichiarazioni sulla Groenlandia. Vi sono poi le decisioni annunciate e in alcuni casi modificate, sospese o ritirate ancor prima di essere attuate, come è accaduto per i dazi adottati nel corso di questi mesi, con le inevitabili conseguenze in termini di chiarezza e stabilità, oltre che di credibilità e affidabilità, dell’azione politica e amministrativa.

Cento giorni carichi di adrenalina, proprio come quando si sale sulle montagne russe, dove alcuni si divertono e altri urlano terrorizzati, ma tutti sono concentrati su quanto vivono, smettendo per quel breve lasso di tempo di guardarsi intorno e pensare a ciò che li attende una volta concluso il giro sulla giostra. Questa metafora aiuta a descrivere quanto stiamo vivendo, ma è inevitabilmente imperfetta. In questo caso, la scelta di salire sulle montagne russe è stata presa da uno per tutti, il presidente Trump con la sua amministrazione, il quale ha anche impostato la velocità di marcia. In altre parole, sta cercando di dettare l’agenda politica, distogliendo l’attenzione dai temi che potrebbero essere più scomodi, inondando i canali informativi con annunci ad effetto, gesti eclatanti e numerosi provvedimenti. Finora questa operazione sta funzionando in termini mediatici, riuscendo a far passare in secondo piano che i risultati concreti raggiunti sono ben inferiori delle promesse fatte.

Proprio per queste ragioni, l’appuntamento simbolico dei cento giorni, che è stato il 29 aprile 2025, è l’occasione per sottrarsi al diktat di commentare l’ultima trovata di Trump e della sua Amministrazione, per soffermarsi sulle sue scelte di fondo e sulle conseguenze che ne derivano.

 

Governare per editti

Un aspetto che colpisce è l’ampio ricorso agli ordini esecutivi da parte del presidente Trump. Solo nel giorno del giuramento ne ha firmati decine, per revocare ad esempio 78 decisioni prese dal suo predecessore Joe Biden, far uscire gli Stati Uniti dall’accordo sul clima di Parigi e dall’Organizzazione mondiale della sanità, cambiare il nome al Golfo del Messico, graziare gli autori dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Questa pratica è proseguita nelle prime settimane di mandato, al punto che già
a fine marzo, dopo aver firmato il centesimo provvedimento, Trump ha superato ogni suo predecessore nella storia contemporanea per il numero di ordini esecutivi adottati nei primi cento giorni.

Come si intuisce dal loro nome, gli ordini esecutivi sono provvedimenti del Presidente degli Stati Uniti con forza di legge che entrano immediatamente in vigore, senza la necessità che vi sia un’approvazione del Congresso, e servono a indirizzare l’azione delle agenzie che costituiscono il Governo federale. Attraverso questi strumenti giuridici, il Presidente in carica può prendere decisioni politiche dalle rilevanti conseguenze. Nel passato, ad esempio, il presidente Frank Delano Roosevelt fece largo uso degli ordini esecutivi per ampliare le competenze federali e sostenere le leggi approvate dal Congresso per dare corso al suo programma del New Deal.

Al momento, Donald Trump sta intervenendo soprattutto per ridurre bilanci e personale a disposizione dell’apparato amministrativo federale; ricordiamo a proposito che ha affidato a Elon Musk la guida del neocostituito Dipartimento per l’efficienza del governo (Department of Government Efficiency, DOGE). Si tratta di scelte politicamente rilevanti, come dimostrano ad esempio le conseguenze dei tagli a livello di bilancio subiti dall’agenzia per lo sviluppo internazionale (USAID) o quelli realizzati nel settore sanitario e agricolo.

Sempre attraverso ordini esecutivi, Trump ha scatenato la guerra commerciale delle ultime settimane, introducendo dazi per tutti i Paesi, colpendone alcuni in particolare (la Cina in primo luogo, ma anche i vicini Canada e Messico, nel timore che possano diventare cavalli di troia perché le merci cinesi raggiungano il mercato statunitense) e penalizzando l’importazione di alcuni prodotti (acciaio, alluminio, automobili).
I dazi si rivelano anche uno strumento per forzare alcuni Paesi, soprattutto nell’America centrale e meridionale, ad accettare di accogliere i migranti che sono deportati dagli Stati Uniti, una collaborazione ottenuta per evitare le conseguenze economiche del protezionismo. Allo stesso modo, i tagli ai bilanci federali sono anche la leva per costringere quanti li subiscono, ad esempio le università, a rivedere i propri programmi o scelte per venire incontro alle richieste del Governo federale.

 

L’insofferenza per le regole

Nonostante i repubblicani abbiano la maggioranza al Congresso e al Senato, per quanto risicata, il presidente Trump sta facendo ampio ricorso a uno strumento giuridico che gli permette di realizzare la propria agenda politica evitando i confronti e le mediazioni proprie di un dibattito in sede parlamentare. Tutto questo accade senza incontrare troppe resistenze, visto che, per ragioni diverse, i rappresentanti di entrambi i partiti storici sembrano essere stati “travolti” dalle recenti vicende. All’accentramento di potere che si sta concretizzando nelle mani dell’Esecutivo risponde al momento il potere giudiziario. Ad esempio, l’ordine esecutivo che comprime l’acquisizione della cittadinanza statunitense perché si è nati sul territorio degli Stati Uniti, riconosciuto dal 14º emendamento della Costituzione, è stato bloccato perché ritenuto incostituzionale da un giudice nominato dal repubblicano Ronald Reagan. Si tratta di un dato significativo, perché serve a smontare le narrazioni di una magistratura a priori ostile nei confronti dell’Amministrazione Trump. Le ragioni di preoccupazione però sono concrete. Vi sono, infatti, pericolose avvisaglie di scontri futuri, dato che il Presidente ha ignorato alcune recenti sentenze dei tribunali federali, che richiedevano la revoca della sospensione degli aiuti esteri, dei licenziamenti massicci di dipendenti federali e la fine delle deportazioni di categorie protette di immigrati.

Se si considera la tenuta democratica, è preoccupante il tentativo di sottrarsi al sistema di pesi e contrappesi su cui si regge l’ordinamento degli Stati Uniti (così come ogni democrazia), secondo cui l’esercizio del potere implica una responsabilità e va incontro a limiti e controlli. La guerra dichiarata allo Stato di diritto, come ha affermato J. Michael Luttig, un ex giudice federale di area conservatrice, può portare a una crisi costituzionale e a uno scontro tra i poteri, che deve preoccupare anche noi e non solo i cittadini statunitensi (Molinari E., «Trump contro i magistrati. Come mai nessuno prima», in Avvenire, 21 marzo 2025).

 

Le minacce da sventare

Se poi si sposta l’attenzione sul piano politico, un primo aspetto balza agli occhi: in questa fase l’inquilino della Casa Bianca si “accontenta” di interventi che hanno inevitabilmente un respiro meno ampio di quello che potrebbero avere le leggi approvate attraverso l’iter parlamentare. Il sogno MAGA (Make America Great Again) cammina su gambe ben più corte di quelle che la retorica sottostante vuol far credere: si fa fatica a rintracciare una progettualità oltre gli annunci ripetutamente proclamati. Secondo alcuni commentatori statunitensi, la scommessa di Donald Trump è di far credere di avere un piano e di avere il potere per realizzarlo. Tuttavia, se davvero pensasse che è così, «sarebbe un errore da parte sua, un autoinganno che potrebbe condannare la sua presidenza. Ma la vera minaccia è se persuade il resto di noi a credere di avere il potere che non ha» (Klein E., «Don’t Believe Him», in The New York Times, 2 febbraio 2025). Accanto a questa minaccia, ve n’è un’altra che va riconosciuta per cercare di evitare che si realizzi, perché mina la democrazia.

Per spiegare la condotta politica di Donald Trump, che si presenta imprevedibile e caotica, si è evocato il suo passato di imprenditore: l’uomo politico ragionerebbe seguendo i parametri di chi gestisce un’attività economica. Altri richiamano il gusto per l’azzardo del giocatore di poker, che riesce a vincere perché capace di bluffare anche quando non ha buone carte in mano. Probabilmente c’è del vero in entrambe le letture, ma si fa riferimento ad aspetti distorti del modo di intendere l’essere imprenditore o pokerista.

Da un lato, emerge una politica ridotta a contabilità, in cui prende il sopravvento la monetizzazione di ogni scelta, la considerazione del tornaconto che se ne ricava, la scarsa o del tutto assente attenzione al bene comune e alle conseguenze che ne derivano per migliaia di persone, dai dipendenti federali licenziati di punto in bianco al mezzo milione di migranti venezuelani, cubani, haitiani e nicaraguensi a cui è stato revocato lo status legale di migranti (decisione bloccata da un giudice), alle persone che beneficiavano di programmi di cooperazione internazionale che sono stati improvvisamente tagliati. Dall’altro, risalta l’insofferenza verso le regole, quando non sono a proprio favore, e la presunzione di potersi collocare al di sopra di esse, forzando i limiti costituzionali degli ordini esecutivi per imporre una visione e rifiutando gli interventi da parte di altri poteri che richiamano alla salvaguardia dei valori alla base della Costituzione e al rispetto degli ambiti di competenza dei vari organi istituzionali. Colpisce poi la logica individualista di una visione secondo cui, ancora una volta come in una partita a poker, “the winner takes it all: non vi può essere che un unico vincitore, che porta avanti la propria linea, mentre tutti gli altri sono sconfitti. Ma il senso del potere politico non sta nel suo esercizio in forma predatoria, abusiva o ricattatoria, quanto nella capacità di prendersi cura e promuovere il benessere collettivo e il bene comune, mediando tra interessi inevitabilmente confliggenti.

 

Fare i conti con la realtà

Come si fa allora a scendere dalle montagne russe sulle quali siamo sballottati da mesi? Con le sue decisioni e i suoi discorsi, il presidente Trump ci sta persuadendo che un certo modo di agire sia normale, finanche legittimo. La forza della persuasione può essere grande e proiettarci in un mondo che non esiste, tuttavia la realtà nella sua concretezza e complessità non può essere ignorata o camuffata a lungo. Prima o poi i nodi vengono al pettine, perciò non ci si accontenta più delle promesse ma si vogliono vedere i risultati: che cosa ne è della promessa della conclusione dei conflitti in corso in Europa e Medio Oriente o del benessere sociale ed economico per i cittadini statunitensi?

La realtà resiste all’affabulazione e a cento giorni dall’inizio del secondo mandato si iniziano a levare alcune voci in grado di sormontare il canto delle sirene o, per restare nella metafora del poker, ci sono giocatori che decidono di vedere il bluff altrui. È così per le pronunce dei giudici statunitensi a salvaguardia dello Stato di diritto, per le scelte di alcune organizzazioni non governative di proseguire i programmi di aiuto internazionale per quanto possibile (cfr Schöpf M., «Porre fine al disastro che emerge», in Aggiornamenti Sociali, 4 [2025] 238-242), per la decisione dell’università di Harvard di preservare la propria autonomia anche a costo di perdere il finanziamento statale, per il richiamo al rispetto degli accordi internazionali da parte di alcuni Stati. A questa lista si può aggiungere anche l’andamento incerto delle borse mondiali dopo i dazi statunitensi: le repentine oscillazioni e i timori diffusi che vi possa essere una tendenza di lungo periodo al ribasso molto forte, che rischia di tradursi in una recessione dell’economia reale, sono il motivo all’origine della sospensione per novanta giorni di una parte consistente delle misure annunciate. A essere stati economicamente danneggiati sono in tanti, tra cui anche finanziatori della campagna elettorale di Trump, che non saranno rimasti inerti. Anche in questo caso la realtà finisce con infrangere la narrazione persuasiva ma illusoria che il potere esercitato dagli Stati Uniti nella versione MAGA sia illimitato.

Queste reazioni, che si radicano nell’ascolto attento della realtà, sono messe in atto da chi ha un potere e una responsabilità, da chi ha più risorse per poter andare incontro alle conseguenze, da chi in coscienza sente che la posta in gioco è troppo alta per girarsi dall’altro lato. Reazioni tra loro diverse, date anche da persone che non hanno percorsi in comune, e proprio per questo sono credibili e forti, possono essere ispirative e suscitare speranza.

 

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