Un anno fa, il 5 luglio 2021, il padre gesuita Stan Swamy, 84 anni,
è morto in prigione e l’India ha perso uno dei suoi più impegnati
attivisti per i diritti umani dei popoli indigeni. La disumana vicenda
giudiziaria a cui è stato sottoposto e la sua scomparsa hanno scosso la
coscienza di quanti credono nella giustizia, nella pace e nella natura democratica
e laica della nazione indiana, come testimoniano le numerose proteste
a livello locale, nazionale e internazionale, iniziate con il suo arresto.
Ricordiamo brevemente che dal 2018 la polizia e la National Investigation
Agency (NIA), creata nel 2009 dal Governo federale indiano per la
lotta al terrorismo, hanno fatto irruzione per due volte nella sua stanza, lo
hanno interrogato per più di 15 ore e gli hanno confiscato il PC portatile,
il cellulare, gli account di posta elettronica e altri documenti. Nonostante
la sua collaborazione con la NIA, Stan Swamy è stato arrestato l’8 ottobre
2020 nella notte, portato a Mumbai prima dell’alba, tenuto nella prigione
di Taloja e gli è stata negata la cauzione senza tenere conto della sua età e
del peggioramento della sua fragile salute (soffriva di una grave forma di morbo di Parkinson, aveva subito un intervento di ernia, portava apparecchi
acustici e aveva molti altri disturbi legati all’età).
La NIA ha accusato p. Swamy di aver complottato per uccidere il primo
ministro Narendra Modi, di aver istigato le violenze di casta accadute nel
2018 nel villaggio di Bhima Koregaon, nell’India occidentale, e di sostenere
un gruppo maoista estremista. Altre quindici persone, definite “antinazionali”,
sono state inquisite per lo stesso caso e sono ancora in prigione, senza
possibilità di uscire su cauzione. La maggior parte di loro sono docenti universitari,
scrittori, attivisti, avvocati e studenti, accomunati dall’essere difensori
dei diritti umani e critici delle politiche governative perché in contrasto
con la Costituzione e gli accordi internazionali. [continua]
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