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Referendum: riflettori puntati sul pianeta giustizia

Fascicolo: giugno-luglio 2022

Nel dibattito pubblico e nell’informazione ad ampio raggio ci sono temi che, pur essendo di grande rilievo, restano sottotraccia, appannaggio di quanti se ne occupano per ragioni professionali o interesse personale, finché non si verifica un evento o giunge una scadenza a portarli in cima all’agenda politica, a farli diventare argomento di discussione nei talk show e nelle conversazioni quotidiane. Qualcosa di simile sta accadendo con i referendum in tema di giustizia, proposti dalla Lega e dai Radicali, che si svolgeranno il 12 giugno 2022 e di cui si è iniziato a parlare soltanto nelle ultime settimane, aprendo una breccia, ancorché modesta, nel flusso comunicativo del nostro Paese, concentrato soprattutto sul conflitto in Ucraina e le sue molteplici conseguenze.

A confronto con quesiti tecnici

Sono diverse le ragioni per cui alcuni temi restano marginali: nel caso di questo voto referendario sta pesando di sicuro il carattere tecnico dei quesiti sottoposti ai cittadini.

Tre dei referendum proposti toccano alcuni aspetti del funzionamento del nostro ordinamento giudiziario: il venir meno della possibilità per i magistrati di passare da giudice a pubblico ministero e viceversa nel corso della loro carriera (la cosiddetta separazione delle funzioni); la possibilità per un magistrato di candidarsi a membro del Consiglio superiore della magistratura (CSM) senza dover raccogliere le firme di colleghi a sostegno della sua candidatura; l’inclusione degli avvocati e docenti universitari, che sono membri dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nei processi di valutazione dei magistrati. Su questi temi il Parlamento sta discutendo una possibile riforma, presentata dal Ministro della Giustizia Marta Cartabia, che, se approvata in modo definitivo prima del 12 giugno e in base al suo contenuto, potrebbe portare all’annullamento di questi tre referendum. Gli altri due quesiti riguardano la sfera penalistica: se fossero approvati vi sarebbe una revisione in senso restrittivo dei casi in cui si possono applicare le misure cautelari personali e l’abrogazione della “Legge Severino” sull’incandidabilità a cariche elettive di chi è condannato per delitti non colposi. Per approfondire i contenuti dei singoli referendum rinviamo alle schede alle pp. 368-373.

È sufficiente una rapida lettura dei quesiti referendari per rendersi conto che riguardano disposizioni normative molto specifiche, in alcuni casi note solo agli addetti ai lavori e di cui i cittadini comprensibilmente faticano a mettere a fuoco la rilevanza per la loro vita (ad esempio, le modalità di elezione dei magistrati al CSM). La tecnicità dei testi, unita alla limitata copertura informativa e allo scarso coinvolgimento delle forze politiche nella campagna referendaria, spiegano perché, secondo i sondaggi effettuati, sia in dubbio il raggiungimento del quorum richiesto per la validità dei referendum abrogativi (la metà degli aventi diritto al voto più uno). Se poi si considera la storia recente, negli ultimi 25 anni siamo stati chiamati alle urne otto volte per votare su referendum abrogativi, ma solo nel 2011 il quorum è stato raggiunto.

Al centro vi è la nostra giustizia

Fermarsi a rilevare la tecnicità delle norme oggetto dei referendum rischia però di far perdere di vista un punto essenziale: si tratta di previsioni legislative che sono figlie di visioni complessive del nostro ordinamento giudiziario e di valutazioni sul bilanciamento di valori rilevanti e tra loro in tensione. L’ambito di applicazione delle misure cautelari aiuta a comprendere questo aspetto, perché è in gioco la salvaguardia del principio di presunzione di innocenza di chi è sottoposto a indagini o a processo e la necessità di intervenire con provvedimenti di restrizione della libertà, da attuare secondo opportune garanzie, per proteggere l’intera comunità.

La posta in gioco dei referendum nelle intenzioni di chi li ha promossi è di avviare un «cambiamento radicale» della giustizia nel nostro Paese, come dichiarato da Giulia Bongiorno, responsabile del Dipartimento Giustizia della Lega. La necessità e l’urgenza di procedere a una riforma della giustizia sono largamente condivise: lo testimoniano i lavori parlamentari in corso e le previsioni inserite nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) per accelerare, ad esempio, lo svolgimento dei processi o digitalizzare i procedimenti giudiziari.

Tuttavia, anche se sono stati spesso utilizzati come “grimaldelli” per scardinare posizioni di stallo a livello politico e sollecitare il legislatore a intervenire, bisogna essere consapevoli che i referendum abrogativi non possono realizzare soluzioni sistemiche e adeguate. Proprio per la loro natura abrogativa, possono eliminare parti dell’ordinamento, ma non sostituirle o aggiungerne di nuove. Pur avendo l’indubbio pregio di dare un’indicazione sulla volontà popolare, il referendum ha perciò un’utilità circoscritta quando vi si fa ricorso in un ambito, come quello della giustizia, in cui le questioni aperte si collocano a un livello sistemico e, per questo, richiedono di essere affrontate in sede legislativa, se si vuole evitare di creare squilibri e contraddizioni in un insieme organico, in cui le parti stanno in rapporto dinamico le une con le altre. Ma se l’intervento legislativo è necessario, forse non è sufficiente.

L’imprescindibile lavoro culturale e formativo

Negli ultimi trent’anni, più volte vi sono stati interventi di riforma che hanno riguardato vari aspetti dell’ordinamento giudiziario, di portata più o meno estesa, oltre ad altri referendum abrogativi sulla giustizia, che non hanno raggiunto il quorum, tra l’altro anche su argomenti che ritroviamo in questa tornata referendaria (separazione delle funzioni ed elezione dei membri del CSM). Il fatto che quando si parla di giustizia in Italia spesso si utilizzi l’aggettivo “malata” e si richieda un intervento di riforma non può essere spiegato solo riferendoci all’insufficienza o inadeguatezza dei provvedimenti fin qui adottati. Ci è di aiuto ritornare al riferimento temporale dei trent’anni, che non è casuale: nella memoria storica del nostro Paese l’anno 1992 è legato all’indagine di Mani pulite, alla presa d’atto dell’esistenza di un sistema di corruzione e illegalità diffuso, che coinvolge larghi settori politici e imprenditoriali. Da quella vicenda giudiziaria ha avuto avvio una stagione controversa e conflittuale tra le forze politiche e nei rapporti tra la politica e la magistratura, che ancora non si è conclusa.

Il susseguirsi di interventi legislativi a distanza di breve tempo, l’animosità del dibattito quando si affronta il tema della giustizia, l’oscillare dei giudizi dell’opinione pubblica sui magistrati – da eroi nazionali a portatori di progetti eversivi (e di converso il modo in cui vengono percepiti i politici) – ci dicono che le questioni in tema di giustizia non si risolvono solo con la tecnica legislativa, ma richiedono un approccio più integrale. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti se si considera che ci troviamo di fronte a uno degli snodi cruciali della democrazia (basti pensare alla separazione dei poteri e alla tutela dei diritti fondamentali) e che lo stesso modo in cui è concepita la giustizia deve riposare su una visione condivisa dell’assetto che vogliamo dare alla nostra società.

Collocarsi in questa prospettiva rende evidente la centralità della formazione della coscienza civica e l’urgenza di avviare un processo di riconciliazione su questo capitolo essenziale della nostra vita insieme, prendendo atto sia delle divergenze di visione che esistono su alcuni punti sia della necessità di ricominciare a dialogare per trovare le risposte che da tempo cerchiamo. Lo ricordava anche il presidente Mattarella, nel messaggio al Parlamento del 3 febbraio 2022, dopo la sua rielezione, in cui ha dedicato ampio spazio alla riforma della giustizia, ricordando le «pressanti esigenze di efficienza e di credibilità» richieste dai cittadini, che «devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario». In particolare, ha avvertito che la difesa dei principi costituzionali di indipendenza e autonomia della magistratura «risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza».

Comprendiamo allora che ci troviamo di fronte a un compito che non è riservato solo agli operatori del mondo giudiziario (magistrati e avvocati) o agli esperti di diritto, ma richiede un coinvolgimento più ampio, beneficiando degli apporti di punti di vista e competenze distinti, affinché possa maturare la presa di coscienza personale e collettiva su un bene prezioso di cui tutti siamo chiamati a prenderci cura. Sui temi della giustizia, così come su altri altrettanto fondamentali, va realizzato pertanto un ampio lavoro formativo e culturale, iniziando dalle generazioni più giovani, fin dai primi anni di scuola, affinché si possa approfondire la conoscenza dei principi che reggono la convivenza civile all’interno del nostro Stato e dell’Unione Europea e se ne comprenda appieno la portata, in modo tale che possano essere assunti, riletti e aggiornati alla luce delle sfide, sempre nuove, con le quali ci confrontiamo. I passi a livello legislativo e di stanziamenti finanziari per rendere concreta questa formazione civica di base sono riforme non meno essenziali di quelle inserite nel PNRR.

Questo lavoro di formazione, che avrebbe permesso ai cittadini di cogliere il legame tra la tecnicità dei quesiti presentati con i valori di fondo e il progetto della nostra democrazia, non si è realizzato in occasione di questi referendum. Fare questo passo in più permette di poter collocare le ragioni per il sì o per il no in una visione più ampia e giungere a prendere una decisione responsabile. Ben diversa è stata l’esperienza dei referendum del 2011, gli ultimi che hanno raggiunto il quorum, in particolare quelli sull’acqua, dove i proponenti, che appartenevano a realtà della società civile, si sono spesi per far comprendere il collegamento fra i quesiti e un progetto condiviso sui beni comuni.

Questo esempio apre il campo a un’ulteriore considerazione: la Costituzione prevede che il referendum abrogativo possa essere richiesto dagli elettori (500mila firme) o da cinque Consigli regionali, riconoscendo così alla società civile e alle realtà locali una possibilità, per quanto circoscritta, di intervenire sulla legislazione nazionale. In questo caso, come nel passato, anche i partiti sono stati tra i promotori di referendum, ma va riconosciuto una sorta di cortocircuito dato che le formazioni politiche, in particolare quelle di maggiore consistenza, hanno altri canali e strumenti per intervenire sul piano normativo e per costruire il consenso sulle proprie posizioni.

Le scelte che ci aspettano

Al di là di queste riflessioni, è utile arrivare preparati al prossimo appuntamento referendario, ricordando le possibilità che abbiamo a disposizione per esprimere la nostra posizione sui temi sollevati.

Nel caso dei referendum abrogativi, la prima scelta da compiere è se recarsi alle urne o meno, tanto più importante quando il raggiungimento del quorum non è scontato. Non andare a votare, in questo caso, non è automaticamente una manifestazione di malessere sociale, astensionismo o antipolitica, ma può essere un modo per esprimere il proprio dissenso sui temi proposti, per contestare l’uso che viene fatto del referendum, impiegato per questioni che sarebbero affrontate meglio e in modo più opportuno in altre sedi. Da qui la decisione di non votare per non far raggiungere il quorum richiesto per la validità. Questa decisione va presa per ognuno dei quesiti presentati, dato che possiamo recarci alle urne per votarne anche uno solo o alcuni, ritirando la scheda solo per quelli che ci interessano. Se si sceglie di recarsi a votare, allora il sì o il no esprimono rispettivamente il sostegno alle ragioni che hanno spinto i promotori a presentare i referendum (o almeno la valutazione che la vittoria del sì può mettere in moto un processo di riforma) oppure il disaccordo con queste posizioni. Nel caso della vittoria del no, non solo non si realizza nessun cambio a livello legislativo, ma la proposta abrogativa non può essere riproposta per cinque anni.

Queste considerazioni riguardano l’oggi, le scelte immediate a cui siamo chiamati dalla scadenza referendaria, ma fa sempre parte dell’oggi iniziare a discutere e a mettere in cantiere quegli interventi di fondo sul piano culturale e formativo, che riconosciamo come importanti e concreti e che possono riguardare anche il ripensamento di strumenti come il referendum abrogativo, per costruire il nostro domani come comunità civile.

 

 

Foto - Autore: Niccolò Caranti, opera propria. Ritaglio. Fonte: commons.wikimedia.org. CC BY-SA 3.0.

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