Si avvicina la data del referendum costituzionale per l’approvazione o meno della riforma. Riassumendo il lavoro fatto in questi mesi per spiegarne i contenuti, la Redazione sottolinea il valore della partecipazione consapevole al voto, occasione per vincere l’immobilismo del nostro Paese.
Si avvicina il referendum del 4 dicembre, quando saremo chiamati a decidere se la riforma della Costituzione, presentata dal Governo Renzi e approvata con alcune modifiche dal Parlamento il 12 aprile scorso, entrerà in vigore o sarà accantonata.
Qualunque ne sarà l’esito, la consultazione referendaria costituisce un passaggio importante per la vita civile, politica e istituzionale dell’Italia.
Nelle ultime settimane, espressioni come “bicameralismo perfetto” o “Titolo V” sono diventate più familiari, ma non sempre è agevole metterne a fuoco portata e significato. Il testo della riforma è indubbiamente complesso e la comprensione di alcuni elementi richiede di muoversi con una certa dimestichezza nel funzionamento delle istituzioni repubblicane. Ancor meno scontata è la consapevolezza delle ragioni delle scelte operate dalla riforma e delle implicazioni che ne discendono, anche quando è ampio – e talora demagogico – il consenso per la modifica proposta (si pensi al tema della riduzione dei costi della politica).
Molto è stato detto e scritto sulla riforma, criticandola o sottolineandone gli aspetti positivi. Durante i lavori parlamentari è stata ampiamente discussa in ambito universitario e sono stati pubblicati numerosi libri, articoli e appelli, su carta e in Internet. Più recentemente anche la televisione ha iniziato a proporre dibattiti tra esponenti dei comitati del “sì” e del “no”, secondo format ben consolidati ma non sempre utili dal punto di vista informativo. Si moltiplicano poi gli appuntamenti “di parte” organizzati dai comitati, ma anche gli incontri di approfondimento promossi da diverse realtà della società civile.
Anche
Aggiornamenti Sociali ha voluto dare il proprio contributo, attraverso
un dossier, pubblicato sul nostro sito, composto da articoli che illustrano il contenuto della riforma e da altri che danno spazio agli argomenti a favore e contro la sua attuazione. Il nostro intento è offrire informazioni, riferimenti e strumenti per orientarsi e giungere a prendere una decisione consapevole, convinti che questo sia il modo per favorire una partecipazione autentica ai processi democratici. È quello che abbiamo fatto come Redazione e queste pagine sono il frutto di questo lavoro.
La nostra posizione, senza sottrarci a indicare per quale alternativa propendiamo, è un invito a uscire dalla logica binaria in cui troppo spesso il dibattito resta intrappolato; è più interessante, insieme a tante altre forze che in queste settimane stanno mostrando la loro vitalità, immaginare un percorso in cui questo referendum, a prescindere dal suo esito, rappresenti una opportunità di maturazione della coscienza democratica della nostra società.
Un’occasione di crescita per la nostra democrazia
La partecipazione al voto costituisce da decenni un punto critico per la nostra democrazia. L’astensionismo ha colpito in modo più pesante proprio le consultazioni referendarie: negli ultimi venti anni hanno raggiunto il quorum per la validità prescritto dalla Costituzione della «maggioranza degli aventi diritto al voto» (art. 75 Cost.) solo quelli tenutisi nel 2011. A oggi molti italiani non hanno ancora deciso se andare a votare il prossimo 4 dicembre, senza forse essere consapevoli che, a differenza dei referendum abrogativi, in quelli costituzionali l’esito delle urne è valido indipendentemente dal numero di votanti.
Non recarsi alle urne perciò non costituisce un’opzione politica, ma una delega in bianco a chi andrà a votare, un’espressione, forse involontaria, di disinteresse o di scarsa consapevolezza civica. Una ragione di più per andare a votare e farlo in modo informato.
Per tutti noi cittadini il referendum è infatti una provocazione a scoprire o riscoprire i contenuti della nostra Costituzione, al di là di formule preconfezionate e di slogan semplicisti, come quando la si dichiara “la più bella del mondo”.
La scadenza referendaria ci obbliga a “rifare i conti” con la Costituzione, con le scelte compiute da chi l’ha approvata nel 1948 e da chi l’ha modificata nei successivi settant’anni di vita repubblicana. È quello che sta accadendo in molti degli incontri di queste settimane, soprattutto quelli che offrono informazioni e non posizioni schierate. La sorpresa è che questo tipo di riflessione interessa, interroga, stimola a partecipare. È incoraggiante sapere di universitari che organizzano un ciclo di incontri sulla Costituzione e sulla storia democratica del nostro Paese, perché dopo aver vissuto una giornata di approfondimento sul tema della riforma hanno compreso che ciò che più conta è conoscere la nostra Carta fondamentale.
È chiaro che
il referendum ha attivato nella nostra società dei fermenti vivi e vitali: un effetto probabilmente non previsto e non voluto, che a nostro giudizio costituisce un segnale di speranza e un’opportunità preziosa. Al di là dei cliché dell’antipolitica, infatti, esso esprime la consapevolezza dell’importanza della posta in gioco e la volontà di assumersi la responsabilità dell’esercizio della cittadinanza. Inoltre, quando le iniziative sul referendum sono organizzate insieme da una pluralità di realtà della società civile, diventano una occasione per incontrarsi e lavorare insieme, gettando un seme per future collaborazioni nella promozione del bene comune. I tanti scambi, confronti e sinergie che si realizzano a livello locale diventano un’energia positiva e dinamica per l’intero Paese, un’energia radicata nella nostra storia e protesa, in uno slancio in cui ideale e concretezza si completano a vicenda, verso la costruzione del domani.
Limiti del dibattito sul referendum
Riconoscere gli elementi promettenti nell’attuale dibattito sul referendum non significa nasconderne i limiti che ne stanno frustrando le potenzialità.
Non ha certo aiutato a migliorare la qualità del confronto la marcata personalizzazione impressa dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha dichiarato la volontà di dimettersi nel caso di sconfitta del “sì”. Le sue parole, amplificate da una parte dello schieramento per il “no”, hanno finito col trasformare l’oggetto del referendum: non è più in gioco l’approvazione di una riforma costituzionale, ma la possibilità di “dare una spallata” al Governo e regolare dei conti, talora interni allo stesso Partito democratico, senza attendere la prossima tornata elettorale. Lo stesso Renzi si è reso conto dell’errore commesso e ha fatto parziale retromarcia, ma la sua condotta rivela una concezione della politica che al confronto sui contenuti e all’esercizio della mediazione privilegia la fiducia salvifica nella figura carismatica del leader.
D’altronde, l’attribuzione esclusiva a Renzi di meriti o demeriti della riforma costituisce una narrazione non del tutto corrispondente a verità, probabilmente comoda per esaltare o denigrare il leader, ma lontana da quanto è effettivamente accaduto. In un Paese che molto spesso soffre di amnesie, si dimentica che il primo passo verso la riforma risale al “Patto del Nazareno”, siglato a inizio 2014 tra i leader del Partito democratico e di Forza Italia, così come si tende a ridimensionare o annullare l’apporto dei lavori parlamentari, che hanno invece modificato in più punti (e non sempre migliorato) il testo presentato dal Governo.
Un altro aspetto ci colpisce:
sovente non è possibile avviare un dialogo sul merito della riforma, perché prevale una logica di sterile contrapposizione, dettata dalla difesa di principi disincarnati dalla realtà, personalismi, faziosità o ragioni di convenienza politica di una parte. Invece avviare un percorso di dialogo e confronto sul merito significa concentrarsi sul futuro che vorremmo costruire per l’Italia, tenendo conto dell’attuale contesto interno e internazionale: dall’evoluzione della UE alle tante forme di globalizzazione, dalla sofferenza sociale che tocca tanti strati della popolazione al rapido cambiamento della società italiana per i fenomeni migratori (in entrata e in uscita) e demografici.
Non vogliamo negare il rilievo politico del voto referendario, ma gli elementi da prendere in considerazione non possono limitarsi alla condotta del presidente Renzi e del suo Governo. Votare con lo sguardo rivolto all’indietro, concentrato su quanto è successo nell’immediato passato, esclude dall’orizzonte della propria scelta il futuro e il percorso della progettualità politica e sociale per l’Italia. Alle urne siamo chiamati a scegliere se approvare o meno una riforma costituzionale che delinea un modo differente di configurare la “macchina dello Stato” per quanto concerne i rapporti tra Governo e Parlamento e le relazioni tra Stato centrale e Regioni, dando più forza all’Esecutivo (anche alla luce della riforma della legge elettorale) e attenuando il federalismo.
Le vere domande politiche che dobbiamo porci riguardano le conseguenze del voto sull’esercizio della democrazia nel nostro Paese, sul rapporto e l’articolazione tra i poteri, sulla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, sul bilanciamento tra autonomie locali e unità nazionale: può la Costituzione modificata dalla riforma consegnarci istituzioni democratiche capaci di rispondere oggi ai bisogni del Paese?
In questa prospettiva è certo utile tenere conto della classe dirigente che sarà chiamata ad attuare la riforma e valutare se la riteniamo all’altezza di tale compito. Ma la valutazione politica va fatta anche rispetto all’ipotesi della bocciatura della revisione costituzionale e ai possibili scenari che ne conseguirebbero. Il meccanismo del referendum poco si presta a questo tipo di esercizio, ponendo la scelta tra un “sì” a una modifica e un “no” per mantenere lo
status quo, finendo così per ingabbiare i cittadini in un’alternativa forse troppo stretta, come dimostrano le dichiarazioni di chi non condivide i contenuti della riforma sottoposta al referendum, e quindi vota “no”, ma ritiene necessario cambiare l’attuale assetto istituzionale.
Alcune considerazioni per decidere
Nel dossier che abbiamo curato, ci siamo posti diverse domande relative ai contenuti della riforma, alla valenza politica che l’accompagna e al suo significato per il futuro del Paese. Per rispondere ai vari interrogativi occorre tenere in conto alcuni riferimenti fondamentali, che ci sono di aiuto anche per prendere una decisione.
Se si conviene che la fedeltà alla Costituzione e al patto civile da cui essa scaturisce possa servire come linea guida per il Paese, allora bisogna sottrarsi a due posizioni che in modo diametralmente opposto tradiscono e rendono vane le previsioni del 1948. La prima, più facile da intuire, ritiene che qualsiasi modifica sia compatibile con lo spirito della Costituzione, ritenendola in fondo una realtà amorfa, malleabile secondo gli umori del momento. La seconda posizione, invece, consiste nel congelarne il testo sacralizzandolo. Considerare intangibili le regole del gioco fissate nel 1948, quando il mondo era separato in due blocchi, la UE non esisteva e la parola globalizzazione non era stata ancora coniata, significa non voler riconoscere quanto è successo negli ultimi anni.
L’immobilismo è un modo per tradire lo spirito costituente, sancendo la distanza del testo dalla realtà vissuta. Decidere di modificare in alcuni punti la Costituzione non significa
a priori alterarla o inficiarne la portata – un simile giudizio può essere formulato solo dopo aver esaminato il caso concreto –, ma è un modo per assicurare che il testo costituzionale continui a svolgere la sua duplice funzione di pietra angolare del vivere insieme e di orientamento sulle decisioni da prendere per continuare a costruire la casa comune.
Un secondo aspetto da ricordare: discutiamo ormai da almeno trent’anni di riforme costituzionali (spesso individuate proprio nel superamento del bicameralismo perfetto e nella revisione del rapporto Stato-Regioni), ma nessuno dei precedenti tentativi (salvo la riforma in senso federalista del 2001) si è concluso in modo positivo.
Oggi corriamo il rischio di cadere nella mitologia delle riforme, di rimanere sospesi ad aspettare Godot. Modificare il testo costituzionale non è certo la panacea di tutti problemi del nostro Paese, come sostenuto da alcuni, ma si sbaglierebbe se non lo si ritenesse un tassello necessario nel quadro di un insieme più ampio di interventi.
Se passiamo poi a considerare la riforma approvata dal Parlamento, va ribadito che le scelte compiute dai Costituenti sulla parte dei valori fondamentali, che costituiscono la base del nostro vivere insieme, non sono state modificate. Gli interventi riguardano le regole di funzionamento dell’ordinamento istituzionale, chiamato con la sua azione a dare attuazione a quei valori. Sono modifiche di rilievo, ma non stravolgono la nostra Carta. Va perciò sgomberato il campo da estremismi infondati. La riforma non è una minaccia alla nostra democrazia. A dirlo sono anche alcuni sostenitori del “no”: «Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo» (
Documento 56 costituzionalisti, in <
www.lastampa.it>). Allo stesso modo, il testo della riforma non è il migliore possibile. Lo riconoscono anche coloro che si sono pronunciati per il “sì”: «Non che consideri mirabile il testo della riforma: mi sembra in molti punti criticabile e l’ho anche più volte aspramente criticato» (R. Bin, «Sulla riforma costituzionale», in <
www.rivistaaic.it>).
Non si tratta di osservazioni irrilevanti, perché liberano la valutazione da allarmismi fuori luogo e ci fanno prendere consapevolezza che
la scelta a cui siamo chiamati come elettori è tra due opzioni – mantenere lo status quo o modificare la Costituzione – entrambe legittime e possibili, entrambe con dei pro e, forse ancora di più, dei contro. Forse preferiremmo farlo diversamente, ma la logica del referendum costituzionale ci obbliga a pronunciarci scegliendo tra le due alternative proposte. Come succede spesso nella vita e in politica, siamo chiamati a scegliere tra due possibilità di bene, entrambe con evidenti limiti e alcune palesi controindicazioni. La domanda che ci deve guidare nel discernimento sul voto è quale delle due alternative, che prevedono assetti diversi per il sistema parlamentare e per il rapporto fra Stato e autonomie locali, permette di avvicinarsi di più all’ordinamento che desideriamo per noi e per i nostri figli in questo momento storico, nella consapevolezza che alcuni elementi importanti, a partire dalla legge elettorale, potrebbero cambiare anche rapidamente.
Pensando al futuro del Paese
Riflettendo su questo interrogativo come Redazione, un elemento, non legato alla scelta tra il “sì” e il “no”, si è imposto alla nostra attenzione come cruciale:
pensiamo che l’interesse dei cittadini per il voto, le iniziative organizzate ai vari livelli, la partecipazione dei giovani siano l’ingrediente fondamentale per l’Italia di domani che desideriamo. Siamo consapevoli che le varie iniziative possono essere considerate modeste, occasionali, al limite prive di visione. Eppure vi è un dinamismo carico di potenzialità, i cui frutti possono essere intuiti se ci collochiamo nella prospettiva dei quattro principi indicati nell’
Evangelii gaudium per lo sviluppo della convivenza civile e «la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune» (EG, n. 221).
In questa prospettiva, la valutazione del referendum muta di segno, lasciando emergere un percorso al di là dell’esito delle urne, a condizione che le energie positive che si sono messe in moto in queste settimane non siano bloccate e non tornino a rintanarsi, ma continuino a operare per costruire il nostro futuro. All’indomani del voto questo sarà un aspetto a cui dedicare attenzione e impegno.
Ma prima c’è da esprimere un voto. Guardando alla storia del nostro Paese e ancor più al suo domani,
approvare la riforma, pur con i suoi limiti, ci appare come il passo da compiere in questo momento, perché può meglio accompagnare e sostenere quanto fin qui è emerso nella società civile, pur sapendo che varie persone degne di stima e tanti amici della Rivista hanno un diverso avviso. L’attribuzione del voto di fiducia alla sola Camera dei deputati, se accompagnata da una legge elettorale che assicuri la formazione di una maggioranza senza mortificare la rappresentanza democratica, permette ai cittadini di attribuire in modo chiaro a una classe politica il compito di guidare il Paese e quindi chiedere conto della sua responsabilità se viene meno al compito affidato. Allo stesso modo il nuovo Senato potrà essere il luogo di confronto e mediazione tra interessi nazionali e regionali, a patto che, attraverso il necessario rodaggio, riesca a costruirsi un ruolo politico: anche le Regioni a statuto ordinario si sono ritagliate nel tempo uno spazio e hanno oggi una fisionomia ben diversa da quando iniziarono a operare nel 1970.
È chiaro: la riforma non risolverà tutti i problemi del sistema politico italiano, ma può costituire un passaggio fondamentale e irrinunciabile. Non ci sono garanzie; ma bloccare ogni iniziativa perché non si sa ciò che potrebbe accadere sarebbe una condotta dettata dalla paura e dalla sfiducia; accettare le incertezze e le incognite di una novità, di cui si riconoscono pregi e difetti, significa sbilanciarsi verso il futuro e obbligarsi a ricercare un nuovo equilibrio. Significa anche confidare nelle forze resilienti che esistono e sono all’opera nella società e nelle istituzioni. In fondo, settant’anni di vita repubblicana ne sono la testimonianza.