Ha suscitato scalpore a livello globale la decisone con cui il 24 giugno scorso la Corte suprema degli Stati Uniti è intervenuta in materia di aborto, pronunciandosi sul caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization (in breve: Sentenza Dobbs) e rovesciando la altrettanto storica sentenza del 1973 sul caso noto come Roe v. Wade, che aveva portato per via giurisprudenziale al riconoscimento del diritto all’aborto negli Stati Uniti. Immediatamente la decisione è stata bollata da alcuni come oscurantista e lesiva della libertà delle donne, mentre da altri è stata salutata come una sentenza a favore della vita. Questa rappresentazione rischia di risultare riduttiva, perché sembra riposare sull’esistenza di una opposizione e di una mutua esclusione tra valori tra i quali non dovrebbe sussistere un conflitto, ma si dovrebbe fare ogni sforzo per costruire un’alleanza.
Lo stupore generato dalla Sentenza Dobbs, che è stata oggetto di commento non solo da parte di cittadini e organizzazioni statunitensi, ma di personalità di ogni genere e nazionalità, tra cui Capi di Stato e rappresentanti di organizzazioni internazionali, deriva dal fatto che la legalizzazione dell’aborto è normalmente considerata come irreversibile. La Sentenza Dobbs mostra che non è così e ripropone un problema che era considerato chiuso. Simbolicamente dunque è una sentenza a favore della vita. Valutare se, quanto e a che condizioni potrà esserlo anche in pratica richiede considerazioni più approfondite.
Questo vale a maggior ragione quando la domanda si pone in contesti sociali, culturali e giuridici diversi da quello statunitense. Certamente interpella anche il nostro Paese, ma affrontare la questione della sua rilevanza in prospettiva italiana richiede prima di esaminarla con attenzione nel suo contesto di origine, soprattutto allo scopo di evitare cortocircuiti ideologici.
1. Il contesto giuridico e l’impatto della sentenza
A differenza di quanto accaduto in Italia e in generale nei Paesi europei, negli Stati Uniti la legalizzazione dell’aborto non è avvenuta attraverso l’approvazione di una legge, almeno non in tutti gli Stati, ma a seguito della già citata Sentenza Roe.
a) L’aborto è un diritto?
Il XIV Emendamento della Costituzione statunitense tutela la privacy personale (personal privacy) dei cittadini, intesa come diritto a gestire la propria esistenza liberamente senza ingerenze dello Stato. Nel 1973, con la Sentenza Roe, la Corte suprema opera una interpretazione del XIV Emendamento affermando che implicitamente esso tutela anche il diritto delle donne ad abortire. Da allora questa interpretazione ha fatto scorrere fiumi di inchiostro da parte dei giuristi d’oltreoceano, ma in tutte le successive sentenze in materia di aborto la Corte suprema lo aveva riaffermato.
In quanto sancito dalla Costituzione federale, questo diritto prevale sulla legislazione dei singoli Stati, a cui viene inibita la possibilità di legiferare in materia di aborto in maniera più restrittiva di quanto previsto dalla Sentenza Roe, che, come nota Massimo Faggioli, era «una delle più liberali e libertarie» del mondo (Faggioli M., «Stati Uniti - Aborto: davvero pro life? L’abrogazione di Roe v. Wade da parte della Corte suprema», in Il Regno, 14 [2022] 411-415). Nel momento in cui nel 1973 aveva riconosciuto l’aborto come diritto, la Corte suprema aveva provveduto anche a indicare le coordinate del suo esercizio: nessuna restrizione nel primo trimestre di gravidanza e fino alla possibilità del feto di sopravvivere al di fuori del grembo materno (fetal viability), possibili limitazioni ai fini di tutelare la salute della donna nel secondo trimestre, possibile divieto nel terzo trimestre a condizione di prevedere eccezioni a tutela della vita e della salute della donna.
Con una mossa inusitata in un sistema legale in cui i precedenti giudiziari hanno un valore particolarmente stringente, la Sentenza Dobbs rovescia la Roe, affermando che quella interpretazione del XIV Emendamento è scorretta. In altre parole, la Sentenza Dobbs afferma che l’aborto non è un diritto sancito dalla Costituzione federale degli Stati Uniti, per cui cadono i vincoli all’autonomia legislativa degli Stati federati su questa materia. Materialmente la Corte non introduce alcuna restrizione, e quindi non ha alcun impatto diretto sul numero di aborti, ma consente ai singoli Stati di farlo. Vari di essi avevano già approvato leggi molto restrittive, fino al divieto di aborto, considerandolo un reato; queste erano per così dire sospese in vigenza della Sentenza Roe, ma ora possono “risvegliarsi”. Altri Stati si apprestano a legiferare nella medesima direzione. Si tratta per lo più di Stati del Sud e del Midwest, saldamente controllati dal Partito repubblicano. Altri Stati, di orientamento liberal, in reazione alla Sentenza, stanno pensando di introdurre l’aborto come diritto nelle loro Costituzioni.
b) L’impatto della sentenza sul numero di aborti
Attraverso la mediazione delle legislazioni dei singoli Stati, possiamo affermare che quasi sicuramente la Sentenza Dobbs produrrà una riduzione del numero degli aborti legali negli Stati Uniti, ma non necessariamente del numero degli aborti tout court. Non è difficile immaginare che cosa accadrà: le donne più ricche, o con una copertura sanitaria più generosa, semplicemente compiranno un viaggio dagli Stati che proibiscono l’aborto a quelli che lo consentono, mentre le donne più povere ricorreranno a forme di aborto clandestino, per lo più attraverso farmaci abortivi acquistati su Internet, ma senza poter contare su alcun supporto medico. Peraltro il 7 luglio il presidente Biden ha firmato un ordine esecutivo che punta a garantire in tutto il Paese la libertà di viaggiare per praticare l’aborto dove è consentito e l’accesso ai farmaci abortivi approvati a livello federale.
Ridurre effettivamente il numero di aborti richiede più di un divieto: è necessario interrogarsi sulle ragioni che spingono le donne ad abortire e quindi sulle leve che potrebbero far loro cambiare idea. Come nota Andrea Tornielli nel commento alla Sentenza Dobbs pubblicato il 25 giugno 2022 sui media vaticani, Osservatore Romano compreso, negli Stati Uniti circa il 75% delle donne che abortiscono vive in situazione di povertà o con uno stipendio basso, mentre solo il 16% delle lavoratrici del settore privato ha diritto a un congedo di maternità di durata superiore a 10 giorni dopo il parto. Una riforma del diritto del lavoro, prospettive di un salario dignitoso, così come la disponibilità di servizi alla maternità e di assistenza sanitaria durante la gravidanza – ricordiamo che negli Stati Uniti la tutela della salute non è un diritto sancito dalla Costituzione – potrebbero ragionevolmente essere argomenti più convincenti per queste donne di quanto non lo sarà la criminalizzazione dell’aborto. Queste riforme non sono di competenza della Corte suprema, ma la disponibilità a prendere provvedimenti in questi campi costituisce un buon test dell’effettivo orientamento a favore della vita di quegli Stati che stanno introducendo legislazioni molto restrittive sull’aborto.
2. Strumentalizzare la vita non è un modo di tutelarla
Nella ricostruzione del contesto non si può trascurare il fatto che negli Stati Uniti la posizione rispetto all’aborto – pro life o pro choice (a favore della vita o a favore della libertà di scelta) – costituisce un potente marcatore del posizionamento ideologico delle persone, con una valenza anche identitaria. Occupa un posto analogo a quello che da noi riveste la polarità destra-sinistra, o la posizione in materia di accoglienza agli immigrati. Nella geografia politica del Paese, pro life è spesso sinonimo di un orientamento conservatore, tanto che i gruppi pro life presentano contiguità se non addirittura sovrapposizioni con i sostenitori della pena di morte o della libertà di possedere armi e portarle con sé. I rischi di ambiguità sono evidenti, e ancora di più quelli di una strumentalizzazione di una questione tanto delicata come strumento di aggregazione del consenso politico ed elettorale, ovviamente in entrambi i sensi. La polemica spinge a rendere le due posizioni sempre più intransigenti, favorendo la polarizzazione, per cui il confine tra pro life e pro choice tende a coincidere con quello tra partiti politici, eliminando le possibilità di un dialogo di cui ci sarebbe invece estremo bisogno.
A distanza di pochi giorni dalla Sentenza Dobbs, la Corte suprema è intervenuta per eliminare le restrizioni introdotte dallo Stato di New York alla possibilità dei cittadini di girare armati (il 23 giugno) e per ridurre i poteri dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente nella fissazione dei limiti alle emissioni di gas climalteranti delle centrali elettriche (in particolare le più dannose, quelle alimentate a carbone), ritenendola materia di competenza del Congresso (il 30 giugno). Da un punto di vista tecnico potrebbe trattarsi di decisioni corrette rispetto all’assetto normativo statunitense, ma da un lato stupisce che le decisioni siano state prese con l’identica maggioranza di sei giudici “conservatori” contro tre “progressisti”, dall’altro esse segnalano che la Corte non pare muoversi in base a una agenda autenticamente pro life, ma piuttosto in vista della promozione di un modello di società (oltre che di un paradigma di interpretazione della Costituzione), al cui interno si inscrive anche la tutela della vita nascente. Del resto l’opposizione e la resistenza alla Sentenza Dobbs sono state scelte come vessillo del Partito democratico e dell’Amministrazione Biden in vista delle prossime elezioni di mid-term. In entrambi i casi c’è da chiedersi se per convinzione o in modo strumentale.
La tutela della vita non può essere strumentalizzata, né parcellizzata o settorializzata, ma richiede di essere portata avanti a 360 gradi, senza utilizzare pesi e misure diversi, né pregiudizi ideologici. I moniti dell’enciclica Laudato si’ contro l’incoerenza di chi si impegna contro la tratta degli animali, ma è indifferente alla tutela degli embrioni, vale anche al contrario: la preoccupazione per la vita nascente non può andare di pari passo con la noncuranza verso le altre forme di minaccia alla vita umana e alle generazioni future.
3. In prospettiva italiana
Il contesto italiano si presenta come profondamente diverso da quello statunitense. In un certo senso, la questione dell’aborto risulta meno ideologizzata: sono altri i terreni di scontro, come mostrano le barricate sullo ius scholae. Ma soprattutto in Italia l’aborto è stato depenalizzato con la Legge 22 maggio 1978, n. 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, la quale, nel momento in cui consente l’aborto a determinate condizioni, non lo riconosce per questo come un diritto. Anche in conseguenza della Sentenza Dobbs, si sono levate voci a chiedere una modifica della norma proprio per sancire che l’aborto è un diritto, cosa che risulterebbe estremamente problematica.
Nonostante la distanza tra il nostro ordinamento e quello degli Stati Uniti, la Sentenza Dobbs ci interpella comunque, anche se non dal punto di vista strettamente giuridico o costituzionale. Come ha notato mons. Paglia, presidente della Pontificia Accademia della Vita, essa rappresenta un forte invito a riflettere su qualcosa che non deve smettere di essere una spina nel fianco delle nostre società. Sarebbe una sconfitta se dessimo l’aborto per scontato e smettessimo di provare inquietudine perché ci sono ogni anno decine di migliaia di donne che decidono di interrompere la gravidanza (per limitarci ai dati del nostro Paese), a prescindere dal fatto che lo facciano legalmente o illegalmente. L’aborto deve continuare a interrogare la nostra coscienza: non solo e non tanto quella individuale, ma quella della società nel suo complesso. Se è vero che la decisione di abortire è della singola donna, come abbiamo visto le ragioni che spingono a compiere questa scelta derivano troppo spesso da contraddizioni e squilibri sociali e culturali (tra cui una certa latitanza maschile nell’assunzione delle responsabilità genitoriali): a non essere accogliente verso la vita è dunque la società nel suo insieme.
Anzi, in questo periodo corriamo il rischio che la questione dell’aborto sparisca dai radar della coscienza collettiva, sospinta verso una sorta di privatizzazione vuoi dall’aborto farmacologico, che si pratica in casa, vuoi dall’insistenza a considerarlo alla stregua di un diritto individuale. Come scrive la Pontificia Accademia per la Vita nel comunicato stampa a commento della Sentenza Dobbs, «La tutela e la difesa della vita umana non è un tema che possa restare confinato nell’ambito dell’esercizio dei diritti individuali, ma è piuttosto una questione di ampia rilevanza sociale. […] è importante riaprire un dibattito non ideologico sul posto che la tutela della vita ha in una società civile per chiederci quale tipo di convivenza e di società vogliamo costruire».
La L. n. 194/1978 è ben consapevole che l’aborto è un fatto sociale: basta leggere quelle parti, ampiamente disattese, in cui tratteggia le modalità in cui la società può offrire un’adeguata tutela alla vita nascente e alla maternità, assicurando quei sostegni (economici, sociali, sanitari, ecc.) di cui le donne hanno bisogno per poter considerare un’opzione diversa dall’interruzione della gravidanza. Così, prima di pensare di mettere mano a una sua riforma, magari a partire da tensioni ideologiche di importazione, sarebbe bene dare piena attuazione a tutte le sue parti. È questione urgente da oltre 40 anni, e ogni anno sono decine di migliaia le donne e i nascituri che attendono di avere un’alternativa. Non sarà mai abbastanza presto per dargliela.