Per i miei studenti di Seine Saint-Denis
Entrare in classe e fare lezione, in una scuola multiculturale e multireligiosa della periferia parigina, il mattino dopo l’attentato a Charlie Hebdo. E poi ancora nei giorni successivi. Quali emozioni riempiono il cuore di un’insegnante? E quali vengono espresse dagli alunni? Che cosa vuol dire confrontarsi, all’interno dell’istituzione scolastica, su quei terribili fatti? Che cosa si impara, facendo questa esperienza, sulla nostra società e sulla nostra cultura, sui suoi limiti e sulle potenzialità della maggioranza dei giovani?
Quando ho ricevuto la notizia dell’attacco a Charlie Hebdo, stavo rientrando a casa da scuola. Un messaggio, poi due, sul mio cellulare. Poi sono rimasta incollata ai notiziari per lungo tempo, senza poter fare nient’altro. Ho iniziato a lavorare, perché era mercoledì pomeriggio e ho corretto i compiti. Un tema dal titolo Pensate che tutti gli studenti in Francia abbiano la stessa possibilità di avere successo a scuola?. Ho letto i temi, li ho corretti, ma senza mai allontanarmi dallo schermo del computer. Ho bevuto un sacco di caffè. L’atmosfera era pesante. Ho pianto come si piange quando si aprono tutti i rubinetti contemporaneamente, con forti singhiozzi e il viso arrossato. Molto rapidamente, ho pensato ai miei studenti di scuola media che sono di tutti i colori, di tutte le provenienze. Molti musulmani e musulmane. Ed ecco cosa è successo la mattina dopo, giovedì 8 gennaio, quando sono arrivata alla scuola di Seine Saint-Denis, dove lavoro.
Nella sala professori, trovo una dei miei colleghi musulmani che trattiene a stento i singhiozzi, dicendo che ancora una volta la sua religione è stata sporcata. Nel cortile è un unico mormorio: i fatti sono sulla bocca di tutti. Mi chiedo se e come sarò in grado di fare lezione. La sera prima ho preparato un Power Point con vignette che vengono da tutti i Paesi. Dell’iraniano Kianoush Ramezani, della tunisina Nadia Khiari, dell’americana Ann Telnaes, del francese Plantu1. Ho un peso sullo stomaco, come i miei colleghi. Cosa ci diranno i nostri studenti? Vorranno parlarne? Sì, volevano parlarne. Abbiamo discusso. Sono intelligenti, hanno posto un sacco di domande. Alle otto ho avuto la terza. Stavamo affrontando la distopia, e dovevamo chiudere il ciclo con una lezione su un estratto del romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury [scritto nel 1953, N.d.R.], che avevamo letto per tutto il mese di dicembre. Avremmo dovuto parlare di censura, di autodafé, di libertà di pensiero e di espressione. Dell’importanza della lettura e della comprensione. Alla fine abbiamo parlato dell’attualità. E quando l’attualità fa così tristemente eco a un romanzo scritto dopo la Seconda guerra mondiale, il sangue del professore si gela.
Non sapevo che cosa avrebbero detto i miei studenti. Dalla serietà della mia espressione hanno subito capito che stavo per parlare degli eventi del giorno prima. Una mia allieva mi ha detto: «Prof., lei conosceva qualcuno dei morti?». Sì, come tutti voi. E adesso ne parliamo.
Di solito questa classe è in ebollizione. Le battute da ragazzini non si risparmiano, la parola è difficile da incanalare. Hanno sempre qualcosa da dire, che c’entri o no con la lezione. Spesso batto i pugni sul tavolo per ottenere silenzio, ma solo raramente si lasciano ingannare. Sanno che troppo spesso scoppio a ridere per le loro battute invece di arrabbiarmi veramente. Come dico spesso, non sono molto brava a incarnare l’autorità.
Invece questo giovedì c’era un silenzio di tomba mentre parlavo. Un silenzio rispettoso, attento, pieno. Ecco che cosa ho detto loro. «Voglio parlarvi di quello che è successo ieri. Vi dirò quello che provo e poi voi mi direte ciò che voi, proprio voi, provate. Vi racconterò un paio di cose personali perché è veramente importante che comprendiate che quello che vi dico è personale. Sono estremamente triste, scioccata e inquieta dopo quello che è successo ieri, e ve lo spiego.
In primo luogo, sono triste perché degli innocenti sono morti assassinati, e provo un sentimento di compassione legato al fatto che sono un essere umano e non capisco che si possa uccidere. Tra coloro che sono morti, ce ne sono alcuni che non conoscevo personalmente, ma di cui conoscevo il lavoro. Non vi racconterò la mia vita, ma queste morti mi toccano molto perché sono cresciuta in una casa piena di libri e di fumetti, che mio padre collezionava quando ero piccola. Quindi potete capire che alcuni dei disegnatori li conoscevo fin dalla mia infanzia. Disegnavano per altri giornali prima che Charlie Hebdo esistesse, prima ancora che io nascessi; ed erano davvero divertenti. Prendevano in giro un po’ tutto e tutti. Voi sapete che mi piacciono gli scherzi, e quindi quando muore qualcuno che sa far ridere, mi arrabbio molto.
In secondo luogo sono triste perché ho avuto paura. Mia sorella minore è giornalista e ho avuto tanta paura per lei. Non lavora a Charlie Hebdo, lavora per la rubrica di cultura di un giornale e quando c’è stato l’attentato hanno chiuso tutti i cancelli e hanno mandato un sacco di poliziotti. Quando i giornali devono proteggersi, quando si deve avere paura per un membro della propria famiglia che fa il giornalista, è davvero spaventoso. Tutti voi sapete che cos’è la distopia, che stavamo studiando, e trovo delle somiglianze con quello che stiamo vivendo.
Infine sono triste perché so che ci andrete di mezzo anche voi. Ve lo dico perché penso che ci sia già troppa gente che vi addita senza motivo. Ve lo dico anche perché ho scelto di insegnare a Seine Saint-Denis, l’ho richiesto deliberatamente. Ve lo dico perché vi vedo tutto i giorni, vi conosco, so come siete e vi voglio bene. Vorrei che tutti vi vedessero come vi vedo io, ma so che non è così. Sono triste e preoccupata per voi, perché temo che siate attaccati perché siete di qui e perché alcuni di voi sono musulmani. Ora, mi farebbe piacere che voi mi diceste sinceramente ciò che pensate di quello che è avvenuto ieri».
Tutti hanno partecipato alla discussione. Ecco che cosa mi hanno detto. «Quelli là, Prof., non sono musulmani, sono dei fuori di testa. È peccato uccidere. Sono idioti, e andranno all’inferno: non hanno il diritto di uccidere la gente. Allah è l’unico che può giudicare; non abbiamo il diritto di giudicare.
Ma Prof., se i disegnatori ricevevano minacce di morte da tempo, perché hanno continuato? Avrebbero dovuto smettere e restarsene tranquilli. Hanno anche calcato la mano sempre di più, esagerando».
Ho spiegato che anch’io pensavo che il loro umorismo fosse spesso al limite. Ho spiegato che Charlie Hebdo non mi faceva più ridere da un po’ di tempo. Ho detto che hanno continuato per dimostrare che nessuno poteva impedire loro di fare quello che volevano. A rischio di non essere sempre fini, di non essere sempre divertenti.
Mi hanno chiesto di guardare qualche vignetta pubblicata da Charlie Hebdo. Ne ho proiettate alcune e le abbiamo analizzate insieme. «Quella è divertente, Prof.». «Quella è stupidissima». «Questa è davvero eccessiva».
La vignetta, la caricatura, come i testi di satira, sono basate sulla necessità imperiosa di una riflessione, su una ricerca dell’implicito che si acquisisce con il tempo, con lo spirito critico, con la lettura. Ho ricordato ai miei studenti qualcosa che dico ogni settimana: l’intelligenza è ciò che abbiamo di più prezioso, grazie ad essa possiamo capire non solo le parole e le immagini, ma anche quello che celano, che suggeriscono, quello che non dicono immediatamente.
Tutti hanno capito. Nessuno mi ha detto: «È giusto così», «Se la sono cercata», «Sono contento». Nessuno. Non ho dovuto condurli a dire nulla, l’hanno fatto da soli. I figli di Seine Saint-Denis non sono idioti.
E neanche io, insegnante, sono un’idiota. Non mi crogiolo nella demagogia disgustosa di cui spesso siamo ritenuti colpevoli. So che una manciata di studenti si sono rifiutati di osservare il minuto di silenzio, mentre la grande maggioranza l’ha rispettato senza problemi. Stranamente – o no – sono gli stessi studenti che, durante tutto l’anno, non rispettano né la scuola, né gli insegnanti. Gli stessi che vengono a scuola senza i libri, non studiano, non si preparano per le lezioni, disturbano in classe. Gli stessi i cui genitori non vengono a ritirare le pagelle. Gli stessi le cui famiglie non rispondono al telefono. Gli stessi di cui faremo fatica a frenare l’abbandono scolastico.
Non è una coincidenza.
La persona che diventiamo è il risultato sia dello sviluppo personale sia della nostra educazione, del nostro ambiente, del luogo dove viviamo. La riflessione personale può fiorire solo quando trova un terreno fertile. Se il terreno è compromesso dal lavaggio del cervello iniziato fin dall’infanzia, dai discorsi radicali di ogni tipo, dalle idee provocatorie, così facili da capire, così nette e schematiche, la riflessione personale, libera e ribelle non si può sviluppare e maturare. Il frutto è marcio ancor prima che il fiore sbocci.
Quello che dico è semplice, anche semplicistico, per qualsiasi persona di buon senso che abbia anche soltanto sfogliato un’antologia di letteratura, un manuale di filosofia per i licei o un libro di sociologia per principianti.
Noi, gli insegnanti del “93”, non riusciamo a volte a condurre questi studenti verso altre idee, a farli deviare dal percorso che è stato tracciato per loro dalla irresponsabilità di un discorso seducente perché facile da capire.
Sento il dovere oggi, sabato 10 gennaio 2015, di constatare che abbiamo davanti a noi una manciata di questi ragazzi. E che, tra tutti i nostri studenti di scuola media, la grande maggioranza è in grado di fare discorsi intelligenti, in grado di ascoltare ciò che diciamo, in grado di apprendere.
A quanti ancora ne dubitano sento anche il dovere di far capire che un bambino, condizionato fin dalla culla, potrà certamente dire cose stupide, scioccanti, sconvolgenti. È evidente che va condannato. È essenziale però capire che si tratta di una minoranza. Essenziale. Indispensabile. Vitale. In ogni senso che può avere questo aggettivo. Poiché il mio intento, in questo testo un po’ lungo – e mi auguro che qualcuno lo legga fino alla fine – è quello di esprimere la profonda preoccupazione che nutro per la vita dei nostri colleghi, amici, studenti, cittadini musulmani. È di vitale importanza affermare tanto il nostro sostegno per coloro che hanno difeso la libertà di espressione fino alla fine, quanto il nostro sostegno alla maggioranza prostrata. L’islam. Quello vero.
Quando vedo un giornale nazionale, pochi giorni dopo l’attacco contro Charlie Hebdo, fare un reportage nel “93” per scoprire come hanno reagito gli studenti, mi interrogo, perché questa iniziativa “puzza”.
Perché il “93”? Nessuno dei terroristi veniva da Seine Saint-Denis. Nessuno. Perché il “93”?
Perché non andiamo a fare un reportage sugli orrori che devono aver pronunciato gli studenti i cui genitori votano Front National? Perché i giornalisti non sono andati davanti alle scuole delle città di Béziers, Fréjus, Hayange o Hénin-Beaumont2? Perché non ci danno il diritto di indignarci per i commenti di quei ragazzi che, purtroppo per loro, sono anch’essi imbevuti delle idee dei loro genitori e del loro ambiente così come la manciata di studenti del “93”?
Mi dispiace davvero che oggi, il giorno dopo l’attacco terroristico, gli studenti del “93” siano stigmatizzati e non capisco perché i media scelgano di titolare, in un gesto sensazionalista che davvero mi fa vomitare, «Gli studenti di Seine Saint-Denis non sono tutti Charlie».
Gli studenti di Seine Saint-Denis non hanno chiesto nulla. Vorrebbero essere lasciati in pace, per una volta, che la smettessimo di accendere i riflettori su di loro non appena qualcuno del fronte fondamentalista islamico dice o fa qualcosa di terribile.
Si chiede di non fare confusione, di non mettere sullo stesso piano cose diverse.
Solo che noi guardiamo sempre nella stessa direzione quando qualcosa non va. Così si ammaestra l’inconscio dei lettori, anche dei più intelligenti, a creare un’associazione di idee tra un attentato terroristico e quei ragazzini di Seine Saint-Denis, che non rappresentano la maggioranza e sono condizionati dall’ambiente in cui sono nati.
Sì, ci sono dei poveri deficienti a Seine Saint-Denis. Sì, ci sono alcuni che sono molto contenti che abbiano sparato in testa a Charb.
No, non tutti i figli di Seine Saint-Denis sono favorevoli agli attentati. No, non tutti i figli di Seine Saint-Denis sono d’accordo con il fondamentalismo islamico. È piuttosto il contrario. Alcuni hanno spontaneamente scritto delle difese appassionate della libertà di espressione. Altri hanno fatto delle osservazioni più intelligenti di alcuni adulti. Altri hanno pianto leggendo la poesia Liberté di Paul Eluard.
Puntando le telecamere e i registratori su una manciata di idioti, ci si dimentica dell’intelligenza degli altri e della propria.
In questo momento, alcuni musulmani sono aggrediti, alcune moschee sono incendiate, ricoperte di graffiti, oltraggiate.
Scrivo questo testo per i miei studenti del “93”, per la comunità musulmana, per tutti coloro che saranno nell’ombra di un pugno di idioti oscurantisti che non hanno niente altro da fare che macchiare le sure del Corano.
Sono solidale con tutti quelli che non sono ascoltati.
Sono francese. Voi siete francesi.
1 Tutti i nomi citati sono di vignettisti famosi nei loro Paesi. [N.d.R.]
2 Le città menzionate sono accomunate dal fatto di essere governate da un sindaco del Front National dopo le lezioni amministrative del 2014. [N.d.R.]
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