Non solo toghe: la giustizia oltre le polemiche
Alcune riflessioni aiutano a capire come restituire il tema della giustizia a un’agenda politica di riforme istituzionali, sottraendolo alla polemica.
«I conflitti ricorrenti tra politica e giustizia si affrontano
assicurando che ciascun potere – quelli politici, legittimati dal
processo democratico, e quello giurisdizionale, legittimato dal dovere
di applicare la legge in conformità alla Costituzione – operi nel
proprio ambito senza indebite interferenze in un quadro di reciproca
indipendenza, di leale collaborazione, di comune responsabilità
costituzionale». Queste parole del Gruppo di lavoro sulle riforme
istituzionali recentemente nominato dal Presidente della Repubblica
fotografano, seppur con una formulazione anodina, un problema annoso. Da
tempo la questione giustizia è al centro delle preoccupazioni di
cittadini e istituzioni e da più parti viene espressa la valutazione di un «funzionamento gravemente insoddisfacente dell’amministrazione della giustizia»,
tanto che «è ormai chiaro che vi si deve far fronte con efficaci
innovazioni sul piano normativo, ma anche con la diffusione di buone
pratiche, nel segno di una nuova cultura dell’organizzazione»
(NAPOLITANO G., Discorso al CSM per la chiusura della consiliatura, 31 luglio 2010, in <www.csm.it>).
Tuttavia, nelle discussioni politiche e sulle prime pagine dei giornali,
il tema della giustizia appare non in relazione a problemi che
impattano sulla garanzia dei diritti dei cittadini, quanto attraverso
una focalizzazione, talvolta ossessiva, sulla magistratura: di qui
l’attenzione ai giudici – come singoli e come corpo –, sui pool,
sulle procure, sulla tempistica della loro azione. Questo riferimento
alla magistratura come attore istituzionale della giustizia non avviene
per invocarne un potenziamento dell’organico o della disponibilità di
risorse operative, a fronte di una mole crescente di procedimenti
pendenti, e neppure perché se ne mette in discussione la preparazione
professionale: il dibattito, e più spesso la polemica, si concentrano sulla persona di singoli magistrati.
Anche nella considerazione degli effetti dell’azione del sistema
giudiziario sull’attività economica, in particolare in questo tempo di
crisi, anziché mettere a fuoco il sistema nel suo complesso, non pochi
commentatori individuano a colpo sicuro nei magistrati la causa del
problema del malfunzionamento della giustizia (cfr SUNSERI N.,
«Parlamento e oscuri presagi», in Giornale di Sicilia, 17 marzo 2013).
Perché quest’angolo visuale ha finito col prendere il sopravvento su
ogni altro approccio? In casi analoghi questo non accade: ad esempio, il
dibattito sull’inefficienza della politica è riuscito a mettere a fuoco
e a trasmettere l’idea che i problemi non sono tutti da addebitare a
chi ricopre incarichi di governo, ma in parte vanno ricondotti ai
dispositivi istituzionali e alle regole del loro funzionamento.
L’azione della magistratura, tra luci e ombre
L’azione della magistratura è un lavoro quotidiano, su tutto il
territorio nazionale, in sedi grandi e piccole, in uffici – tutto
sommato pochi – che trattano vicende che finiscono in prima pagina, e in
altri, la maggioranza forse, che si dedicano al non meno importante
compito di dare attuazione ai principi costituzionali di democrazia,
legalità, libertà e uguaglianza attraverso l’applicazione della legge.
Un grandissimo numero di donne e di uomini riconosce nella magistratura,
e non da oggi, un’interlocutrice affidabile per organizzare la propria
esistenza in maniera dignitosa, anche in tempi difficili, e sentirsi
tutelata nei casi di bisogno. A fianco di questo impegno quotidiano,
ricordiamo il ruolo straordinario che la magistratura ha saputo svolgere
in momenti eccezionali, come durante le stagioni del terrorismo. Li ha
affrontati con strumenti ordinari, dando espressione della scelta del
Paese di rimanere nell’alveo del sistema democratico e della legalità.
Infine, in misura sempre crescente, la magistratura si ritrova a
garantire un presidio ultimo sulla tenuta del sistema, dimostrando,
insieme a poche altre istituzioni, una costanza di servizio capace di
attraversare i cicli di crescita e di crisi del nostro Paese e gli alti e bassi del protagonismo degli altri attori della vita civile e sociale.
A questo ruolo rimanda l’omaggio discreto, fuori programma, quasi del
tutto sfuggito all’attenzione mediatica, che Benedetto XVI ha riservato
al monumento commemorativo della strage di Capaci, lungo il tragitto
autostradale verso l’aeroporto, a conclusione della visita a Palermo nel
2010: un gesto di riconoscimento e di riconoscenza alla memoria di
persone che nel lavoro ordinario e a prezzo della vita hanno servito il
bene comune.
In questo quadro non vanno tuttavia trascurati alcuni atteggiamenti che
contribuiscono ad attirare l’attenzione sulla persona di singoli
magistrati più che sul loro lavoro. Vi è in alcuni esponenti
dell’ordine giudiziario la tendenza a “personalizzare” e
“spettacolarizzare” la propria attività, anche con l’utilizzo del
sistema mediatico o entrando direttamente in politica. In questa
direzione va, ad esempio, la partecipazione al dibattito pubblico in
contesti che lo connotano come contrapposizione tra parti politiche, con
la conseguenza di essere percepiti come più o meno organici all’uno o
all’altro dei contendenti. Come ha sottolineato la già citata relazione
del Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali, «La dimensione moderna
della indipendenza del magistrato si configura anche nei confronti dei
mezzi di comunicazione, che costituiscono un potere rilevante nelle
moderne società democratiche. Per la quantità di poteri discrezionali
che esercita nei confronti della reputazione, della libertà e dei beni
delle persone, il magistrato deve non solo essere ma anche apparire
indipendente, non schierato con alcuna parte, pena la perdita della
fiducia e della reputazione, che costituiscono un patrimonio essenziale e
indisponibile per tutte le magistrature. È necessario rendere effettive
le regole e i codici deontologici che vietano al magistrato un uso
improprio e personalistico dei mezzi di comunicazione».
Inoltre restano sostanzialmente non chiarite le responsabilità nelle
periodiche fughe di notizie che permettono l’uso mediatico di alcune
inchieste, spesso prima della loro conclusione e dell’apertura della
fase processuale. In altri casi il problema va al di là della
correttezza del comportamento del singolo magistrato e rimanda a più
complesse dinamiche istituzionali. Se l’operato o le decisioni di
singoli magistrati possono sempre apparire opinabili e discutibili (non a
caso l’ordinamento prevede più gradi di giudizio), va ricordato come sovente
le polemiche, anche feroci, si scatenano in occasioni in cui la
magistratura è obbligata a intervenire, a posteriori, in situazioni
lasciate degenerare da attori che avevano la possibilità o il compito di
agire in via preventiva. Il recente caso dell’ILVA di Taranto ha
mostrato in maniera evidente i limiti nella possibilità di guarire
ferite sociali dolorose di cui dispone chi, come la magistratura, può
intervenire soltanto a reato commesso: che si tratti di disastro
ambientale o di incidenti stradali occorre invertire questo modo di
procedere e ristabilire la logica sequenza istituzionale.
Ugualmente non si può pretendere che sia la magistratura a surrogare le
diverse componenti della società (dalla politica, all’impresa, alla
società civile fino alla famiglia) nello svolgere un ruolo di mediazione
e di composizione dei conflitti che dovrebbero approdare in un’aula di
tribunale solo come ultima istanza, ed essere invece affrontati in altre
sedi, con altri strumenti e presumibilmente con maggiore efficacia. Se
il sistema giudiziario ha il compito di risolvere singole liti, non può
ragionevolmente essergli accollato quello di gestire e contenere la
litigiosità della società nel suo insieme.
In queste pagine non è possibile scendere in un’analisi più
approfondita. Resta importante però proiettare i singoli casi concreti
su uno sfondo complessivo, sfuggendo alla logica della demonizzazione
che spesso sembra imperare, o nella forma di un “tiro al bersaglio” nei
confronti di uno specifico magistrato, o nella delegittimazione
dell’intera categoria. In questa luce, le ragioni storiche alla base degli attuali assetti istituzionali previsti dalla Costituzione non sembrano superate.
La loro intenzione è attuare i principi costituzionali di autonomia e
indipendenza della magistratura e integrarne l’organo di autogoverno (il
Consiglio Superiore della Magistratura) con una significativa
componente esterna. La ratio democratica di quelle scelte resta attuale e va preservata.
Tensioni e trappole
Questa ricostruzione di un sistema, dei suoi punti di forza e di
debolezza, alla luce del mandato costituzionale rischia però di
naufragare nelle polemiche talvolta roventi tra posizioni opposte, in
particolare in merito al rapporto tra politica e giustizia. È inutile
nascondere che da troppo tempo la questione della giustizia è stata di
fatto “requisita” dalle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi. Questa
personalizzazione rappresenta un danno per l’intera collettività,
perché blocca un dibattito che invece riguarda la società nel suo
insieme. Così, se da un lato è fondamentale che si “faccia giustizia”
anche in quelle vicende processuali, dall’altro ci sembra giunto il momento di “dissequestrare” il tema della giustizia.
Per troppo tempo, infatti, il dibattito sulla giustizia è rimasto
schiacciato in mezzo alla battaglia tra opposte fazioni, che ha
soffocato qualsiasi tentativo di proporre un’argomentazione pacata. Vi è
infatti chi ritiene che il problema centrale sia l’uso improprio del
sistema giudiziario da parte di alcuni giudici; secondo questa
ricostruzione, la magistratura starebbe travalicando il proprio ambito e
condizionando la vita democratica in funzione di un preciso disegno
ideologico. Secondo altri, invece, tutto funzionerebbe secondo quanto
previsto dalla Costituzione, anzi i magistrati starebbero impedendo uno
stravolgimento del sistema democratico da parte di forze sociopolitiche
connotate come scaltre e geneticamente insofferenti delle regole.
Infine, e questo non fa che aumentare la confusione, i sostenitori delle
due posizioni non formano gruppi stabili, ma si ricollocano (talvolta a
parti invertite) sulla base delle opportunità contingenti.
Il rischio – questo sì contrario al dettato costituzionale – è che
l’ordine giudiziario si ritrovi risucchiato di fatto all’interno della
polemica politica e strumentalizzato dalle logiche di parte: «la
vera trappola nella quale tutta la politica ha messo i magistrati è di
averli adoperati come parte dello scontro» (BERRUTI G.M., «I
magistrati nella trappola», in la Repubblica, 9 marzo 2011). Come
se non bastasse, la stessa magistratura arriva a chiamare a proprio
sostegno le forze attualmente già schierate, in un modo o nell’altro,
sul tema della giustizia. E quando l’intreccio di queste posizioni
sceglie di esprimersi e di proiettarsi in modo quasi esclusivo sulla
sola arena mediatica, inevitabilmente ci ritroviamo condannati alla
riproduzione di un medesimo copione.
Per uscire dal circolo vizioso
Non è probabilmente un caso che quanto più impazzano le polemiche
sui magistrati, tanto meno vivace è il dibattito sulle proposte di
riforma che pure sono state avanzate e meriterebbero una discussione che
entrasse nel merito. Ma non deve stupire che in uno spazio pubblico
così saturo di approcci riduttivi al tema manchino le opportunità di un
confronto serio e costruttivo.
Questo non può prescindere da un punto fermo: la magistratura è stata e
continua a essere un attore costituzionale essenziale al sistema
democratico. In questa luce ci pare inaccettabile qualunque discorso che
ritenga aperta la questione della legittimazione della posizione della
magistratura nell’assetto costituzionale, pensando magari di
condizionarla al modo in cui essa svolge la propria funzione in
relazione alle richieste del mondo politico. La questione della
legittimazione della magistratura non può porsi semplicemente perché
essa è già risolta una volta per tutte dalla Costituzione. Per
questo, ogni argomento avanzato a sostegno della legittimazione della
magistratura – anche con le migliori intenzioni – è una perversione
dell’intelligenza attuale della Costituzione: significa accettare di
entrare in un gioco pericoloso.
Ovviamente questo non significa affatto sostenere che allora tutto va
bene per definizione, che non esistono abusi e storture su cui
intervenire: ne abbiamo già indicati alcuni, e altri sono segnalati
dagli studiosi più attenti. Ad esempio, il sovraccarico di lavoro delle
procure rende oggi l’obbligatorietà dell’azione penale un principio
solennemente affermato, ma poi sostanzialmente disapplicato (e per di
più con notevoli disparità territoriali), mentre il nostro ordinamento
condivide con molti altri il problema della accountability dei
magistrati rispetto a decisioni errate o all’utilizzo delle risorse, e
delle eventuali relative sanzioni. Sono temi delicati, su cui un
dibattito e una successiva riforma paiono necessari.
Il gioco pericoloso, però, è quello che non mantiene le differenze tra
il generale e il particolare, tra i principi e la loro concreta
attuazione: un po’ come se il lungo stallo del Parlamento dopo le
elezioni dello scorso febbraio conducesse a mettere in dubbio la stessa
forma democratica (e non l’adeguatezza delle regole e delle persone a
cui il suo funzionamento è affidato).
Dopo anni di
intossicazione, sentiamo il bisogno di recuperare la consapevolezza che
semplificazioni e scorciatoie sono pericolose, perché troppo facilmente
si trasformano in cortocircuiti. Per questo ogni proposta di
riconfigurazione del rapporto tra giustizia e politica va collocata in
una visione sistemica: è in gioco l’articolazione dei rapporti tra i
poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) secondo il
principio della loro separazione e all’interno degli standard
giudiziari europei.
È ormai conclamato: le condizioni in cui
versa la giustizia sono gravi e non più tollerabili. In particolare,
l’attorcigliamento tra politica e giustizia si configura sempre più come
una prospettiva sterile e una deviazione fuorviante dai termini reali
della questione. Al riguardo, i comuni cittadini e l’associazionismo più consapevole possono svolgere un ruolo decisivo
nel riappropriarsi del tema della giustizia, sottrarlo all’attuale
dinamica conflittuale, restituirlo a una ragionevole agenda politica di
riforme istituzionali propria di una democrazia moderna: hanno il
diritto e – aggiungiamo oggi – il dovere di farlo. È un percorso
realizzabile e produrrà effetti benefici per il funzionamento
dell’intero apparato istituzionale del Paese, con importanti ricadute
per la vita economica, sociale e civile.
I protagonisti dell’attuale impasse
vanno aiutati ad abbandonare prospettive sterili e a investire le
energie attualmente impegnate nella polemica per far compiere dei passi
in avanti al dibattito: le sintetiche indicazioni che abbiamo esposto ci
confermano che è possibile. Per procedere in questa direzione, gli
snodi istituzionali a garanzia di una visione unitaria del sistema
costituzionale, in particolare il Parlamento, il Presidente della
Repubblica e il Vicepresidente del CSM, sullo sfondo del processo di
integrazione europeo in corso, costituiscono dei riferimenti
fondamentali e mettono a disposizione un patrimonio unico per rimetterci
in cammino.
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